Enrico Peyretti commenta
"Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini"
di Federica Curzi

Tratto da la Domenica della Nonviolenza

[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero.it) per averci messo a disposizione questo testo nato come relazione per il ciclo di conferenze "...Ma la divisa di un altro colore. Dialoghi su nonviolenza e differenza di genere", svoltosi a Macerata il 15-17 marzo 2005; testo il cui bel titolo originale e' il seguente: "La nonviolenza e' sapienza. Note e risonanze nella lettura del libro di Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini".
Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recente edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario.
Federica Curzi ha conseguito la laurea il filosofia nel 2002 presso l'universita' di Macerata, dove attualmente svolge un dottorato di ricerca; e' autrice di diversi articoli pubblicati dalla rivista on line www.peacereporter.net, di cui e' collaboratrice. Opere di Federica Curzi: Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella, Assisi
2004.


Aldo Capitini e' nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato, docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la nonviolenza e la pace. E' morto a Perugia nel 1968. E' stato il piu' grande pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Opere di Aldo Capitini: la miglior antologia degli scritti e' (a cura di Giovanni Cacioppo e vari collaboratori), Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche' integrale - ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell'epoca - bibliografia degli scritti di Capitini); recentemente e' stato ripubblicato il saggio Le tecniche della nonviolenza, Linea d'ombra, Milano 1989; una raccolta di scritti autobiografici, Opposizione e liberazione, Linea d'ombra, Milano 1991, nuova edizione presso L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; e gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996; segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri, Edizioni Associate, Roma 1991; e la recentissima antologia degli scritti Le ragioni della nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004. Presso la redazione di
"Azione nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org) sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di Capitini non piu' reperibili in libreria (tra cui i fondamentali Elementi di un'esperienza religiosa, 1937, e Il potere di tutti, 1969). Negli anni '90 e' iniziata la pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un volume di Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione ampliata, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. Opere su Aldo Capitini: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno: Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di), Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988; Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini. Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi Aldo Capitini", Elementi dell'esperienza religiosa contemporanea, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998, 2003; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante, La realta' liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999; Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta 2001; Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella, Assisi 2004; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in Angelo d'Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001; per una bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro Polito citato; numerosi utilissimi materiali di e su Aldo Capitini sono nel sito dell'Associazione nazionale amici di Aldo Capitini: www.aldocapitini.it, altri materiali nel sito www.cosinrete.it; una assai utile mostra e un altrettanto utile dvd su Aldo Capitini possono essere richiesti scrivendo a Luciano Capitini: capitps@libero.it, o anche a Lanfranco Mencaroni: l.mencaroni@libero.it, o anche al Movimento Nonviolento: tel. 0458009803,
e-mail: azionenonviolenta@sis.it]

1. Nel titolo di questo libro (Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella editrice, Assisi 2004, pp. 201, euro 16), prima ancora che la parola nonviolenza vedo risaltare altre due parole: vivere, filosofia. Sono indicative del circolo prassi-teoria-prassi, opzione-pensiero-opzione. Si legge in qualche parte del Talmud: "Lo studio ha il primato perche' conduce alla pratica". Allora, chi ha il primato? Bellissima domanda, perche' impedisce un primato, giacche' lo distribuisce equamente. Non si sa da dove comincia la vita: dall'agire, certamente; e anche dal pensare in quale modo si debba agire. L'agire nutre il pensiero, e il pensiero guida l'agire. Sono due fratelli, che camminano tenendosi per mano.
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2. La nonviolenza e' una forza per attraversare il dolore del mondo (p. 9). Non e' un ottimismo facile, ignaro del male; non e' rassegnazione astensionista. E' indignazione, dolore, amarezza per la tanta violenza, che fa cercare altrove dalla violenza l'origine, il senso, la direzione. "Come puo' la coscienza umana non rivoltarsi al ricordo di tutte queste violenze e di tutte le persone il cui volto attraverso il corso dei secoli e' stato sfigurato dal ferro e dal fuoco? E' lo scandalo di questa violenza esercitata da uomini su altri uomini che mette in movimento il pensiero filosofico; e' la certezza che questo male non-deve-essere, che provoca la riflessione. Noi vogliamo sostenere che la rivolta del pensiero, davanti alla violenza che fa soffrire gli uomini, e' l'atto fondatore della filosofia. Noi vogliamo affermare che il rifiuto di ogni legittimazione di questa violenza fonda il principio di nonviolenza". Cosi' scrive Jean-Marie Muller (1). Egli chiede: "Come puo' la coscienza umana non rivoltarsi?". Ma puo' anche non rivoltarsi. C'e' questo problema. Non solo: puo' farsi complice, serva e autrice di violenza. Questo accade. Ma e' coscienza vigile o coscienza smarrita? Coscienza (sapere di se'; conoscere se stessi) e pensiero non si limitano a osservare e registrare, ma valutano, scelgono, agiscono. Richiedono un criterio. In effetti, la violenza si fa ripudiare, se vigiliamo, perche' e' negazione della realta', offesa di cip' che e' e che vive. E' contro di noi, se e' contro qualcuno e qualcosa. Ripudiarla e' cercare altro, scoprire e difendere un bene negato. La violenza ci fa scattare (azione-pensiero) in difesa delle cose e delle vite offese. Difendendo le cose, difendiamo la nostra ragion d'essere, e viceversa. Ripudiando la violenza, scopriamo la nostra ragion d'essere.
