Alcuni Estratti da "Una Rivoluzione Nonviolenta" di Danilo Dolci

[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dall'antologia di
scritti di Danilo Dolci, Una rivoluzione nonviolenta, Terre di mezzo, Milano
2007]

Indice del volume
Biografia: Un mondo nuovo potrebbe crescere, diverso, di Giuseppe Barone;
Parole: Perche' i sogni diventino progetti. Un'intervista di Mao Valpiana a
Danilo Dolci; Per una rivoluzione nonviolenta; Dal trasmettere al
comunicare; Massa significa pasta; Il sistema clientelare-mafioso; Il metodo
maieutico reciproco; Il Centro per lo sviluppo creativo "Danilo Dolci".

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Da pagina 10
Gli anni della formazione
Danilo Dolci nasce il 28 giugno 1924 a Sesana, una localita' del nostro
estremo confine orientale, posta a quel tempo in provincia di Trieste, e
oggi in territorio sloveno. La madre, Meli Kontelj, e' di origini slave, il
padre, Enrico, e' ferroviere: il suo lavoro determina per la famiglia
frequenti cambi di residenza. In Lombardia il giovane Danilo compie i primi
studi, conseguendo il diploma presso un Istituto tecnico e poi la maturita'
artistica a Brera. E' un ragazzo piuttosto introverso e incline alla
meditazione, attratto dalla musica (i Lieder, le partiture per pianoforte
dei grandi compositori dell'Ottocento e, piu' di tutto, Bach). Gli piace
nuotare e talvolta marina la scuola per fare lunghe passeggiate nei boschi.
Spesso si sveglia nel cuore della notte per dedicarsi alla sua passione piu'
grande: i libri. In modo in parte casuale, comincia a costruirsi un percorso
di letture che lo conduce a conoscere Tolstoj e Ibsen, Russell e Voltaire,
Seneca e i filosofi presocratici, i Dialoghi di Platone e i poeti del
Romanticismo tedesco, i classici del pensiero orientale e il teatro di
Shakespeare.
Nel 1940 il padre e' promosso capostazione e trasferito a Trappeto, un
piccolo centro costiero del Golfo di Castellammare, posto esattamente a
meta' strada tra Palermo e Trapani. Qui Danilo, durante la chiusura delle
scuole, trascorre alcuni brevi periodi di vacanza, facendo amicizia con i
pescatori suoi coetanei e conoscendo le dure condizioni di vita di quelle
terre. Questi soggiorni, che avrebbero potuto rappresentare solo delle brevi
parentesi negli anni della formazione, gettano invece nel suo animo dei semi
che germineranno in modo vigoroso una decina di anni piu' tardi.
Pur non avendo rapporti con esponenti dell'opposizione clandestina, Dolci
matura presto un forte, ancorche' generico, senso di avversione al fascismo.
Nel tortonese, dove risiede con la famiglia durante la fase iniziale del
conflitto, cominciano a tenerlo sotto controllo: e' stato visto strappare
manifesti propagandistici del regime. Nel 1943 rifiuta di vestire la divisa
repubblichina e tenta di passare la linea del fronte, ma e' arrestato a
Genova: approfittando di un momento di distrazione dei carcerieri, riesce a
fuggire riparando in un piccolo borgo dell'Appennino abruzzese, Poggio
Cancelli, dove trova ospitalita' presso una famiglia di pastori. Li' impara
ad apprezzare la loro straordinaria capacita' di rapportarsi con la natura e
di vivere una dimensione autenticamente poetica.
Al termine della guerra - dopo un breve soggiorno nella capitale, durante il
quale segue corsi universitari di architettura e le lezioni di Ernesto
Buonaiuti - e' di ritorno a Milano, dove prosegue gli studi al Politecnico e
conosce, tra gli altri, Bruno Zevi. Le prime opere che pubblica sono due
manuali di scienza delle costruzioni a uso degli studenti di architettura
(Studio tecnico delle strutture isostatiche e Compendio della teoria del
cemento armato). Per non gravare sulle modeste finanze familiari, insegna
presso una scuola serale a Sesto San Giovanni: tra gli operai che siedono
dietro i banchi c'e' anche Franco Alasia, col quale inizia un importante e
fecondo rapporto di amicizia e collaborazione. "Danilo invito' ciascuno di
noi a esprimere opinioni, a tentare risposte", ricorda Alasia. "Propose di
procedere 'a giro', dando la parola a ciascuno, perche' tutti potessero
esprimersi, non soltanto quei pochi che tendevano ad intervenire in
continuazione. Partecipavo non del tutto consapevole a una delle prime
esperienze educative in cui la maieutica socratica diventava 'sviluppo
maieutico reciproco'. Ma forse Danilo stesso, giovanissimo, pur avendo avuto
quella grande intuizione, non ne aveva piena consapevolezza. Doveva
sperimentare anni e anni, per tutta la vita, con i pescatori di Trappeto, i
braccianti e gli 'industriali' di Spine Sante a Partinico o nei bassi di
Palermo e dei paesi dell'interno della Sicilia; con gruppi di giovani, di
scolari e di studenti, nei licei, negli istituti tecnici e nelle
universita', dalla Sicilia alla Calabria, alla Sardegna fino alla Val
d'Aosta, alla Svizzera, alla Svezia, negli Stati Uniti e altrove nel mondo
(esiste un'ampia documentazione). Io allora, piu' di mezzo secolo fa, non
sapevo il significato della parola maieutica, ma ne sperimentavo la qualita'
dell'approccio educativo sulla mia pelle".
Alla fine degli anni Quaranta e' gia' conosciuto e apprezzato autore di
versi: diverse riviste e volumi antologici ospitano i suoi componimenti e
nel 1947 e' nella rosa dei finalisti del Premio Libera Stampa di Lugano
(organizzato dall'omonimo quotidiano ticinese), con Andrea Camilleri, Maria
Corti, Pier Paolo Pasolini, David Maria Turoldo, Andrea Zanzotto.
Nel 1948 da' alle stampe un'antologia di massime commentate e divise per
argomento, L'ascesa alla felicita'. Si tratta di un testo giovanile, edito
in modo spartano (il libro e' poco piu' di un ciclostilato), pervaso da un
profondo sentimento religioso, ma che gia' contiene in nuce alcuni dei temi
che avranno poi largo sviluppo nel dipanarsi della sua vicenda: la ricerca
di un equilibrio tra conoscenza scientifica ed espressione artistica e
poetica, l'enfasi posta sul lavoro educativo, la valorizzazione della
creativita' individuale e di gruppo, il rifiuto di ogni netta cesura tra
teoria e prassi, tra concreto operare e tensione utopica. Si colgono,
inoltre, gia' con chiarezza le tensioni che determineranno le decisioni
degli anni successivi: "Come puoi essere felice", si chiede Dolci, "se
intorno a te i tuoi fratelli vengono consumati e travolti dalla fame e dalla
miseria?". E la domanda potrebbe persino sembrarci retorica, se non
conoscessimo gia' la sua personalissima, concretissima risposta.

