|   “La Repubblica   riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le   condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino   ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,   un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale   della società”. Articolo 4 della Costituzione italiana   “Credo che uno   sciopero debba essere sempre, oltre che scienza, un’opera d’arte,   un’invenzione. Si organizzano e si fanno scioperi nazionali di milioni di   personeche non riescono a incidere, non colpiscono l’attenzione della gente come   dei movimenti anche di piccoli gruppi che però sanno   inventare esattamente. E’ una questione di precisione: precisione morale e   tecnica”. 1 Danilo   Dolci   Diritto al   lavoro e diritto di sciopero   Ormai le   manifestazioni di protesta per difendere il diritto al lavoro, organizzate   non solo dai sindacati, sono quotidiane. Questo autunno sta diventando   “caldo”, mentre l’Italia cade “a pezzi” per il suo dissesto idrogeologico e   appare uno “sfasciume pendulo sul mare”. Le cifre della disoccupazione,   soprattutto giovanile, e di quella del sud d’Italia, sono allarmanti. Siamo   in presenza di una emergenza sociale e politica, non solo economica. Che dire? Che   fare? Quali sono le prospettive? Per alleviare   la crisi, stanno funzionando come “ammortizzatori sociali” gli aiuti che   danno i genitori ai figli disoccupati, ed anche i nonni ai nipoti, facendo   ricorso ai risparmi di una vita. Quando questi risparmi saranno esauriti,   cosa potrà succedere? E’ esagerato parlare di allarme sociale? Se   consideriamo l’articolo 1 della nostra Costituzione che recita:“L’Italia è   una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, c’è da chiedersi: cosa può   succedere se alla Repubblica viene a mancare il suo fondamento? C’è il   pericolo che la Repubblica crolli? Questo   pericolo viene avvertito dai nostri governanti? Le   manifestazioni di protesta hanno effetto sulla politica governativa? Anche il   diritto di sciopero è garantito dalla nostra Costituzione, ma gli scioperi si   stanno rivelando inefficaci. Cosa dobbiamo aspettare? L’assalto ai forni, di   manzoniana memoria? Ormai gli   scioperi sembrano atti di un rituale liturgico. E c’è sempre il pericolo   della loro degenerazione. Cos’è, cosa   significa “sciopero”? Varie forme   di sciopero. Cerco la   parola “sciopero” sul Vocabolario (di Nicola Zingarelli, Zanichelli, 1995): “Astensione   collettiva dal lavoro da parte di lavoratori, per raggiungere determinati   fini d’ordine sindacale (economico o normativo) oppure sociale e politico”. Nello stesso   Vocabolario leggo varie forme di sciopero: “s.   articolato, s. generale, s. a oltranza, a tempo indeterminato, s. a catena,   s. a scacchiera, s. a singhiozzo, s. a sorpresa, s. bianco, s. selvaggio, s.   di solidarietà, s. della fame”. Lo sciopero è   considerato e praticato come una delle tecniche della nonviolenza. “L’etimologia   stessa di scioperare da ‘ex-operare’ indica il significato di aver finito di   lavorare e anche di abbandonare il lavoro deliberatamente. E’ dunque una   forma di non collaborazione, e la più nota e la più usata. S’intende che lo   sciopero è una tecnica nonviolenta quando non compie alcuna violenza, neppure   nel difficile caso dei non scioperanti o krumiri, e non è animato da odio   verso coloro dai quali stacca la collaborazione. … Una forma   interessante di sciopero e spiccatamente nonviolenta, è lo “sciopero a   rovescio”. Lo attuò felicemente Danilo Dolci il 2 febbraio 1956, …”. 2 Ma è da   riprendere una definizione da un pensiero di Danilo Dolci, riportato in   epigrafe: “Credo che   uno sciopero debba essere sempre, oltre che scienza, un’opera d’arte”. UNO   SCIOPERO STORICO: LO “SCIOPERO ALLA ROVESCIA” DI DANILO DOLCI (1956) Lo “sciopero   alla rovescia” fu una clamorosa forma di protesta che nel 1956 DANILO DOLCI   (1924-1997) attuò a Partinico, in Sicilia, con centinaia di disoccupati per   denunciare pubblicamente l’estrema miseria, affermando il diritto al lavoro,   anche sancito dall’articolo 4 della Costituzione italiana. Fu arrestato con 4   sindacalisti e subì uno dei suoi tanti processi, conclusosi con la condanna. E’ passata   alla storia col nome di “scioperi a rovescio” l’esperienza di lotta   nonviolenta del movimento operaio e contadino nel secondo dopoguerra, a   cavallo tra gli anni 40 e 50, considerata come illegale e repressa dalla   polizia. Fu uno degli episodi più importanti del conflitto sociale,   verificatosi in gran parte nell’Italia meridionale, che rischia di scomparire   dalla memoria storica. Quella   esperienza venne considerata una grande invenzione di lotta nonviolenta dei   senza lavoro che non potevano scioperare in quanto disoccupati. In quel   contesto si inserisce la vicenda del cosiddetto “sciopero alla rovescia” di Danilo   Dolci. Ma fu come una reinvenzione degli altri scioperi, per le finalità e le   modalità della preparazione e dello svolgimento. Fu il più noto e il più   esemplare. Da una   significativa pubblicazione del 1956, raro documento storico: “La   manifestazione nella Trazzera Vecchia è uno dei cento episodi verificatisi   nel corso dell’ultimo rigidissimo inverno dell’Isola, dove la fame ha   raggiunto proporzioni allarmanti: nel quadro delle lotte per il lavoro ai   disoccupati, per l’imponibile di mano d’opera, delle proteste dei lavoratori   