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3. Ascoltiamo parole alte. Capitini: "Quando il mare rende sulla spiaggia / il cadavere di un fanciullo / tutti si sentono madre" (citato a p. 10). Mencio, l'antico sapiente: "Tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza... La ragione per cui affermo che tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza e' la seguente: supponi che vi siano delle persone che all'improvviso vedono un bimbo mentre sta per cadere in un pozzo. Ebbene, tutte proveranno in cuor loro un senso di apprensione e di sgomento, di partecipazione e di compassione. Questa reazione non dipende certo dall'esigenza di mantenere buoni rapporti con i genitori del bambino, ne' dal desiderio di essere elogiati da vicini ed amici, e neppure perche' disturbino le grida del bambino. Da tutto questo si puo' arguire che non sono uomini quanti sono privi di un animo sensibile ai sentimenti della partecipazione e della compassione, della vergogna e dell'indignazione, della deferenza e dell'acquiescenza, e del senso di cio' che e' giusto e di cio' che non e' giusto" (2). "Tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza" perche' "il sentimento dell'umanita', ren zhi xin, si esprime nel bu ren, 'non sopportare le sofferenze altrui'" (3). Ecco, il principio della nonviolenza e' in questo scatto di in/tolleranza, che, contrariamente al senso solito, non e' contro l'altro diverso, ma a favore dell'altro offeso o bisognoso, nell'incapacita' di rassegnarsi all'esistenza dell'offesa.
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4. Quale sguardo e lettura dell'essere umano porta al ripudio della violenza? La religione della compresenza, la filosofia dell'alterita'. Religione della compresenza. Ho sempre presente una parola di Aulo Gellio, nelle Noctes Atticae: "Religiosus esse nefas, religentes oportet" (poiche' non e' inglese, oggi obbligatorio, lo traduco: e' nefasto essere religiosi; bisogna essere colleganti). La religione cattiva e' quella che lega. La religione buona e' quella che collega, unisce senza assorbire, fonda relazioni nel visibile e nell'invisibile. La relazione e' costitutiva della persona: ferita o distrutta la relazione, e' ferita o distrutta la persona. Tutto cio' che salva, che cura, che arricchisce la relazione, salva, cura, apre, arricchisce la persona. Vista cosi', vissuta cosi', la persona ripudia la violenza che ferisce o distrugge la relazione. Filosofia dell'alterita'. La nostra esistenza interpretata essenzialmente come relazione con l'altro (il Tu-Tutti), fondata su una relazione originaria. Cosi' Federica Curzi spiega il pensiero di Capitini e lo confronta con alcune filosofie relazionali del Novecento (Buber, Levinas, Marcel), e gli puo' dare il nome di "metafisica dell'amore". Se il nostro essere e' essere-con-l'altro, allora la violenza con cui colpiamo l'altro colpisce il senso stesso del nostro essere, percio' va ripudiata, per poter vivere, non solo sopravvivere. Sopravvive anche chi vive sopra la vita
dell'altro, dominato o soppresso, ma non vive davvero se si riduce a vivere senza giusta relazione con l'altro.
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5. Della nonviolenza si puo' parlare in tanti modi: la teoria, i maestri, i testimoni, le esperienze, la storia, gli itinerari. In questo periodo io amo vederla soprattutto come un itinerario. Qui lo espongo in forma sintetica, abbreviata.
Dunque, la nonviolenza e':
1) ahimsa, lotta alla propria violenza, conversione personale dalla durezza alla mitezza;
2) indipendenza, liberta' dall'idolo (4) della violenza;
3) satyagraha, lotta alla violenza di altri e dei sistemi, con una forza che non fa violenza;
4) testimonianza, confidenza in forze cosi' profonde e reali della verita' umana e del bene, che non sono veramente sconfitte da nessuna sconfitta, ma testimoniano in ogni caso una possibilita' migliore. La nonviolenza e' un impegno e una lotta libera dall'ossessione e dall'ideologia della vittoria (5). La quale e' consustanziale all'ideologia della violenza, perche' dovere e volere vincere ad ogni costo trascina a fare violenza. Questo far conto sulla efficacia della nonviolenza, che sempre testimonia la pace, anche quando e' sconfitta (ma ha pure i suoi successi, e piu' di quanti sono comunemente noti (6), non e' "fondamentalismo pacifista", non e' "esaltazione a basso costo del martirio", ne' "l'esporsi masochisticamente al danno della guerra" da parte di "esaltatori del martirio" (7).