*
Da Nomadelfia alla Sicilia
Nel 1950 Danilo Dolci compie una scelta fondamentale per tutto il suo
percorso successivo: "Cominciavo a capire che un architetto avrebbe lavorato
solo per i ricchi, per chi aveva i soldi, e non per chi non aveva ne' case
ne' soldi; occorreva dunque fare un altro lavoro, prima dell'architettura e
prima della cosiddetta urbanistica". A un passo dal completamento degli
studi (aveva superato tutti gli esami e stava gia' lavorando alla tesi di
laurea), abbandona l'Universita' e va a vivere a Nomadelfia, "la citta' dove
la fraternita' e' legge": una comunita' di accoglienza per bambini sbandati
dalla guerra, sorta nell'ex campo di concentramento nazifascista di Fossoli
(Modena) ad opera di don Zeno Saltini, apertamente osteggiata dai
benpensanti e considerata un pericoloso covo di sovversivi dalla gretta
classe dirigente di quel tempo e dalle stesse gerarchie cattoliche. Nel 1951
e' ormai uno dei principali collaboratori di don Zeno e viene incaricato di
coordinare i lavori per la fondazione di una nuova sede della comunita', sul
colle Ceffarello, nei pressi di Grosseto.
"Per quattro mesi", scrive la giornalista Antonietta Massarotto, "nella
nuova scuola di architettura dei Piccoli Apostoli studio' appassionatamente
il grande progetto. Venivano interpellati gli uomini, i ragazzi, le donne.
Il plastico urbanistico della futura borgata nacque cosi' linea per linea,
discussione per discussione, dalla comune collaborazione dei
millecinquecento e piu' cittadini di Nomadelfia".
L'anno successivo, una decisione ancora piu' radicale: senza che si consumi
alcuna rottura con don Zeno, Dolci avverte la necessita' di abbandonare
quella che ormai giudicava una sorta di "arca, pur se meravigliosa",
separata dal resto del mondo, e decide di andare a vivere nel paese piu'
povero, piu' bisognoso di soccorso che avesse mai visto: Trappeto.
Nasce il "Borgo di Dio": comincia a essere intessuta una delle vicende piu'
limpide e significative della faticosa rinascita civile e democratica del
nostro Paese dalle devastazioni, non solo materiali, del fascismo e del
secondo conflitto mondiale, "continuazione della Resistenza, senza sparare".
Bruno Zevi, qualche anno dopo, annota: "Evitiamo il pericolo di creare un
mito di comodo, per liquidarlo. Basta dire: 'e' un essere superiore, un
apostolo, un eroe' per sottintendere: 'noi, con lui, non c'entriamo'. Si
tratta invece di un architetto come noi, che ha optato per una via
alternativa senza la quale l'architettura scade nel mestierantismo avaro,
perde ogni forza di 'profezia', ogni ruolo di promozione civile, diviene un
mezzo sconsolato per campare magari agiatamente, ma privi di felicita'".
Le condizioni di vita sono davvero disperate: centinaia di braccianti e
pescatori spesso non guadagnano abbastanza neppure per acquistare il pane,
la mortalita' infantile arriva quasi al dieci per cento, una fogna a cielo
aperto (a pochi metri dalla quale i bambini giocano e trascorrono le loro
giornate) attraversa la strada principale del paese, causando periodiche
esplosioni di epidemie. Cosi' Carlo Levi, ne Le parole sono pietre, descrive
il suo arrivo a Trappeto e l'incontro con Dolci: "Scendemmo con lui al
Vallone, per le strade miserabili e putride, rivedemmo, ancora una volta,
come in tanti altri villaggi e paesi del Sud, la grigia faccia della
miseria; gli uomini senza lavoro, 'disfiziati', senza volonta' e desideri,
le madri senza latte, i bambini denutriti e ridotti a scheletri. In via
Silvio Pellico, una specie di burrone scosceso tra catapecchie cadenti, in
faccia alla casa dove era stato nascosto, negli anni scorsi, un famoso
bandito, vidi la stanza, simile, come le altre, a una tana senza luce, dove
vive uno dei giovani attirati qui dall'esempio di Dolci, un musicista di
Ginevra che fa il pescatore con i pescatori, su questo mare ridotto sterile
e senza pesci dalla pirateria dei pescatori di frodo, tollerata benevolmente
dalle autorita'. Poco piu' su, un uomo ancora giovane, dal viso smunto,
infreddolito dalla tubercolosi, cercava, avvolto in uno scialle di lana, di
scaldarsi al sole. In quella totale destituzione gli occhi guardavano
tuttavia Danilo con un lume di speranza, e una certa vaga speranza anche in
se stessi mi pareva leggervi di riflesso".
Nell'ottobre del 1952 un bambino, Benedetto Barretta, muore, letteralmente,
di fame. Non e' la prima volta che accade un episodio del genere, ma in
questa occasione Dolci decide che non e' piu' possibile aspettare, o
affidarsi, come era avvenuto sino a quel momento, alle sole attivita' di