affamati, è un episodio né più imponente né più drammatico di tanti altri; né   si può dire che in questo caso il Governo si sia mostrato più impreveggente   che altrove, o la polizia più ottusa. Ma la presenza   di Danilo accanto agli uomini delle Leghe e della Camera del Lavoro ha dato   un’impronta insolita alla manifestazione, ha conquistato nuovi alleati, ha   fatto convergere su di essa l’attenzione dell’intero Paese. Giornalisti,   fotografi, operatori cinematografici sono lì all’alba del 2 febbraio 1956,   assistono all’inizio del lavoro, alla assurda operazione della polizia contro   chi sta compiendo un diritto ed un dovere prescritto dalla Costituzione;   vedono Danilo, il Segretario della Camera del Lavoro, Salvatore Termini, e   gli altri braccianti presi di peso dagli agenti e caricati sulle camionette.   Gli articoli, le fotografie, le notizie dell’arresto si diffondono in poche   ore in tutta Italia e all’estero. … Bisogna   riconoscere che Danilo per la sua personalità, per le sue amicizie, per la   preparazione minuziosa, ha una capacità eccezionale di porre all’attenzione   del pubblico dei gravi problemi facendoli emergere in tutta l’evidenza da un   singolo caso, uguale a tanti altri che pure non sono riusciti a colpire. … Si può dire   che i lavoratori di Partinico abbiano compiuto un passo decisivo in quel   giorno nello sviluppo della coscienza e della maturità politica. … Ma forse più   ancora che nella trazzera il valore dell’opera di Danilo è apparso nel   processo. Il Tribunale di Palermo in quella occasione si è trasformato in una   Assise nazionale in cui gli imputati divenivano accusatori e tutta la cultura   italiana era chiamata a testimoniare sulla legalità, moralità, santità dei   principi che avevano spinto sul banco degli accusati i difensori della   Costituzione, del progresso, dei più alti diritti umani. Anche per   quella parte dell’opinione pubblica che resta assente e sorda dinnanzi a   centinaia di processi, a migliaia di arresti alle repressioni alle violenze   agli attentati contro la libertà, la cortina del silenzio e dell’indifferenza   è stata spezzata. Il processo   per i fatti di Partinico è divenuto così uno dei processi più celebri del   dopoguerra e da esso sono emerse le piaghe, la miseria, la fame del   Mezzogiorno, la necessità delle riforme, l’esigenza di difendere e di attuare   la Costituzione italiana”. 3 Vasta è la   bibliografia di e su Dolci, alla quale fare ricorso per la documentazione di   quella vicenda storica. Fondamentale è il libro Processo all’articolo 4,   “quasi tutto scritto all’Ucciardone, il carcere di Palermo, nei due mesi che   vi rimasi dopo l’arresto”. 4 “Processo   all’articolo 4, quando esce da Einaudi nel 1956, reca in copertina il nome   Danilo Dolci in seconda fila, fra quelli di avvocati, scrittori e   intellettuali, insomma gli autori plurali del libro. E’ una scelta   grafica che ha evidenti ragioni tattiche, per evitare di compromettere   ulteriormente la posizione processuale che si ritorcerebbe contro lo   scrittore, proprio a causa di quel libro se portasse la sola firma di Dolci”   (Beneduce). Ma il nome   Danilo Dolci, come autore, è in copertina del libro ristampato nel 2011, con   la Postfazione di Pasquale Beneduce (Sellerio editore, Palermo). Dal risvolto   della prima di copertina di questo volume: “Il 2 febbraio   1956 Danilo Dolci veniva arrestato mentre guidava un gruppo di braccianti a   lavorare nella Trazzera vecchia, una strada nei pressi di Partinico   abbandonata all’incuria. Al commissario di polizia che era intervenuto per   interrompere quello «sciopero alla rovescia», come venne chiamato, Dolci   rispose che «il lavoro non è solo un diritto, ma per l’articolo 4 della   Costituzione un dovere: che sarebbe stato, era ovvio, un assassinio non   garantire alle persone il lavoro, secondo lo spirito della Costituzione».   L’accusa era di occupazione di suolo pubblico e resistenza a pubblico   ufficiale e a Dolci e ai suoi venne negata la libertà provvisoria. L’opinione   pubblica allora si mobilitò contro la polizia e il governo Tambroni, deputati   e senatori intervennero con interrogazioni parlamentari, le voci più   influenti del paese si schierarono a fianco di Dolci. Ciò che avvenne intorno   allo sciopero alla rovescia di Trazzera vecchia, nelle piazze, nelle camere   di polizia, sui giornali, nei tribunali, fu lo scontro sui modi opposti di   considerare la legalità in Italia: la Costituzione, come regola vivente dei   cittadini, contro la pratica dell’autoritarismo gerarchico, eredità fascista.   Da qui il titolo del libro, che significava che le autorità trascinavano alla   sbarra, non tanto il gruppo dei manifestanti, quanto la Costituzione stessa”. Vale la pena   notare che in quello storico processo deposero, tra gli altri, come testimoni   per la difesa: Norberto Bobbio, Lucio Lombardo Radice, Carlo Levi, Elio   Vittorini. La difesa, a titolo gratuito, fu di Piero Calamandrei, uno dei più   grandi nostri Padri costituenti. Il libro non   contiene solo gli atti del processo, ma anche una serie di documenti che lo   precedono: -Appelli di Dolci inviati alle maggiori autorità italiane e alla   stampa; -Testo di una   trasmissione alla Radiotelevisione; e, dopo la   sentenza, una Lettera di Dolci alla stampa. In Appendice a   questo mio scritto vengono riportati passi scelti. Da segnalare   il libro