Il significato originario di martire e' testimone. Testimone e' colui che porta notizia di un fatto finora ignoto. La lotta per una maggiore giustizia coi soli mezzi giusti introduce la visione di un obiettivo e di un metodo che, anche se non si stabiliscono oggi nella realta' effettiva, si annunciano davanti ad essa come possibili, desiderabili, necessari, validi. La u-topia e' il non-ancora-reale. Persino quando il lottatore nonviolento e' ucciso, egli resta nel tempo piu' presente e operante di chi lo elimina: Gesu' e' piu' presente e operante di Pilato e di Caifa, Martin Luther King e' oggi piu' attivo del suo assassino, Gandhi guida ancora un movimento
mondiale mentre il fanatico che lo uccise e' immobile e dimenticato. Non si tratta certamente di autosacrificarsi per avere successo, ma di avere fiducia nel successo perche' il sacrificio nel testimoniare cio' che e' giusto e' una forza. Si tratta della forza - il satyagraha gandhiano – che viene dallo stare attaccati alla verita', senza ingannare l'avversario, una
forza data dal sapere che la via della giustizia come mezzo per la giustizia, la pace come via alla pace, puo' venire ostruita temporaneamente, ma non cancellata. La giustizia, anche quando e' colpita, testimonia il permanente valore della giustizia. Come la scintilla sprizza dalla pietra sotto lo scalpello, cosi' il diritto risalta sotto l'offesa, non e' cancellato ma evidenziato. Il diritto della persona e' inviolabile perche' non deve essere violato, ma anche perche' non puo' essere distrutto. E' immortale, invulnerabile. In ogni essere umano c'e' "una parte imprendibile" (8). L'opera della pace e della giustizia, percio', rimane intatta, ed e' affidata alla sapienza del tempo: "Uno semina, un altro miete" (9), ma il seme non e' mai perduto.
Questi quattro passaggi possono essere detti in altre poche parole:
1) a-himsa: la violenza patita, trasmessa, epidemica, viene qui interrotta, assorbita e spenta in me. Proprio perche' "mi fa male" (crea male, aggiunge male) e' da escludere dai miei atti. Non aggiungero' violenza, non "faro'" soffrire. Non conta per quale motivo, non conta se chi faccio soffrire e' colpevole o innocente: conta soltanto che cosi' c'e' piu' dolore e male nel mondo. Etty Hillesum, su questo, ha detto parole luminose.
2) In-dipendenza; non-rassegnazione al male; resistenza e non resa.
3) lotta; e' l'effetto del punto 2.
4) "martirio" come testimonianza: e' la decisione radicale; ha un effetto certo, grazie alla "forza della verita'", inoffensiva, liberante.
Come, secondo l'universale "regola d'oro", si tratta di non fare (cio' che dispiace all'altro) e di fare all'altro (cio' che vorremmo fosse fatto a noi), cosi' nella nonviolenza si tratta di non fare (violenza) e di fare (giustizia coi soli mezzi giusti).
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6. Ma torno allo stimolante libro di Federica Curzi, per fissare per me cio' che ne ho colto e cio' che mi suggerisce ancora. Nel primo capitolo Curzi descrive l'itinerario, le fonti, che conducono Capitini all'originalita' del suo pensiero: ogni essere non si riduce a parte di un Tutto, ma ogni esistenza e' finitezza e insieme ulteriorita'. Capitini chiama questa realta' presenza: un finito e una eccedenza; unapossibilita' da liberare.
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7. Nel secondo capitolo (L'esperienza della relazione come prassi d'amore)si entra nella filosofia della compresenza: l'origine dell'essere e' un darsi, un amore che si da'; la realta' si costituisce e si articola come maieutica della moltiplicazione (far nascere se stessi e gli altri, per tutti); la realta' e' "realta' di tutti"; la si conosce e la si impara imparando l'alterita' dell'altro, di tutti gli altri.Il primum e' l'esperienza dell'altro (p. 99). Viene in mente l'anagrammariferito da Luigi Pintor sulla domanda di Pilato: "Quid est veritas? Est virqui adest" (Che cos'e' la verita'? E' l'uomo che hai di fronte) (10). Annoto a p. 71: il principio e' inteso non tanto come fondamento o causa, quanto come moto (p. 10), atto iniziale che apre l'esperienza del limite alla possibilita' di liberazione. Parafrasando il libro biblico (11), si puo' dire con Capitini: principio della sapienza e' la tensione alla liberazione del finito, possibilita' intimamente contenuta nel limite (dolore, violenza) del finito. Si conosce, ci si apre (che e' nascere, rinascere) alla realta', procedendo
per aggiunta (dialettica dell'aggiunta, non della sintesi; p. 87), ci si apre ad ogni Tu: "La mia nascita e' quando dico un tu" (p. 88, che cita Colloquio corale, p. 13). Riconoscendo l'altro come un Tu, interiorizzo lasua esistenza, che diventa presenza (p. 99), e cio' per tutti, dunque compresenza. Per questo, aggiungo io, dare del tu e' molto piu' rispettoso e onorifico che dare del lei (non dico il voi, pluralis majestatis), col quale ci si rivolge all'altro in terza persona, come laterale, distante, non presente, quasi che scartarlo sia maggiore rispetto. Dall'Uno-Tutto delle filosofie totalizzanti Capitini passa all'Uno-Tutti (p. 90), attraverso il Tu-Tutti, il Tu riconosciuto in tutti gli esseri, che valgono come presenze, non oggetti. Allora, se ogni Tu e' presenza e vicinanza, ne seguono nonmenzogna e nonuccisione (pp. 100-104), quindi la nonviolenza, che e' anzitutto rispetto e cura materna. Riconoscere e' piu' che lasciar essere (non violare), e' far esistere, fare presenti, accogliere come presenti; e' un accettare ma anche un creare. Roger Garaudy, scrivendo da qualche parte su Marx, diceva: "Noi siamo creati creatori". Il creare di Dio e' renderci creatori, crea liberta' e liberazione, una dipendenza libera e attiva. Ogni incontro con l'altro, ogni essere incontrati dall'altro, e' un simile creare ed essere creati, e' un essere toccati e modificati, percio' un dipendere che nulla ci toglie e molto ci da', ci chiede, ci attiva. L'amore che fa essere e' amore materno, aggiunta di vita: maternita' di Dio e maternita' dell'amore che riconosce e cura. Amare e' fare come Dio, Dio e' nell'atto di amare.