assistenza messe in piedi con le donazioni di alcuni amici piu' generosi:
"Non si poteva piu' continuare a inseguire i moribondi, bisognava
intervenire". Il 14 ottobre, sdraiato sul letto dove si era spento il
piccolo Benedetto, Danilo Dolci da' inizio al suo primo digiuno. Alcuni
pescatori suoi amici (Paolino Russo, Toni Alia e altri) si dichiarano pronti
a prendere il suo posto, e a proseguire la protesta, qualora lui fosse
morto. La stampa nazionale comincia a definirlo il "Gandhi italiano". Dolci
precisa, tuttavia, che il suo gesto "non si era prodotto, come hanno pensato
molti, in seguito a letture o a riflessioni mistiche".
E spiega: "Quando ho visto le condizioni disperate di questo bambino sono
corso alla farmacia di Balestrate per cercare del latte da portargli, ma e'
stato inutile. E' morto proprio davanti a me. Allora cominciai a digiunare.
Non c'era un ragionamento preciso, non avevo letto Gandhi, sapevo solo che
non potevo accettare che esistesse un paese senza fognature, senza strade.
Anzi le fognature erano le strade stesse. Volevo manifestare istintivamente
la mia solidarieta'. Avevo la vaga intuizione, ma non la certezza, che nella
zona le cose potessero cambiare. Mi ero messo d'accordo con dei pescatori e
con degli agricoltori che se io fossi morto, sarebbero andati avanti loro.
Molta gente veniva dove stavo io, piangeva e mi chiedeva perche' lo facessi.
[...] La gente sa cosa e' la fame, soprattutto quei siciliani lo sapevano.
Io non avevo ancora l'idea che quello potesse essere un lievito per muovere
la gente. Avevo iniziato a digiunare perche' avrei avuto schifo di me a
continuare a mangiare tranquillo intanto che gli altri morivano. E invece in
quell'occasione mi sono accorto della forza di questo mezzo, che poi ho
valorizzato con una coscienza diversa. Imparai che, a certe condizioni, il
digiuno poteva diventare una forza".
Sono trascorsi gia' alcuni giorni, e le condizioni di salute di Danilo Dolci
cominciano a peggiorare, quando un emissario del presidente della Regione
giunge da Palermo a garantire che saranno immediatamente avviati i primi
lavori per migliorare le condizioni di vita degli abitanti di Trappeto:
saranno costruite le fogne e una strada, arrivera' l'acqua potabile. La
protesta finalmente puo' essere interrotta. La situazione per gli abitanti
del piccolo centro del Golfo di Castellammare comincia, lentamente ma in
modo chiaro, a cambiare.
Tra i primi a cogliere appieno il valore di un gesto inusuale per il nostro
Paese e' Aldo Capitini, con il quale si stabilisce un dialogo fitto,
intenso, duraturo: "Tra la povera gente che veniva - talvolta piangendo - in
quella stanza con il pavimento di terra che rischiava di essere sommerso dal
vicino torrente-fognatura, e' arrivata la postina con una lettera, una
lettera sola, da Perugia, da uno che non conoscevo. Nei mesi successivi ho
voluto incontrarlo. Dopo di allora, finche' ha vissuto, non c'e' stata
decisione di fondo nel nostro lavoro a Partinico e nella zona che non sia
stata verificata anche con lui: come ci era possibile data la distanza, per
lettera o attraverso incontri personali".
Nel dicembre del 1952, Dolci - che gia' nel corso della seconda guerra
mondiale aveva rifiutato di imbracciare le armi, anche mettendo a rischio la
propria vita - prende apertamente posizione in favore dell'obiezione di
coscienza, diffondendo un lungo appello e invitando tutti a sottoscriverlo:
"Sento ora necessario dichiarare", leggiamo nel volantino, "che se saro'
chiamato per uccidere o collaborare anche indirettamente alla guerra mi
rifiutero': non voglio essere assassino".
Oltre quarant'anni piu' tardi, a chi gli chiede un giudizio sul valore
dell'obiezione di coscienza, risponde: "Io ho sempre sostenuto che
l'obiezione di coscienza e' importante, ma non e' sufficiente. Preferisco
parlare di obiezione/azione di coscienza. Perche' obiettore sembra solo uno
che dice di no, ma non basta dire solo di no. Cio' che e' essenziale e'
produrre alternative. Certo la difesa del diritto all'obiezione di coscienza
e' importantissima (io sono stato vicepresidente di War Resisters'
International per circa tre anni), ma sempre cercando di portare avanti un
lavoro soprattutto preventivo. Questo e' veramente importante. Perche' il
lavoro preventivo e' un lavoro per la salute; il dire solo di no alla guerra
e' intervenire gia' nella malattia, nella nevrosi. Per diventare delle
'persone', non basta dire no, occorre proprio sapere dove dire di no e
inventare un si'".