curato da Giacinto Spagnoletti, già citato. La sua prima edizione è   del 1977 (Mondadori, Milano). E’ una lunga intervista a Dolci e contiene un   capitolo dedicato allo “sciopero alla rovescia”. Dolci dice   dell’attività e del digiuno che condussero allo “sciopero alla rovescia”. Poi   racconta come si svolse lo sciopero, il suo arresto e come passò i due mesi   in cui rimase in carcere. Quindi dice delle reazioni e delle minacce che   seguirono il processo stesso. PERCHE’   RICORDARE OGGI LO “SCIOPERO ALLA ROVESCIA”? DANILO   DOLCI, IERI E OGGI “Chi insegna,   a scuola o all’università, assiste di anno in anno alla scomparsa dalla   memoria collettiva di nomi e volti che ci erano una volta familiari. Danilo   Dolci è una di queste figure, lentamente ma inesorabilmente, ha completato la   traiettoria dell’inabissamento nel mare dell’oblio. Anche i suoi compagni e   collaboratori avanzano negli anni e ci vanno lasciando”. 5 Bisogna dire   che non mancano iniziative per ricordare Dolci, come, per esempio, la   ristampa delle sue opere. Ma non si dimostrano sufficienti per far percepire   al grande pubblico l’attualità del suo pensiero e della sua opera. Perché? Dolci fu   sempre in anticipo sui suoi tempi. Non dobbiamo   dimenticare le vicende della sua vita. Non possiamo dimenticare i processi,   il carcere, e tutte le altre avversità. “La dimensione   profetica di Danilo Dolci si coglie bene nel contesto storico odierno, in cui   emergono potenziati gli effetti congiunti e perversi dello spreco, della   violenza, della falsificazione sistematica. Attento al processo di evoluzione   della vita nel cosmo e a quello della storia, di cui denunciava i misfatti,   egli mirava a suscitare le capacità latenti di ciascuno, superando ogni   barriera di classe, genere, età, etnia, cultura. Sperimentava che la   comunicazione interpersonale, sostenuta dalla riflessione genuina sull’uomo e   sul cosmo, alimenta la passione per il bene comune e aiuta a percepire la   complessità e le risorse inesplorate del reale, in vista del futuro. Su   questo si fondava la sua «scienza della speranza». 6 Ci fu una   evoluzione coerente nel pensiero e nell’opera di Dolci, ma non è questa la   sede per esaminarla. Col passare degli anni, dopo la morte avvenuta il 30   dicembre del 1997, il suo messaggio rivela una carica profetica, al di là del   mito. L’ “ultimo”   Dolci. Ho già   ricordato Dolci a novant’anni dalla nascita sul giornale on line “il   dialogo”, con la mia testimonianza personale, dalla Calabria. 7 Ho notato che   l’opera Comunicare, legge della vita (La Nuova Italia, 1997) può essere   considerata emblematica e riassuntiva della sua vita e del suo pensiero. In essa   leggiamo: “Una malattia   ci intossica e impedisce: la vita del mondo è affetta dal virus del dominio,   pericolosamente soffre di rapporti sbagliati. Non un nuovo   Golia occorre denunciare, né estranei nemici ma, nei più diversi ambiti,   ripensare e rifondare il modo e la qualità dei nostri rapporti, di ogni   genere di rapporto. Talmente   abituati siamo a questa malattia, che ci è arduo concepire la salute.   Sappiamo quale mondo vogliamo? L’antico virus   va tramando strategie inedite. Una frode sottile ma vasta degenera il mondo,   acuta, sistematica, mentre il rapporto esclusivamente unidirezionale nel   tempo tende a passivizzare l’altro, gli altri, e a divenire violento. Ove le   bombe non bastano, l’inoculazione, la trasmissione propagandistica vengono   più e più camuffate da comunicazione. Malgrado   puntuali denunce, finora inadeguate, questa strategia (condotta da persone,   gruppi, Stati) subdolamente tende a strumentalizzare la gente, rendendola   indifesa e acquiescente. Il bambino, il giovane, il passante nella strada   difficilmente può difendersi dalla ingegneria del consenso finché non sa che   esiste, e come ordisce, sostenuta da apparati e investimenti smisurati. I maggiormente   pericolosi predatori e parassiti umani perlopiù ragnano legalmente e   nell’oscuro. Sovente l’usurpatore e i suoi strumenti vengono esaltati e   incentivati dagli stessi oppressi. Insano è frodare, ma anche lasciarsi   parassitare, divenendo complici. L’adeguarsi all’ordine del dominio implica   la responsabilità del dominatore che quella di chi si lascia dominare. Tanto più a   fondo questo contagio penetra quanto più riesce ad assoldare anche notevole   parte degli istituti universitari, accademici e scolastici, oltre ai quadri   politico-industriali direttamente implicati e, ovviamente, gli stessi loro   mezzi di informazione. Spacciandosi, talora con inconscio cinismo, per   scientifico progresso. Molti   strumenti del dominio sfuggono al controllo democratico, sfuggono alla   coscienza popolare. La massima   parte dell’informazione mondiale entro poco tempo rischia di essere concentrata,   filtrata e adulterata da pochi gruppi dominanti. Il falsare erode, corrompe,   disintegra la vita. Arduo è   liberarsi dell’inganno che diviene norma. Chi non medita, non pensa   liberamente, non distingue tra l’ipnotizzante trasmettere e il comunicare”. 