La nonviolenza e' all'origine (unita'-amore) del reale, non e' un rimedio al reale come male (p. 115). E' la radice (cfr Gandhi: "antica come lemontagne") del reale e dell'umano, da liberare. La nonviolenza e' il principio essenziale, il logos, la natura buona dell'essere (p. 116). Se l'origine, il cuore di verita' dell'essere, non fosse bene, il male non sarebbe urto e scandalo (male), ma normale. Ma poiche' noi di fatto ne soffriamo, se l'essere fosse male, noi saremmo il puro bene, perche' al male ci opponiamo. Il male grida reclamando e chiamando il bene. Essendo male, dimostra che c'e' il bene, almeno come criterio per poter dire che il male e' male. Ho creduto di poter dire: c'e' piu' bene che male (12), sulla scorta, tra altri, di Gandhi: "La storia comunemente conosciuta e' la registrazione delle guerre del mondo... Se nel mondo fosse avvenuto soltanto questo l'umanita' avrebbe cessato di esistere da lungo tempo... Il fatto che vi sono ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non e' fondato sulla forza delle armi, ma sulla forza della verita' o dell'amore" (13).
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8. Ma qui ci si imbatte nel problema del male. La nostra Autrice scrive che:"Il male non ha una chiara spiegazione all'interno della filosofiacapitiniana" (p. 117); "Il dolore del mondo viene attraversato senza essererazionalizzato" (p. 9); in Capitini "non e' presente una chiara teoria delmale" (p. 158). Per Capitini la presenza del male rivela "l'impossibilita'
di accettare che l'evidenza con cui esso si manifesta costituisca un principio della realta'" (p. 158).
Chiediamo: ma e' proprio impossibile questo accettare il male come principio della realta'? L'ideologia della violenza accetta come principio e sensodella realta' polemos, il conflitto eliminatorio, il mors tua vita mea, male tuo bene mio, perdita tua guadagno mio (dell'economia competitiva e
possessiva), percio' la necessita' del male e del farne uso. Capitini, nella "fretta teoretica" di "abbracciare i tutti attraverso il principio dell'amore lascia aperto l'abisso insondato del male" (p. 118). Il suo pensiero culmina nell'esito etico-metafisico facendo "un salto rispetto all'analisi del male" (ivi). Se cosi' il male "non trova alcuna ragione che lo giustifichi", d'altra parte "l'assenza di una interpretazione specificadella violenza e del male rischia di presentare la filosofia della nonviolenza come un ottimismo che da' per scontata la vittoria del bene sul male, ... la quale risulta contraddetta dall'evidenza, fornita dalla storia, di una permanenza della potenza distruttrice della violenza" (p. 119).
Non si capisce, continua Curzi, come Capitini possa rivalutare nella compresenza anche l'attivita' del malvagio, definita essa pure "cooperante" (p. 119, citando Bertin), e ricondotta dall'amore-perdono originario all'interno dell'incremento della compresenza (p. 120). L'azione cattiva
"non ha alcuna collocazione all'interno della filosofia capitiniana", semplicemente e' attestata (p. 119). Percio' sorge la domanda non piccola: "Se la compresenza e' lo statuto intimo della realta', perche' la storia non ne segue lo sviluppo?". Se c'e' la continua assurda esperienza della violenza, "come puo' la nonviolenza essere la logica interna all'essere? Capitini non si pone queste domande", ma il suo sguardo e' teso consapevolmente ad abbracciare gia' una realta'liberata (p. 122). Quindi profetizza, non analizza. Pero' non e' un utopista, ma un profeta attivo, come chiarisce bene Bobbio: "Mentre l'utopista disegna una stupenda struttura di societa' ideale ma ne rinvia l'attuazione a tempi migliori, il profeta comincia subito, qui e ora" (14). E Bobbio cita qui quelle righe tanto espressive dell'atteggiamento di Capitini davanti alle ambiguita', ai limiti, ai ritardi del tempo: "Io non dico: fra poco o molto tempo avremo una societa' perfettamente nonviolenta... A me importa fondamentalmente l'impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione" (15).
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9. Il terribile interrogativo del male non blocca Capitini, non lo incanta. Ma possiamo chiederci: forse perche' non lo guarda abbastanza? Poiche' il male e' constatato ma non pensabile, poiche' non trova posto sensato, proprio per questo fa reagire a respingerlo ponendo il suo contrario, il bene, l'unita'-amore. Se il male e' assurdo, senza ragione, anti-ragione, allora la ragione reagisce, si orienta, decide, muove l'intimo verso cio' che e' diverso dal male. Sarebbe bella la vita senza la morte: come reagire alla morte? La vita senza morte comincia col non-uccidere (16). Davanti al male c'e' il primato della ragion pratica: un pensare-altrimenti che costituisce gia' una "conversione della realta'" (p. 124), attraverso la conversione pratica di chi agisce nell'"incontro con l'alterita'" (ivi). L'altro e' il nuovo a cui darsi, la continua aggiunta, che non si arresta nella contabilita' del male e dei suoi danni, ma sempre da' e aggiunge e apre, e cosi' chi si apre puo' venire persuaso da questo agire che, oltre il pesante ingombro del male, della violenza, c'e' una sorgente continua di nativita' (aggiunta) di bene: in cio' che incontra e scopre nell'altro, e nel suo stesso agire aperto.