*
Da pagina 71
Per una rivoluzione nonviolenta

Chi si spaventa quando sente dire
rivoluzione,
forse non ha capito.

Non e' una sassata a una testa di sbirro,
sputare sul poveraccio
che indossa una divisa non sapendo
come mangiare;
non e' incendiare il municipio
o le carte al catasto
per andare stupidi in galera
rinforzando il nemico di pretesti.

Il dominio e' potere malato -
cresci soltanto quando ti maturi
corresponsabile:
la gente non e' suolo ma semente.

Quando senza mirare ti agiti
la rivoluzione viene a mancare;
se raggiungi potere e la natura
dei rapporti rimane come prima,
viene tradita.

E' conquistata ad ogni istante quando
creature si organizzano
estinguendo ogni zecca.

Da Se gli occhi fioriscono, Bologna, Martina, 1997, p. 29.

*
Una complessa strategia
Non e' difficile trovare architetti disposti a costruire case per chi ha
soldi, economisti pronti ad aumentare il danaro dei ricchi, sociologi
disponibili a collaborare con chi sfrutta affinche' lo sfruttamento avvenga
con meno difficolta', strateghi o diplomatici disponibili a far propria la
causa dei forti. D'altra parte non e' difficile trovare candide persone che
credono si possa cambiare gli ingiusti privilegiati e gli sfruttatori
prepotenti con le prediche. Si incontrano a un estremo esperti di aumento di
produzione e reddito, impegnati a realizzare sviluppo in particolari
settori, il cui scopo e' conseguire il massimo guadagno con il minimo
sforzo: perlopiu' presentati come scienziati o tecnici, spesso non sono che
quadri piu' o meno abili dello sfruttamento, o alleati che facilitano loro
il compito realizzando reti di opportuni servizi. Dall'altro estremo e'
facile incontrare sognatori impotenti, sfocati, o evasivi, con premura di
trovare panacee universali; o educatori impegnati in un lavoro di sviluppo
personale o settoriale che prescinde, o quasi, dalla necessaria
trasformazione delle condizioni ambientali globali.
Alla solidita' chiusa dei primi corrisponde la genericita' effimera o
l'insufficenza dei secondi.
A livello locale, nazionale e internazionale, in un contesto
transnazionale - i problemi trapassano ormai in ogni modo frontiera -,
occorrono nuovi esperti capaci di promuovere e operare dalle singole
situazioni, allargandosi via via con le popolazioni potenzialmente
interessate, esatte diagnosi e necessari interventi: capaci di lavoro di
gruppo, attenti all'intrecciato insieme dei problemi, sensibili sia agli
aspetti quantitativi, sia alla qualita' dello sviluppo, cioe' veri esperti
di valorizzazione. E soprattutto, a evitare inutili e dannosi conflitti,
capaci di intuire quando e come sia possibile operare prima che le
situazioni si deteriorino, si sfascino.
Intervenire, a livello locale come a livello internazionale, quando le
situazioni sono gia' gravemente compromesse e i rapporti sono ormai corrotti
o addirittura saltati, e' naturalmente piu' difficile. Non pochi d'altronde
desiderano prepararsi per dare un senso profondo alla propria vita e operare
con competenza efficace alla realizzazione di una vita nuova, di tutti, con
nuove prospettive.
La costruzione di una nuova societa' che viva in modo pacifico, ovviamente
non puo' significare l'assenza di conflitto o lo status quo. Quando si mira
a una societa' pacifica, penso, si mira ad una societa' nonviolenta, cioe' a
una societa' che strutturalmente tenda a eliminare quelle violenze dirette o