8 E’ una   diagnosi acuta della malattia del nostro tempo. In essa e nella breve e   inusuale ‘prolusione’ che Dolci ha letto a Bologna il 13 maggio del 1996, in   occasione del conferimento della laurea honoris causa in Scienze   dell’Educazione, c’è il grido di allarme di un profeta. Chi è il   profeta? Varie sono le   risposte. Senza fare la   storia dei profeti e della profezia, possiamo dire che il profeta è colui che   annuncia e denuncia. Nella Bibbia   erano definiti profeti coloro che denunciavano le ingiustizie e i mali del   mondo, indicando la via per il loro superamento. “Il profeta   non vede il futuro, vede il presente. Vede nel presente quello che gli altri   non vogliono ascoltare. Soprattutto ciò che riguarda la difesa della vita e   la netta condanna di qualsiasi guerra e ingiustizia. … Un profeta   non si ferma alle parole, alle affermazioni di principio, ai proclami.   Convalida tutto con i fatti, rimettendoci spesso la libertà se non la vita. … Profezia è   scontro con il potere” (Pasquale Iannamorelli). 9 Se queste   risposte sono valide, possiamo dire che valgono a definire il carattere del   pensiero e dell’opera di Dolci. Profezia e   utopia di Danilo Dolci. Per la   concezione del rapporto tra il tempo presente e quello futuro, nel contesto   della sua visione del mondo e della vita come “creatura di creature”, si può   dire che in Dolci ci sia la tensione verso il futuro come nel   “maestro-profeta” di Aldo Capitini e don Lorenzo Milani. Lapidarie   nella loro espressività le parole di don Milani: “… il maestro   deve essere per quanto può profeta, scrutare i «segni dei tempi», indovinare   negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che   noi vediamo solo in confuso”. 10 “In una   concezione profetica della storia il futuro è continuamente da inventare e da   promuovere: il futuro non è né la sintesi dialettica del passato, né un   momento successivo di un processo ascendente (o discendente); ma è il   radicalmente nuovo, tanto conoscitivamente imprevedibile quanto praticamente   nelle sole nostre mani. … Il profeta,   in quanto volto alla realtà da liberare, è proteso verso il futuro”. 11 Vengono in   mente titoli di libri di Dolci: Verso un mondo nuovo (Einaudi, 1964),   Inventare il futuro (Laterza, 1968). Profezia e   utopia, spigolando in alcuni libri di Dolci. Sul tema dei   cambiamenti necessari, per “inventare il futuro”, “per promuovere una nuova   storia”, riprendiamo brani dal libro curato da Spagnoletti e da alcuni libri   di Dolci. “E infine, a   chi obietta che finora nella storia non sono stati possibili cambiamenti strutturali   con metodi nonviolenti, che non sono esistite rivoluzioni nonviolente,   occorre rispondere con nuove sperimentazioni per cui sia evidente che quanto   ancora non è esistito in modo compiuto, può esistere. Occorre promuovere una   nuova storia”. 12 “… è decisivo   sapere maturare l’utopia dell’omega. Solo così i limiti, i limiti di sempre,   possono venire superati attraverso tentativi continui: nell’intuizione   dell’omega. Il nuovo futuro, l’orizzonte utopico deve essere plasmato da   ciascuno, perché la vita umana acquisti un senso, tenendo conto della storia,   delle necessità, ed elaborando nuove scelte: imparando a immaginare e a   realizzare nuovi sogni. Torno a   ribattere il mio chiodo: vince il sogno se riesce a liberare la sua materia.   L’autoanalisi personale, l’autoanalisi di gruppo, l’autoanalisi popolare sono   indispensabili strumenti metodi, per pervenire alla coscienza dei problemi,   all’individuazione degli obiettivi: e per maturare i presupposti al   cambiamento cioè le forze necessarie al cambiamento stesso. … Gli uomini   non hanno ancora imparato a sognare insieme, a elaborare la propria visione:   hanno appena iniziato a studiare dei metodi in questa direzione. Nella misura   in cui si forma, o si formerà, questa elaborazione utopica, questo progetto,   esso potrà agire come elemento di desiderio necessario per lo sviluppo   comune, via via si è maturi per esso. Non può esserci sviluppo se mancano   questi due elementi: in primo luogo il senso della necessità, la visione   scientifica della realtà, la scelta e la selezione nella storia; in secondo   luogo il senso comunitario della vita, l’aspirazione a progettarla insieme.   La capacità di elaborazione utopica non solo deve essere affinata a livello   individuale, ma a livello di gruppo e di gruppi di gruppi: questo va quasi   totalmente inventato dall’umanità, maturando qualità intuitive, artistiche,   elaborando tutti quei metodi di pianificazione democratica che occorre via   via studiare. … Il problema   – qui è il punto essenziale – non consiste soltanto nell’imparare a sognare   insieme tra gli uomini, ma in un certo senso insieme addirittura agli   uccelli, ai fiordalisi. … Soltanto a   una condizione il mondo può sopravvivere e sviluppandosi: il progetto della   città terrestre divenga l’impegno non solo di poeti, urbanisti, economisti e   scienziati di ogni settore. Divenga un capolavoro collettivo col contributo   di ciascuno, di ciascuno di noi”. 13 “L’immaginare   creativo opera oltre sé. Profeta, esprime nuova realtà: smette d’inchinarsi   riverente a chi distrugge distruggendosi, smette d’inchinarsi riverente alla   miope smania del principe, cerca nel governare corresponsabili prospettive”. 14 “… Utopia può   essere evasione nella illudente fantasticheria, la pretesa di imporre chiusi   schemi, ma utopia può esprimere la forza dell’ipotesi che occorre provare,   l’intuizione che raffigura il nuovo da progettare nel verificare. … Sapere   concretare l’utopia chiede, col denunciare, un annunciare capace di lottare e   costruire frontiere che valorizzino ognuno: l’educazione è rivoluzionaria se   si matura valorizzatrice, dunque maieutica”. 