La risposta di Capitini al male starebbe dunque:
1) nel constatare come verita' della vita l'amore-darsi; illuminato e persuaso da questa verita' piu' profonda del fatto del male, Capitini non ha bisogno di soffermarsi sul tormentoso interrogativo riguardo al male: meglio agire, porre, aggiungere;
2) nel porre attivamente amore-bene (con l'azione etica) dove c'e' il male, confidando nella forza sostitutiva, innovativa, creativa, del bene.
Questo atteggiamento ha un presupposto necessario: il discernimento qualitativo tra bene e male, e la conseguente opzione. Chi vede solo lo scontro di forze e valuta solo cio' che prevale (ideologia della vittoria; "pre-valere" dei fatti sui valori), senza discernere bene e male, costui "non ha occhi per vedere e orecchi per intendere". Ma allora, se qualcuno e' fuori da quel presupposto discernimento, chiedo di nuovo, la realta' e' ancora "di tutti"? Oppure, come lo e'?
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10. Capitini pero' dovrebbe porsi anche il problema non solo del male che scandalizza e offende, il male degli atti cattivi, ma del male che paralizza e trattiene anche l'animo buono e l'azione buona, il male che e' in noi e inficia proprio il discernimento e l'azione: "Non capisco quello che faccio: non eseguo cio' che voglio, ma faccio quello che odio" (Paolo ai Romani 7, 15). Forse per reagire al pessimismo antropologico della pedagogia religiosa (cattolica e protestante), che vede l'uomo tutto corrotto e incapace, per esaltare la grazia di Dio; o forse per il candore dei puri di cuore come lui, Capitini non pare osservare il male interiore all'uomo. Invece, la nonviolenza, la filosofia e politica dell'amore, non puo' non fare i conti, pur nello stesso atteggiamento moralmente dinamico e attivo, lungi da fatalismi e rassegnazioni, con questa dimensione piu' profonda del male. Ma il pensiero di Capitini sull'abisso del male e sull'amore che lo ricolma, non e' superficiale e sbrigativo. Egli scrive: "Il vero amore continua dall'alto di una croce" (17). "La nonviolenza fa bene a non promettere nulla del mondo, tranne la croce" (18). Strani, questi cenni in Capitini, forte critico della religione sacrificale. Ma egli ha imparato, anche personalmente, dalla sofferenza, quella della malattia e debolezza personale, quella della poverta', quella dell'emarginazione e solitudine sociale. La croce e' sofferenza attiva d'amore perche' e' affrontamento del male. Gesu', non sottraendosi, innocente, al sacrificio impostogli dal potere religioso e politico, condanna con la massima forza e sancisce la fine della giustificabilita' di ogni sacrificio sacralizzato (cfr Rene' Girard). Cosi' la sofferenza ha valore (Gandhi), non in quanto male, ma in quanto opposizione forte al male, col coraggio di pagare il prezzo della lotta.
Il dolore-male, infatti, ha due volti:
1) inflitto, come violenza, offende, ferisce, puo' abbattere, e' forza di morte, sottrae e tende ad annullare; e' l'opposto dell'aggiunta creativa;
2) patito con forza (non subito), e' resistenza, lotta, che umanizza e dilata l'interiorita' di chi soffre, e' "arma umana" (Gandhi) che puo' vincere/con-vincere il violento che infligge sofferenza, del quale puo' toccare il cuore, e intanto nobilita, sottrae al disprezzo e avvia ad una speranza piu' forte della morte ogni vittima che il potere si e' illuso di distruggere e cancellare.
Il male del primo tipo e' il male-violenza, che abbassa il mondo. Chi infligge male per colpire e punire il male, non esce dal male, non toglie male, ma aggiunge male.
Il male del secondo tipo e' il dolore-resistenza, che afferma la vita-darsi sulla morte-togliere, percio' redime il mondo. Lo redime per magnanimita', che significa avere un'anima piu' grande, essere un bene e una bellezza che abbraccia il male, come il mollusco si difende dal corpo estraneo penetrato nella conchiglia formandovi attorno la bellezza imperitura della perla. Il problema non e' tanto la presenza del male, la sua profondita' ed estensione, ma la nostra possibilita' e capacita' di opporgli il bene.