indirette (come la guerra, il razzismo, lo sfruttamento) che impediscono lo
sviluppo; e nel contempo a una societa' in cui, chi risulti in qualsiasi
modo impedito, tenda a impegnarsi - nei conflitti che stima necessari - in
modo nonviolento.
La complessa strategia per operare trasformazioni nonviolente richiede
capacita' specifiche, ad esempio:
1) Saper promuovere "coscientizzazione" nelle popolazioni interessate,
precisa autoanalisi popolare, scoprendo zona per zona le tecniche piu'
adatte.
Occorre che ciascuno sappia riconoscere i problemi essenziali: ciascuno, ad
esempio, dovrebbe avere esattissima coscienza di come nel suo ambiente si
forma, e viene esercitato, il potere. Ogni zona, ogni problema, richiede uno
studio a se', approfondito, per sapere ad esempio come impostare la ricerca
dei dati essenziali, la proposta di nuovo sviluppo, la discussione popolare
di queste proposte, le possibili azioni costruttive, le piu' opportune
pressioni.
2) Saper promuovere tra chi e' debole perche' solo, isolato, la sua
partecipazione ai diversi gruppi (locali e non) in cui, integrato, possa
valorizzarsi sulla base dei suoi piu' profondi interessi; mirare alle piu'
vaste dimensioni, agli obiettivi piu' complessi, sapendo come occorre
iniziare trovando i punti piu' saldi su cui far leva.
3) Saper promuovere e interrelare nuovi gruppi aperti, democratici,
valorizzatori di ciascun membro, e all'esterno.
4) Saper riconoscere e sviluppare i piu' profondi valori, e le persone che
li incarnano, ove sono, spesso silenziosi e nascosti: riuscendo a sostituire
al modello violento imposto i modelli ideali nonviolenti.
5) Saper promuovere assunzione di responsabilita' nelle popolazioni per una
precisa azione di denuncia dei fatti e dei fenomeni relativi alle strutture
violente, anche facendo leva sulle "carte" e le leggi, internazionali o
nazionali, gia' esistenti.
6) Saper ogni volta inventare le piu' efficaci forme di pressione
nonviolenta: attente a elevare il livello dei conflitti da parte di chi li
muove (tendendo a elevarli anche negli avversari violenti, se non si
vogliono scoprire all'opinione pubblica per quello che sono).
7) Saper promuovere nuovi gruppi di gruppi.
8) Saper promuovere zona per zona, con metodi che variano secondo il grado
di maturita' acquisita dalle popolazioni, una pianificazione democratica,
organica, col massimo di partecipazione creativa da parte di ciascuno,
individuo o gruppo.
9) Saper operare con la necessaria dialettica tra azione maieutica
all'intorno, e assunzione personale di responsabilita'.
10) Saper contribuire a promuovere o consolidare la formazione di necessari
centri di coordinazione mondiale - non necessariamente di potere - e la
coordinazione tra loro stessi.
Non e' possibile prevedere se gli uomini sceglieranno di sopravvivere o di
suicidarsi: ma se sceglieranno la vita - per paura se non per amore - questa
scelta significhera' l'invenzione sempre piu' scientificamente organica
dell'azione e della rivoluzione (cioe' anche di una cultura e di una morale)
nonviolenta.
A chi obietta che finora nella storia non sono stati possibili cambiamenti
strutturali con metodi nonviolenti, che non sono esistite rivoluzioni
nonviolente, occorre rispondere con nuove sperimentazioni per cui sia
evidente che quanto ancora non e' esistito in modo compiuto, puo' esistere.
Occorre promuovere una nuova storia.
Da Non sentite l'odore del fumo?, Bari, Laterza, 1971, pp. 87-90.