15 “L’utopia può   divenire pericolosa quando pretende imporre presunte perfezioni, se   l’orologio squadra le persone invece di segnare l’ora a incontri musicali,   vivi al ritmo dell’anima e del sangue. … Cercare di   organizzarsi, strutturarsi, per mirare ad una società in cui responsabilmente   si impari a comunicare creativi, è solo «critica di ciò che è», è solo un   sogno che trasfigura la realtà, è solo un’ «ipotesi di lavoro», un’utopia   politica, un’utopia biologica, o una sociale scienza-arte della speranza, una   condizione essenziale – verificabile anche scientificamente, concretamente –   per la salute dei singoli e del mondo? … E’ utile il   profeta, la scoperta del dire meditante che ricerca e interpreta presagi? E’   come domandarsi se il vedere – nelle ampie prospettive dei diversi spazi e   tempi – giova. … Dell’oscura   Calabria Gioacchino e Francesco sono soltanto due dei profeti, seppure   eccezionali di splendore. Se il veggente   esprime il desiderio di strutture pacifiche del mondo, nel secolo in cui   Gandhi solidifica gli strumenti di lotta e innovazione pacifica, dalla   Calabria ancora rigermogliano esperienze concrete a illuminarci. … Se i   futurologi – sempre esistiti nei più diversi modi – studiano tendenze, chi   attento al vicino e al più lontano con gli occhi dell’ascesi comunitaria   osserva pur studiando alternative necessarie, è un costruttore etico, un   poeta dell’etica profonda. Tra quelle di Agostino e Bonaventura, non è ancora   esaurita l’ermeneutica del calabrese abate Gioacchino: l’annunzio che inventa   costruendo il comunicare”. 16 NO COMMENT. TANTE   DOMANDE PER CONCLUDERE Quanti oggi   non riconoscono il realismo dell’utopia non rischiano di addormentarsi, di   spegnersi? Ma, ha   scritto Dolci, “se l’uomo non immagina, si spegne”. “Se   l’occhio non si esercita, non vede”. Non c’è   bisogno oggi, per affermare il diritto al lavoro e il diritto di sciopero, di   ripensare l’esperienza dello “sciopero alla rovescia” di circa sessant’anni   fa, per inventare con immaginazione creatrice nuove forme di lotta   nonviolenta? Oggi milioni   di persone fanno scioperi nazionali che, però, si rivelano inefficaci. In questi   sessant’anni l’Italia e il mondo sono cambiati, molta acqua è passata sotto i   ponti della storia. Ma il problema della disoccupazione rimane di drammatica   attualità. Lo “sciopero   alla rovescia” avvenne per riparare una strada comunale dissestata. Quella storia   deve essere conosciuta soprattutto dalle nuove generazioni. Oggi non solo   una strada comunale è dissestata, ma tutto il territorio nazionale. Ormai è   cronica la denuncia del dissesto idrogeologico e sono ricorrenti le frane nel   mese di novembre. Ma è l’incuria degli uomini a fare violenza al territorio,   facendolo franare. Lo   “sciopero alla rovescia” di Dolci, del 1956, ci interroga. Fame,   miseria, disoccupazione, possono essere comprese da chi non le vive? Chi   organizza, oggi, i milioni di senza lavoro per un nuovo “sciopero alla   rovescia”? Quelli   senza lavoro, che vivono la loro vita con le mani in mano, avvertono   l’esigenza di mobilitarsi per un nuovo “sciopero alla rovescia”? La storia   dello “sciopero alla rovescia” è oggi una provocazione per la coscienza di   ciascuno, di tutti, ma è anche una provocazione per le istituzioni. Dolci è   vivo e continua a interrogarci. La sua è   una “maieutica reciproca”. Chi vuole   rispondere? Palmi, 19   novembre 2014 Raffaello   Saffioti Centro Gandhi raffaello.saffioti@gmail.com P.S. Il libro di   DANILO DOLCI Processo all’articolo 4 (Sellerio editore, Palermo – 2011)   dovrebbe essere testo di educazione civica nelle scuole italiane. R. S.   APPENDICE Danilo Dolci Processo   all’articolo 4 (Sellerio   editore, Palermo – 2011) Passi scelti I Partinico, 27   novembre 1955 A tutti. Invito ogni   persona che ha una responsabilità, che sente di avere una responsabilità   pubblica, a digiunare almeno per un giorno per rinfrescare alla sua memoria,   se mai l’abbia saputo, cosa significa stare digiuno – come troppo spesso   stanno milioni di nostri fratelli, bambini e vecchi compresi, nel mondo, in   Italia. … occorre dare   lavoro subito ai disoccupati. … Da domani   digiunerò per una settimana. … Vostro DANILO (pp. 33-34) II Partinico, 28   novembre 1955 A Giovanni   Gronchi, Presidente della Repubblica, Antonio Segni,   Presidente del Consiglio, Giuseppe   Alessi, Presidente della Regione Siciliana Signori   Presidenti, l’azione che   intraprendiamo in questi giorni, consapevoli della difficoltà di realizzare   «il regno dei cieli e la sua giustizia», vuol essere un contributo sereno,   quel poco che possiamo, allo sforzo di tutti gli uomini di buona volontà. Certi che ci   capirete, oltre le parole, con affetto DANILO DOLCI (p. 37) III Torino, 13   gennaio 1956 (Dal testo   della trasmissione tenuta alla Radiotelevisione di Torino, a cura di   «Orizzonti») … Cosa si   spera a Partinico? Lavoro a   tutti, scuola ai bambini, ai ragazzi, a tutti; che si capovolga, anche in   quella zona, l’atteggiamento nei confronti della popolazione, specialmente   dei deboli, degli invalidi: un diverso rapporto tra tutti. … Ma urge la   costruzione della diga con la quale tutti potranno trovare lavoro. Intanto che   tutti i bene organizzati fanno scioperi per