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11. Il terzo capitolo (La metafisica dell'amore) suggerisce alcuni altri appunti e riflessioni. Alle pp. 136 e 137, Curzi vede in Capitini una nuova comprensione del divino "con la necessita' di porre un rapporto religioso tra Dio e mondo, che abbia origine dall'esperienza dell'amore". Va bene l'esperienza dell'amore. Ma... e l'esperienza del male? E quando questa e' l'esperienza preponderante, tale da oscurare il bene? Puo' sorgere una reazione di bene. Ma puo' aversi anche la ripetizione del male, in un orizzonte di solo male. Capitini non resta "perplesso" (come Bobbio), sospeso, o disperato, ma si lascia "persuadere" ad agire per colmare il vuoto del male."L'essenza di Dio e' il suo darsi nell'atto originario d'amore che comprende ogni essere all'interno della realta' in quanto compresenza irriducibile alla morte" (p. 137). Quindi, l'origine dell'amore e' un sorgere dal nulla, e dunque sempre risorgere, essersi liberato dal nulla, anche come destino. Come origine positiva dal nulla, come un porsi sopra il nulla, l'amore non
e' solo "forte come la morte" (Cantico dei cantici 8, 6) ma e' piu' forte della morte. Ma... di nuovo: che accade per coloro la cui esperienza non e' di amore, ma di morte che opprime la vita? Forse una risposta di Capitini potrebbe essere ancora questa: non potendo cambiare queste esperienze di vita, tutto cio' che possiamo fare, e non e' poco, e' immettere atti di amore nella compresenza di tutte le vite, e questi toccheranno in qualche lontano modo chi finora non ne ha fatto esperienza. "In ogni vita si rinnova l'atto creativo in cui Dio riconosce - amandole - tutte le creature, in un atto che le comprende e le salva da qui all'eternita'" (p. 138). Percio', nella compresenza, ogni creatura e' immortale. "La costituzione della realta' come eccedenza del valore sull'essere [eccedenza data da Dio nel suo "darsi" a ciascuno] scongiura la possibilita' del nulla, dando valore di presenza eterna a tutto cio' che esiste" (p. 140, vedi anche 142, 144, 145, 146). Leggiamo di due amori, o due facce della realta'-amore:
1) Dio che si da' ad ogni vita e ogni essere, costituendolo come valore sopra il fatto;
2) nell'amore verso ogni prossimo si ha esperienza di Dio, non onnipotente e trascendente ma in quanto "infinita iniziativa di amore fra tutti" (p. 139).
Dio non e' tutto trascendente ne' tutto immanente; la terza via e' il ripensamento della trascendenza attraverso l'immanenza. L'infinito di Dio costituisce il valore del finito, in esso si presenta, non vi si esaurisce, ma lo apre all'infinito: ulteriorita' nel finito, del finito (p. 140).
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12. Da qui, dall'amore che da' valore, viene il tema del nascere (pp. 141, 143, 145, 147). Nasciamo e rinasciamo perche' siamo amati; amando facciamo nascere; c'e' natalita' e non solo mortalita' dell'essere umano; chi non e' amato non nasce; chi non ama non fa nascere e resta nella mortalita' senza nascita. Viene alla mente Giovanni apostolo: "Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perche' amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte" (1 Giovanni 3, 14). Dio, che si da' come unita'-amore di tutti (p. 142), configura una realta' basata sulla relazione (abbiamo gia' ascoltato Aulo Gellio: "... religentes oportet"), una con-realta', che non giudica e non esclude. Percio' primato della teologia pratica, teologia etica, della relazione altruistica sulla teologia speculativa. "Dio e' amando" (p. 142, al fondo). Cosi' anche noi: amo ergo sum. Come camminare e' squilibrarsi in avanti, cosi' esistere e' darsi, amare. Se qualcuno non amasse, neppure un poco, il suo tentativo di esistere finirebbe nel nulla statico, da cui non sarebbe uscito, e cio' non per una condanna divina, ma per l'inconsistenza di quell'esistere. Ma allora, come per il male, cosi' Capitini dovrebbe far posto nel pensiero all'ipotesi possibile dell'esistenza fallita, non salva, invece di abbracciare tutto, anche l'eventuale malvagio pervicace, in un amore originale senza giudizio, si', ma a rischio di essere anche senza la drammatica liberta' umana di fallire. Forse il suo sorvolare su di cio' puo' dipendere dalla sua sana reazione al pesante, ribadito in quegli anni, dogma cattolico dell'inferno. Amare e' dare di piu', e dare per sempre (p. 144). E' eccedenza rispetto alla parita', alla giustizia ("Se la vostra giustizia non sorpassera' quella degli scribi e farisei, non entrerete nel Regno dei cieli", Matteo 5, 20). E' eccedenza e tensione che preme sul limite della temporalita', per superare la morte. L'esperienza dell'ulteriorita' di valore, presente in ogni altro, e' per Capitini un'evidenza esistenziale; l'evento dell'incontro quotidiano (suo testo semplice e luminoso a p. 144) e' un atto di "amore religioso moltiplicabile per tutti" (Curzi). Cioe': l'altro e' di piu'. Incontrando l'altro, persino se avverso a me, ricevo un di piu', un'aggiunta, sono amato e creato, arricchito, indipendentemente dalla sua volonta', e indipendentemente da quanto e' chiara la mia consapevolezza. Ricevo un di piu', rispetto a cio' che sono, e mi e' chiesto il di piu' dell'amore, che non ricambia soltanto, ma aggiunge.