*
Da pagina 75
Per una rivoluzione nonviolenta

Molto spesso, nelle piu' diverse parti del mondo, non si sa che lo sviluppo
e' possibile, non si sa esattamente come e' possibile: e le situazioni
all'estremo o permangono statiche, come in molte delle zone chiamate
sottosviluppate - o, se migliorano in qualche modo, non sono
autopropulsive -; o hanno una dinamica coi paraocchi, come avviene perlopiu'
nelle zone a intensa industrializzazione, concependo quasi come fatale un
particolare tipo di sviluppo. In un caso o nell'altro manca perlopiu' alle
popolazioni interessate la conoscenza esatta dei loro problemi e la visione
delle possibili alternative. Le popolazioni soffrono i loro problemi e, in
quanto questi rimangono irrisolti, crescono condizioni insane, grumose,
talvolta mostruose: e ci si dibatte, spesso ciecamente, o d'istinto a
tentoni, talvolta ci si scatena frenetici quando la sensazione del male e'
tanto acuta da generare panico, incapaci di trovare con la necessaria serena
concentrazione gli spiragli delle soluzioni. Tutto questo ci e' piu' chiaro
quando vediamo una vespa o un uccello sbattersi disperatamente contro la
rigidita' dei vetri pur quando la possibilita' di uscirne dovrebbe essere
evidente: molto meno chiaro quando noi ci sentiamo prigionieri e come
incapaci di riconquistare il nostro libero movimento, il giusto ritmo del
nostro respiro.
Pensare che il mancato cambiamento sociale sia sempre e solo imputabile alla
incapacita' di sviluppo delle persone, categorie, classi, popolazioni piu'
sofferenti, e' ovviamente falso: le stesse persone, o categorie, classi,
popolazioni, quando siano eliminati i fondamentali impedimenti che li
costringono come dal di sopra, hanno piu' facili possibilita' di sviluppo.
Pensare d'altronde che il mancato cambiamento sia sempre e solo imputabile a persone conservatrici, o categorie, classi, popolazioni, ed ai piu' o meno
complicati intrighi messi da loro in atto, e' altrettanto falso: e
diminuisce il necessario senso di responsabilita', tende a eliminare la
necessaria analisi di quegli impedimenti allo sviluppo che pur possono
essere presenti in chi e' oppresso. In molte situazioni infatti la grande
maggioranza delle persone e' malcontenta, ma non riesce a trasformare il
proprio malcontento in una nuova forza propulsiva, capace di vincere gli
impedimenti esterni al proprio sviluppo.
Se per cambiamento sociale intendiamo quella modifica delle condizioni umane per cui ciascuno, individuo o gruppo, abbia maggiore possibilita' di
realizzare la propria personalita' - dunque maggiori possibilita'
economiche, ambientali, giuridiche, culturali, morali - e' comunque ovvio
che molto spesso l'impedimento fondamentale e' costituito da una resistenza
al cambiamento operata, consapevolmente o ciecamente, dagli interessati -
individui o gruppi - a che il cambiamento non avvenga: resistenza che molto
spesso si esercita attraverso strumenti e metodi violenti.
Operare per un cambiamento sociale pacifico significa impegnarsi soprattutto
affinche' i piu' direttamente interessati al cambiamento riescano a
organizzarsi per diagnosticare quali esattamente siano, caso per caso, gli
impedimenti allo sviluppo, e stabilire i propri obiettivi, globali e
intermedi; per inventare quelle strategie e quei metodi che possano
permettere di impostare esattamente i necessari conflitti e la loro
soluzione; per riuscire a uscire dal pragmatismo qualunquista attraverso
un'azione costruttiva ben finalizzata. Non ignorando che viviamo in un'epoca
di transizione in cui l'umanita' sempre piu' facilmente puo' ottenere,
attraverso la tecnica, gli strumenti della propria distruzione o del proprio
sviluppo.
Quando si dice giustizia, si intende solitamente riferirsi a due significati
diversi: corrispondere alle piu' profonde necessita', al piu' profondo
interesse di ciascuno, persona o gruppo, con senso di responsabilita'; o il
complesso delle leggi e degli strumenti che dovrebbero rappresentare il
minimo proposto dai diversi governi. Si tende a istituzionalizzare le piu'
profonde intuizioni morali: il secondo significato rincorre, sia pure
talvolta contraddittoriamente, il primo. La giustizia come la pace, non
viene mai sufficientemente realizzata. La disperazione uccide: niente uccide
quanto la disperazione.
La nuova intuizione morale identifica ingiustizia e violenza: l'impedire,
direttamente o indirettamente, lo sviluppo delle persone, dei gruppi, delle
collettivita'. In quanto il mondo per gran parte e' inaccettabile, la nuova
morale, necessaria agli uomini se vogliono sopravvivere, identifica la
giustizia col cambiamento sociale e, dove l'ingiustizia e' piu' grave, con
la rivoluzione nonviolenta: cioe' con un cambiamento che al contempo sia
strutturale, profondo, rapido, educativo per ciascuno, per cui ciascuno
possa assumersi responsabilita' e effettivo potere. Identifica la giustizia
con una nuova pianificazione operata creativamente da ciascuno, individuo e
gruppo, che sia l'effettivo superamento degli attuali tentativi di
"razionalizzazione del sistema". Identica la giustizia con il fare
esplodere, dove necessario, le inaccettabili contraddizioni.
Da Non sentite l'odore del fumo?, Bari, Laterza, 1971, pp. 93-96.