avere di più, e sanno farlo nelle   forme civili, i «banditi» chi li difende, chi li organizza? Anche i partiti,   spesso, nemmeno ci si mettono perché con «la gente bassa», col   «sottoproletariato», «si perde tempo», perché «non sono a livello   politico>. E i «banditi» rimangono gli ultimi: non avviene per loro quello   che avviene in una famiglia non dico brava, ma non criminale, dove il malato   è il più curato, il più amato. Non dico che   chi sciopera, oggi, fa male: anzi. Ma perché, chi sa, non sciopera prima di   tutto perché abbiano quelli che non hanno? … Da quando,   lasciando aperta la porta, vedo bambini, bambini, bambini guardarmi in bocca,   intenti, inghiottendo saliva, quando mangio, comincio a credere che, per   essere più coerente, dovrei ogni volta, puntualmente, saziare tutti loro   invece di mangiare io. Altro che un digiuno di una settimana in un anno! Il   mangiare per poter stare in piedi a lavorare, per meglio difenderli dalla   denutrizione fisica e morale, comincia a parermi ogni giorno di più un   inesatto compromesso. E alle donne   che al paese mi hanno detto: - Se ci trovi un lavoro, smettiamo di fare le   puttane -, quando torno, che ci dico? … C’era una   strada di campagna, delle più necessarie, quasi impraticabile. La pioggia, il   tempo, ne avevano scoperte le sconnesse ossa, fra fangosi affossamenti.   Piuttosto che rimanere per mesi e mesi con le mani in mano, non è meglio   mettersi ad aggiustarla? Centinaia di braccianti ci stanno: cominciano a   intuire che le vere rivoluzioni si fanno generosamente, con la testa a posto,   sacrificandosi esattamente per tutti – non sparando. E una mattina presto,   sotto una pioggia minuta che riduce a un centinaio i volontari, si va con   badili e picconi alla trazzera. Arrivati a un posto particolarmente   impraticabile, tutti al lavoro, diretti diligentemente dai «mastri». Un’ora non   passa, che arrivano agenti di pubblica sicurezza e carabinieri: ventotto.   Nella piazza del paese intanto arrivano da Palermo due autocarri colmi d’una   cinquantina di poliziotti di rinforzo. Il commissario ordina di cessare   immediatamente i lavori, alla trazzera: - E’ un reato. Vi posso buttare tutti   in galera-. Insiste bestemmiando, minaccia di farci «caricare». E’ quasi con   vergogna che vi dico che, persuasi o no (mentre gli operai, impediti a quella   pura collaborazione alla vita, gridavano: - Basta coi mitra, vogliamo   lavoro!), quella mattina, rimandando l’iniziativa, siamo ritornati al paese. Ce ne siamo   andati; sapevo di potervi parlare. Ora, quando torno, se non avremo altro   lavoro, intanto che si aspetta di costruire la diga, torneremo ad aggiustare   la trazzera. Sono qui ad avvisare tutti che non ci sarà carica della polizia   che ci potrà impedire di lavorare. … Oggi,   continuare così, diventerebbe un assassinio di massa – premeditato. DANILO DOLCI (pp. 38-42) IV Trappeto-Partinico-Balestrate,   25 gennaio 1956 Abbiamo   ripetutamente documentato alle autorità direttamente responsabili e   all’opinione pubblica, per anni e anni, la pesca fuorilegge della zona,   gravissimo danno a tutti noi pescatori e all’economia nazionale. Ci è   profondamente doloroso, offensivo, constatare che lo Stato non sa far   rispettare le sue leggi più elementari, più ingiustificate: i mezzi di   informazione e di pressione normali in uno Stato civile, qui sono stati   assolutamente inefficaci. Decisi a far rispettare le leggi, promoviamo un   movimento che non si fermerà fino a quando il buon senso e l’onestà non   avranno trionfato. Inizieremo lunedì 30 gennaio, digiunando per ventiquattro   ore. (seguono circa   trecento firme) (p. 42) V Partinico, 25   gennaio 1956 Milioni di   uomini nelle nostre zone stanno sei mesi all’anno con le mani in mano. Stare   sei mesi all’anno con le mani in mano è gravissimo reato contro la nostra   famiglia e contro la società. Solo qui in   Partinico, su venticinquemila abitanti, siamo in più di settemila con le mani   in mano per sei mesi all’anno; e settemila bambini e giovanetti non sono in   grado di apprendere quanto assolutamente dovrebbero. Non vogliamo essere   lazzaroni, non vogliamo arrangiarci da banditi: vogliamo collaborare   esattamente alla vita, vogliamo il bene di tutti: e nessuno ci dica che   questo è un reato. E’ nostro dovere   di padri, di cittadini, collaborare generosamente perché cambi il volto della   terra, bandendo gli assassinii di ogni genere. Chiediamo alle   autorità di collaborare con noi, indicando quali opere dobbiamo fare, e come.   Altrimenti, assistiti da tecnici, cominceremo da alcune delle più urgenti.   Perché sia più limpido a tutti il nostro muoverci, digiuneremo lunedì 30   gennaio; giovedì 2 febbraio cominceremo il lavoro. Frangeremo il pane con le   mani. Vogliamo   essere padri e madri anche noi, e cittadini. (seguono circa   settecento firme) (p. 43) VI Trappeto-Partinico-Balestrate,   30 gennaio 1956 Al Presidente   della Repubblica, del Consiglio, della Regione Siciliana, della Camera, del   Senato. Non per   disperazione oggi digiuniamo, ma nella speranza di contribuire perché   l’Italia diventi un paese civile. Sappiamo che lavorando generosamente siamo   la vita. Chi ci impedisce è assassino: non paghiamo le tasse perché il nostro   paese, dal mare alla terra, sia una mala galera in mano ai prepotenti. Firmato: mille   cittadini che credono nell’articolo 4 della Costituzione. (p. 45) VII Partinico, 31   gennaio 1956 Amici di   Partinico, i «banditi» di   Partinico vogliono diventare cittadini italiani, vogliono una società   veramente civile. Lunedì,   digiunando, meditando insieme, ci siamo preparati limpidamente alla festa di   giovedì: lavorare. Nessuno ci potrà impedire di lavorare, insieme,   disciplinati. Sarebbe bollato d’infamia per i secoli chi osasse impedirci. Ma   noi siamo certi che non ci sarà nessuno tanto crudele, tanto assassino.   