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13. Si ripresenta (a p. 145) l'esperienza del male, incontrato
nell'incontrare il nemico, il malvagio, il peccatore; provoca dolore, sdegno, compassione; e' un appello a sentirci responsabili per l'altro, specialmente per chi e' stato soggetto o oggetto del male. Nel testo qui citato, Capitini chiama "dimezzati" quelli che Nietzsche chiama "malriusciti": per Nietzsche sono da buttare, per Capitini da promuovere, da far nascere. Ma affinche' l'altro, il di piu', sia realmente incontrato e ricevuto, occorre accoglierlo, fargli uno spazio in noi, ridurre qualcosa di noi, non avere un se' completo, pieno ("pieni di se'"), restringersi e tacersi,
sapersi bisognosi, per poter contenere il dono che ci accrescera' e arricchira' (p. 146). Alle pp. 158, 159 ritorna il tema del "principio": l'ideologia della violenza, ben presente, accetta la violenza come principio; interrompere la catena che risponde al male col male, e' porre la nonviolenza come
principio. Riconoscere che l'amore per l'altro e' il primo movimento e il senso dell'essere nel mondo, e' traccia di una presenza ulteriore al mero essere, "che conduce a individuare come origine un fondamento vivo dell'esistenza" (p. 166), cioe' a credere in colui che chiamiamo Dio. Si', ma noi cominciamo come essere-amati (passivo), non come amore per l'altro. Questa precisazione semmai rafforza l'argomento, mostrando che un amore ci precede, all'origine,
ed e' un amore che ama l'altro, e l'altro siamo originariamente noi, in quanto amati. Ma chi non fa l'esperienza di essere-amato? Non potra' mai amare? Ne' avvertire la natura dell'origine, la "metafisica dell'amore"? Illustrando, a p. 168, tra le filosofie dell'alterita' del Novecento, il pensiero di Martin Buber, Federica Curzi registra la sua "ontologia delllo zwischen (tra)", per la quale il "tra" della relazione ontologica fonda l'essere di tutti gli elementi del reale. Forse si puo' aggiungere qui che questa relazione costitutiva sussiste anche sotto le nubi dell'incomprensione, anche dell'incomunicazione, e sotto la grandine del conflitto e persino dell'avversione. Lo zwischen permane, costitutivo, anche sotto e nonostante il gegen (contro). Una delle due: o costituente e' il gegen, e lo zwischen accessorio, casuale, caduco, oppure viceversa. Dunque: o ontologia della guerra, oppure della pace. La prima e' priorita' dell'Io, la seconda del Tu e della relazione. Il centro nell'Io configura la casa, la piccola patria, e il prossimo delimitato. Il centro nel Tu e nella relazione configura la patria mondo, il prossimo intero. Il centro nell'Io e' l'economico, il privato, il possesso. Il centro nel Tu e nella relazione e' il politico, il pubblico, la condivisione, e culmina nel religioso.
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14. Conclusione: Una politica della nonviolenza
La critica capitiniana della politica e della societa' (testo alle pp. 178-179, da Elementi di una esperienza religiosa, 1937, p. 12) coincide con la critica della razionalita' occidentale (p. 180). Raimon Panikkar ha scritto: "Il compito della filosofia nel momento attuale... consisterebbe, a mio parere, nel disarmare la ragione armata" (19), e questo la filosofia non lo fa da sola, ne' ad opera di una ragione piu' potente, perche' la filosofia "non e' esclusivamente razionale ne' meramente teoretica". La violenza non e' naturale, non e' la legge della realta', ma la negazione della vita e della natura, percio' anche della politica (p. 181). Quindi Capitini rifiuta ogni rassegnazione. L'antropologia (di Machiavelli, di Hobbes) che naturalizza la violenza e' la profezia del peggio, che si autoadempie ponendo la violenza come regola, come unico orizzonte e strumento decisivo, e relegando la nonviolenza a fortunata eccezione; mentre e' vero il contrario. La violenza e' la cecita', che non vede nell'altro la "radice intima" a tutti comune, amorosa, creativa, che vieta di distruggere e offendere alcuncha'. L'esperienza e la filosofia della comunione ontologica, della "apertura ai tutti" si traduce naturalmente in politica, in una tramutazione della politica. Una nuova teoria del potere e' "la chiave di accesso ad un nuovo senso della politica" (p. 182). Ma e' veramente nuova? Gia' Aristotele, Etienne de la Boetie, Gandhi, e, dopo Capitini, Gene Sharp (20), hanno mostrato che il potere speciale di uno sta nelle mani di tutti, che nessun potere si regge senza qualche consenso, che il potere non e' posseduto, ma e' dato dal consenso. La verita' della compresenza degli esseri tutti, per Capitini, ispira la politica. La politica e' la costruzione della possibilita' della convivenza fra tutti, e' "la capacita' di comprendere in essa tutte le presenze e di preservare il loro futuro". La politica coincide col servizio alla vita, che e' unita' dei tutti.
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15. Che cosa significa il potere per Capitini? (p. 183). Potere e' diverso da potenza, e questa vuol dire dominio sull'altro, privato del suo potere, invaso e occupato nella sua liberta'. L'essenza del potere non e' questa violenza, ma la sua condivisione tra tutti, appunto il "potere di tutti" liberato, l'onnicrazia. Se la compresenza e' l'unita' tra tutti (non unita' di tutti; non tutti una cosa sola) essa esclude un potere su tutti, ma vuole il potere di tutti (p. 184). Questa uguaglianza non e' solo formale, giuridica, detta nella legge; non e' materiale-economica-quantitativa, ma e' anzitutto uguaglianza nel valore, il quale e' dato dall'infinito a cui ogni finito e' aperto, e' dunque equi-valenza (Pat Patfoort) piu' che l'ambigua eguaglianza. Non e' solo, questa uguaglianza, la "pari opportunita'", il non-impedimento, la non-discriminazione (viene in mente: "Tutti possono arricchirsi, salvo i poveri!"), ma e' il potere come reale possibilita' di tutti, quindi di partecipazione effettiva, organizzata e garantita, di espressione da parte di ciascuno del proprio dono a tutti gli altri, di democrazia dal basso, di potere ascendente dagli ultimi e umili fatti primi, fino ai capaci e forti, questi non esclusi ma fatti ultimi. Questo non e' un potere che fa violenza imponendosi, ma e' il "potere della nonviolenza". Politica falsa, non genuina, ma adulterata, fallita, come cibo che non nutre ma danneggia, e' la politica che fa conto su violenza e guerra, che usa il potere-imposizione. Guerra e violenza non sono affatto mezzi e continuazione della politica, ma la sua fine: "Nel momento in cui si prepara una guerra non si ha la prosecuzione della politica, ma il suo fallimento" (21).