*
Da pagina 106
Il sistema clientelare-mafioso

Esistono contrade
ove si commercia una femmina
soldi alla mano, o buoi;

zoppica taluno
perche' agli schiavi che tentano liberarsi
e' segato un tendine;

si mozza la lingua a chi parla troppo,
si tronca al rivale il genitale
col falcetto per porgerlo monile
prestigioso all'amata;

all'albero si impicca chi e' sorpreso
a delinquere (basta uno strappo
e il collo inturgidisce violaceo);

in piazza la gente crocefissa
perche' diversa,
sotto gli avidi voli degli avvoltoi
per giorni e giorni si dissangua.

Nelle contrade ove
solo le foglie pendono dagli alberi,
le amate sono ornate con asettiche
palline di vetro o perle, col Sidol
i crocefissi sono lucidati -

si contratta la gente con pudore
viene ossequiato chi sa derubare
senza sfilare agli altri il portafoglio,
chi e' diverso si acqueta nella droga
(con urbane maniere:
si drogano o li drogano in privato),

ridacchiando dei barbari
si elegge
il piu' furbo a mentire,
Presidente.

Da Poema umano, Torino, Einaudi, 1974, pp. 202-203.

*
Criminalita' privata e criminalita' di Stato
L'angosciosa crisi del nostro tempo non deriva per gran parte dallo
smarrimento di chi appura insufficienti le antiche norme di comportamento,
mentre ancora gli mancano gli strumenti metodologici per concretare le
nuove?
Se uno arriva a una scelta inusuale, perche' no? Se responsabilmente
consapevole. Ma sovente uno non sceglie, si appoggia a consuetudini che gli
impongono gia' da piccolo, quando non sa, diventa adulto senza domandarsi il perche' di quelle consuetudini non sue: condannare o lapidare gli altri, in
questi casi, e' rifiutare a priori la vita civile.
L'angoscia non arriva dalla solitudine dello smarrirsi nei labirinti ciechi
dei vecchi Castelli e dei moderni Palazzi dei Processi sbagliati in quanto
agiscono sugli effetti invece che sulle cause?
Non si e' disintegrata un'armonia.
I tentativi di restaurazione dispotica nel mondo ora perlopiu' avvengono
ipocritamente: dietro lo scudo degli abusati simboli cristiani, o islamici,
o chissa' quali altri, si tacciono o manipolano essenziali informazioni, si
camuffa l'inoculare affermando che sia comunicare, e cosi' via.
La protesta esasperata si amplifica e diffonde. Ove la protesta diviene
dominante senza al contempo saper avviare alternative valide, si accelera lo
sfascio.
La grande svolta, lentamente si evidenzia, puo' avvenire nel rifiutare
l'opinione che l'uomo "ha bisogno di un padrone"; nel respingere l'opinione
che l'uomo e' "come un legno storto" da cui "non puo' uscire nulla di
interamente diritto"; nel rigettare il pregiudizio che il dominio sugli
uomini e' necessario, col relativo rapporto fra comando-comandamento e
obbedienza-sudditanza. La grande svolta puo' avvenire elaborando un'etica la
quale affermi necessario che ognuno impari a comunicare, impari a crescere
creativo, mentre apprende a coorganizzarsi: un'etica che consideri crimine
il dominio, l'assuefare "le masse al dominio", l'esaltazione della "volonta'
di dominio" - del Superuomo o dello Stato, sul branco -, mentre
l'alternativa cresce dall'apprendere la creativita' comunicante nelle
strutture valorizzatrici.
La gente ha cominciato a non credere piu' al padrone, al dominio, alle
verita' imposte? Ma ancora non sa esercitare la coorganizzazione maieutica,
non sa ancora uscire dalle proprie nicchie a organizzarsi in fronti atti a
risolvere i propri profondi interessi. E' arduo inventare soluzioni inedite
alle piu' ampie scale, alla ormai necessaria misura planetaria, valorizzando
da ogni parte l'insieme. Piu' che la tolleranza interculturale, la ricerca
maieutica in comune tra gente diversa aiuta alla verifica-composizione di
scelte pur etiche.
Se un bambino viene addestrato dai genitori a rubare nelle tasche e nelle
case degli altri, crescendo in un contesto simile (come in certi quartieri
di Palermo) e' presumibile che cerchera' di imparare credendo di far bene.
In occasione della recente Marcia per la pace, contro la mafia a Reggio