Facciamo appello alla coscienza di tutti i popoli, d’Italia e del mondo. E’ dato   all’uomo per le eterne leggi, respirare e lavorare; anche la più alta legge   del nostro Stato non può non riconoscerlo: lo specifica l’art. 4 della   Costituzione. Non tradiremo   le nostre famiglie, non tradiremo le nostre leggi: il lavoro è organizzazione   del caos, è verità che incarnandosi in vita migliora il mondo. Questo paese   può diventare, per le sue naturali ricchezze, oggi sciupate, un angolo dei   più belli della terra, dove tutti si potrà vivere veramente da uomini.   Nessuno rimanga con le mani in mano; o occupato in modo indegno: il lavoro è   lavoro se utile a uno come a tutti. Uomini e   donne, giovani e non più giovani che ancora potete aiutare, gente di ogni   partito e di ogni idea: rimbocchiamoci le maniche, usciamo da questa puzza   materiale e spirituale. Se non cerchiamo noi di toglierci da questa   mortificante puzza, - noi che, immersi, la soffriamo, - chi mai possiamo   aspettare che ce ne venga a togliere? «Se manca uno, mancano tutti». Perdoniamo chi   ci ha fatto del male: ma cerchiamo, per noi e per tutti, i rapporti, anche   strutturali, più perfetti. Siamo uomini di pace. Sono sicuro che non ci sarà   nessuno che ci impedirà in questa sacra opera. DANILO (p. 46) VIII (Dall’arringa   dell’Avv. PIERO CALAMANDREI) … Questo non è   un processo «comunissimo»: è un processo eccezionale, superlativamente   straordinario, assurdo. Questo non è neanche un processo: è un apologo. … Per renderci   conto con distaccata comprensione storica della eccezionalità e assurdità di   questo processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà,   di qui a cinquanta o a cento anni, agli occhi di uno studioso di storia   giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di ricercare nella   polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, per riportare in   luce storicamente, liberandolo dalle formule giuridiche, il significato umano   e sociale di questa vicenda. … Al centro di   questa vicenda giudiziaria c’è, come la scena madre di un dramma, un dialogo   tra due personaggi, ognuno dei quali ha assunto senza accorgersene un valore   simbolico. E’, tradotto   in cruda prosa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e   Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce   soltanto alla legge morale della coscienza, alle «leggi non scritte» che   preannunciano l’avvenire. … Chi dei due   interlocutori ha ragione? … La nostra   Costituzione è piena di queste grandi parole preannunciatrici del futuro:   «pari dignità sociale»; «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno   sviluppo della persona umana»; «Repubblica fondata sul lavoro»; «diritto al   lavoro»; «condizioni che rendano effettivo questo diritto»; assicurata ad   ogni lavoratore e alla sua famiglia «una esistenza libera e dignitosa» … … Signori   Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire   prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le   leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non   come imposte dall’alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume,   bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il   popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così. Ricordate le   parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di   persone vive, come di persone di conoscenza: «Le nostre leggi, sono le nostre   leggi che parlano». Perché le leggi della città possano parlare alle nostre   coscienze, bisogna che siano, come quelle di Socrate, le «nostre leggi». … Il carattere   singolare ed esemplare di Danilo Dolci è proprio qui: di questo uomo di   cultura, che per manifestare la sua solidarietà ai poveri non si è   accontentato della parola parlata o scritta, dei comizi, degli ordini del   giorno e dei messaggi; ma ha voluto vivere la loro vita, soffrire la loro   fame, dividere il loro giaciglio, scendere nella loro forzata abiezione per   aiutarli a ritrovare e a reclamare la loro dignità e la loro redenzione. Questa è la   singolarità di Danilo: qualcuno potrebbe dire l’eroismo; qualcun altro   potrebbe anche essere tentato di dire la santità. … L’eroismo di   Danilo è questo: dove più la miseria soffocava la dignità umana, egli ha   voluto mescolarsi con loro e confortarli non coi messaggi ma colla sua presenza;   diventare uno di loro, dividere con loro il suo pane e il suo mantello, e   chiedere in cambio ai suoi compagni una delle loro pale e un po’ di fame. Questo   intellettuale triestino, che se avesse voluto avrebbe potuto costruirsi in   breve, coi guadagni del suo lavoro di artista, una vita brillante e comoda in   qualche grande città e una casa ricca di quadri e di libri, è andato a   esiliarsi a Partinico, nel povero paese rimasto impresso nei suoi ricordi di   bambino, e si è fatto pescatore affamato e spalatore della trazzera per far   intendere a questi diseredati, colla eloquenza dei fatti, che la cultura è   accanto a loro, che la sorte della nostra cultura è la loro sorte, che siamo,   scrittori e pescatori e sterratori, tutti cittadini dello stesso popolo, tutti   uomini della stessa carne. Egli ha fatto   quello che nessuno di noi aveva saputo fare. Per questo sono venuti qui da   tutta Italia gli uomini di cultura a ringraziarlo: a ringraziarlo di questo   esempio, di questo riscatto operato da lui, agnus qui tollit peccata di una   cultura fino a ieri immemore dei suoi doveri. … Questa non è   la causa di Danilo; e neanche di Partinico; e neanche della Sicilia. E’ la   causa del nostro Paese: del nostro Paese da redimere e da bonificare. (pp. 297,   305-306, 308-309, 314, 315-316, 318) IX Alla stampa.   Palermo, 30 marzo 1956 … E’   necessaria ancora la spinta eroica della Resistenza, delle più alte   Resistenze al male prepotente, illimpidendola ed approfondendola nei metodi e   nei fini. Un nuovo grande sforzo etico politico occorre: se qualcosa è   cambiato negli ultimi anni, è troppo poco e si dà tempo e modo a pericolosi   mali di radicarsi irrobustendosi, come appare sempre più chiaramente a chi   vuol vedere. Non si   garantisce il lavoro a tutti … … Basta con le   ipocrisie sistematiche; rifiutiamoci di obbedire quando ci comandano dei   delitti: oggi la nostra Costituzione è l’unica legge della quale non ci   dobbiamo vergognare. Chi è stato ammanettato, incatenato perché aveva cercato   di difenderla, si è sentito, anche se pesante di colpe, come incordato con   Cristo in una diversa Pasqua, con Gandhi, con i puri morti della Resistenza   di sempre. … Possiamo noi   assistere così, zitti in disparte con le mani in mano, al sistematico   assassinio, in qualsiasi modo avvenga, di centinaia di migliaia, di milioni   di bambini, vecchi, malati, madri, padri, al nostro suicidio; possiamo noi   assistervi passivi, solo perché queste male violenze vengono perpetrate   soprattutto dai più «forti», solo perché da quella parte ci sono i mitra, ci   sono i soldi? Non deve essere ciascuno di noi, anche se non ha con sé né una   banca né un esercito né un temperino, anche se senza divisa (tanto più e più   se in divisa, e vive di quella), disciplinato tutore delle più alte leggi? Si   moltiplichino e approfondiscano gli studi organici di valorizzazione, degli   uomini e della terra, dal basso, esattamente in modo che la realizzazione   dell’intelligente e pieno impiego avvenga per sana economia. Non lasciar   respirare, esprimersi, lavorare, ordinatamente vivere gli altri, secondo   l’alta dignità dovuta a ciascun uomo, è malattia. […] oggi non possiamo più   sistematicamente tradire, fuori da ogni fanatico dogmatismo, i contributi   essenziali del cristianesimo, del liberalismo, del gandhismo, del socialismo,   affatto antitetici nel loro nucleo vitale. Non vorremo   per anima alcun odio, ma risoluto e intelligente amore, e profondamente   coordinato, per tutti. Più scendiamo   a vivere sotto, individui e organizzazioni, tra le vittime più mortificate,   più paralizzate: e più e meglio la gente prosegue libera, coi suoi piedi; le   sane riforme di strutture avvengono quando il popolo si muove con limpida   forza a conquistarle. La nuova coscienza darà la forza di risolvere i   problemi. Non basta l’idea del lievito a far lievitare il pane: occorre   proprio il lievito, e nella pasta. E i domani   amati verranno, anche se oggi quasi non par vero. DANILO DOLCI (pp. 344, 346,   347, 348-349) *** a cura di Raffaello   Saffioti   NOTE 1 GIACINTO   SPAGNOLETTI (a cura di), Conversazioni con Danilo Dolci, Mesogea, Messina   2013, p. 83. 2 ALDO   CAPITINI, Le tecniche della Nonviolenza, Libreria Feltrinelli, Milano 1967,   pp. 107-108. 3 FRANCO   GRASSO, A Montelepre hanno piantato una croce. Danilo Dolci missionario   civile nella zona della mafia e del banditismo, Edizioni Avanti !, Milano -   Roma, 1956, pp. 76-78. 4 GIACINTO   SPAGNOLETTI (a cura di), Conversazioni con Danilo Dolci, cit., p. 81. 5 AUGUSTO   CAVADI, L’utopia di Danilo Dolci (dal sito: augustocavadi.eu; “Repubblica –   Palermo” 13.1.2013; www.ildialogo.org). 6 ROSA   GRILLO - GIOVANNI VECCHIO - SEBASTIANO PENNISI (a cura di), Danilo Dolci.   Attualità profetica, Mesogea, Messina 2009, dalla quarta di copertina. 7 http://www.ildialogo.org/pace/NotizieC_1404043420.htm 8 DANILO   DOLCI (a cura di), Comunicare, legge della vita, La Nuova Italia, Scandicci   (Firenze) 1997, pp. 17-18. 9 In AA.VV.,   Profezia e pace, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi (Aq) 2006, pp. 7, 9. 10 DON   LORENZO MILANI, Lettera ai giudici, in L’obbedienza non è più una virtù,   Millelire Stampa Alternativa, Viterbo 1994, p. 29. 11 NORBERTO   BOBBIO, Introduzione, in ALDO CAPITINI, Il potere di tutti, La Nuova Italia,   Firenze 1969, pp. 24, 31. 12 GIACINTO   SPAGNOLETTI (a cura di), Conversazioni con Danilo Dolci, cit., p. 122. Il   passo è riportato anche nella quarta di copertina. 13 Ivi, pp.   153, 158-159, 160. 14 DANILO   DOLCI, Palpitare di nessi, Armando,Roma, 1985, p. 139. 15 DANILO   DOLCI, La struttura maieutica e l’evolverci, La Nuova Italia, Scandicci   (Firenze), 1996, pp. 125, 283. 16 DANILO   DOLCI (a cura di), Sorgente e progetto. Per una ricerca autoanalitica   dall’intima Calabria all’industria del Nord, Rubbettino Editore, Soveria   Mannelli (CZ), 1991, pp. 5, 76, 79, 219. |