Calabria, ho pensato opportuno a meta' del percorso andare in macchina con
un amico ad Archi (paese dove si spara di frequente, meta della marcia) per
cercare di ascoltare i ragazzi nella piazza cosa pensavano. Sostanzialmente
dicevano: "Arrivano i provocatori".
Un mio amico che insegna in una scuola elementare li' vicino, mi racconta:
"Durante l'intervallo per la colazione, in un gruppetto impegnato in una
discussione animata, Z. F. di anni 8 si accalora: '... e' uno che non
meritava nessuna pieta'!... lo avete visto tutti come era grasso e ben
pasciuto quando e' tornato a casa.... lo hanno trattato come un principino e
lui che cosa fa per tutta riconoscenza? Si mette a fare la spia, il
bastardo!... Avrebbero fatto meglio ad ammazzarlo: stavano tutti piu'
tranquilli e lui imparava a farsi i fatti suoi'". Parlano di Cesare Casella
e del sopralluogo effettuato con lui in quei giorni nelle zone del
sequestro. Nessuna meraviglia. E' molto difficile riuscire a pensare
diversamente da quanto un certo tipo di istituzione ci inculca.
Ancora lo Stato italiano insiste a sparare (quando e' costretto dal clamore
di certi fatti), come avviene soprattutto in Calabria, contro gente che,
nella grandissima maggioranza, se avesse vero lavoro e una diversa
educazione, preferirebbe non avere a che fare con armi e sequestri. Mentre
l'articolo 4 della Costituzione assicura: "La repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono
effettivo questo diritto".
Di fatto, in certi luoghi la disoccupazione degli adulti arriva al 35 per
cento, quella giovanile al 51 per cento: sono dati dichiarati ufficialmente.
Che lo Stato uccida la gente disperata e' particolarmente criminale.
Il caso della maestra che tappa la bocca ai piccoli con lo scotch, e li lega
alla sedia, e' un misero caso di criminalita' privata: da una persona,
probabilmente malata, i ragazzini vengono impediti nello sviluppo della
propria creativita'. Ma se le scuole pubbliche pretendono sistematicamente
di inquadrare aggiogando milioni, miliardi di creature, questa risulta
criminalita' di Stato, usurpazione del diritto e del potere personale e
collettivo.
Quale educare e' mai persuadere o dissuadere? L'ammaestrare, come si fa con
scimmie e pappagalli in gabbia, non e' esercizio del potere, reciproca
influenza del comunicare in cui ognuno cresce, ma tipico dominio che implica
la non-liberta' degli altri.
La violenza puo' apparire "il mezzo piu' risolutivo" sul momento, ma tale
non risulta in prospettiva. I valori si possono mai inculcare? Attraverso "i
valori che si inculcano" si puo' mai "compiere un processo di
socializzazione"? Che tipo di sapiente e' mai "chi inculca l'inferiore"?
Dal primo Novecento, come e' noto, si diffonde l'esigenza del suffragio
universale - ognuno, uomo o donna, partecipi a votare -; i conflitti operai
reclamano via via una piu' equa distribuzione del reddito e una maggiore
sicurezza sociale per i piu' deboli mentre, soprattutto quando avvampano
guerre, lo Stato si impone come industria militare, apparato
tecnologico-poliziesco.
La ricchezza di alcune famiglie puo' non significare affatto il benessere di
tutti i governati. Lo Stato moderno, pur se si ammanta di democrazia,
sovente sta diventando una macchina burocratica in cui "il governo" dipende
di fatto, direttamente o indirettamente, dal grande capitale, dai maggiori
padroni che influenzano - con peso occulto e attraverso i media - le
decisioni fondamentali: quando le esigenze sociali non vengano affermate e
difese da organismi popolari, ove la gente coraggiosamente si sveglia.
La "ragione di Stato" non esprime potere razionale, ma le patologiche
convinzioni dei dominatori, esprime volonta' di dominio. Lo Stato pretende
di incrementare il proprio dominio "a scapito di ogni altra finalita'". Su
questa scia si potra' incontrare, non ironico, un libro intitolato Le
ragioni della mafia.



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