Come nella triste serie dei Disastri della guerra di Goya, un testo di Capitini elenca sei enormi mali della guerra: "la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage di innocenti e di estranei, l'involuzione dell'educazione democratica e aperta, la riduzione della liberta' e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della societa' e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell'efficienza distruttiva al controllo dal basso" (p. 185, da Il potere di tutti, p. 67). In questo testo, Capitini indica poi "l'antitesi della natura come forza e la compresenza come unita'-amore". Qui c'e' l'idea capitiniana della pura natura, del "vitalismo", come una dimensione cieca, che si afferma anche con la violenza, e che solo la consapevolezza della compresenza puo' criticare e superare, correggere e addolcire con la mitezza del vivere insieme, non del solo vivere istintivo. Aveva detto che la violenza non e' la legge della realta' e della natura. Ma solo la religione attiva della compresenza riporta anche la natura alla sua verita'.
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16. La nuova politica scaturisce dalla forza della nonviolenza, capace di riconoscere il valore di ogni alterita'. L'espressione suggerisce chiaramente la differenza e opposizione tra forza e violenza, a cui tengo molto. C'e' una confusione corrente, anche voluta, tra i due termini, per nobilitare la violenza. Ma la forza costruisce, la violenza distrugge (22). C'e' un enorme equivoco da risolvere. La forza e' vita, e' diritto-dignita', e' politica; la violenza e' morte, offesa e sopraffazione. La forza e' resistenza; la violenza e' aggressione. Capitini non aderisce a partiti, ma sceglie la politicita' quotidiana di base. Non mi pare che elabori la critica forte dello strumento partito, fatta da Moisei Ostrogorski, da Simone Weil e da Vaclav Havel (23). Nei partiti egli vede la vecchia concezione del potere, concentrato, che si impone sui cittadini dall'alto di una fortezza che i partiti mirano a conquistare, in lotta tra loro. Il potere di tutti, annunciato e cercato da Capitini, ha i caratteri del decentramento, della permanenza (e' continuo, quotidiano, non sporadico, nel momento della delega elettorale), dell'accessibilita' a tutti. Ma (p. 188), mentre vale molto come educazione all'incontro e confronto civico e umano, perche' "per le persone, la cosa peggiore e' non incontrarsi, non ascoltarsi reciprocamente" (p. 186, tratto da Nuova socialita' e riforma religiosa, p. 240), non pare che possa essere funzionale al momento della delibera, della decisione, nelle grandi societa'. La "parte mancante" sarebbe il raccordo tra le strutture dal basso e gli altri organi della democrazia, fino a poter "rappresentare la voce di tutti all'interno dello spazio della decisione". Rimane il grande valore dell'indicazione di Capitini per "rifondare una politica a partire dall'incontro, dalla cura della relazione con altri, con tutti" (pp. 187-188). Dunque, politica come incontro paritario di tutti (p. 189): ma la politica e' anche conflitto, proprio perche' liberta' di tutti i singoli, potere di tutti, differenze tra i singoli. Allora, ordinerei le idee in questo schema (tra parentesi il segno positivo o negativo) [per esigenze grafiche non possiamo qui riprodurre lo schema in modo adeguato; riportiamo comunque i termini di esso - ndr -]:
1. politica:
2. incontro dalla base, dalla periferia-centro, nel decentramento (+)
3. conflitto
4. violento: scontro eliminatorio (-)
5. moderato: criterio della maggioranza:
= 6. semplice forza del numero (-)
= 7. relativa nonviolenza democratica (+)
= 8. rischio: dittatura della maggioranza (- -)
9. ricerca del consenso nonviolento nel dialogo razionale comunitario:
10. con persuasione comune (+)
11. muro contro muro (-)
12. delibera a maggioranza (minor danno - +)
13. ripresa del dialogo educativo continuo (n. 2) (+)
Le procedure democratiche classiche per decidere, nella differenza, se non raggiungono 9 e 10, ricadono in 11. A questa impasse si rimedia con la imperfetta nonviolenza ("meglio contare le teste che tagliarle") della democrazia della maggioranza, n. 12, e si deve ricominciare (n. 13 che riporta al n. 2). La liberta' non e' individuale, ab-soluta, ma con-divisa (p. 190). E' liberta' di partecipare con tutti gli altri alla polis. Il programma politico di Capitini si puo' sintetizzare: "Liberalsocialismo inteso come massima liberta' sul piano giuridico e culturale e massimo socialismo sul piano economico" (24). "Soltanto il potere della nonviolenza come capacita' di vivere con-altri [tutti gli altri] puo' restituire alla politica la sua identita' propria" (p. 191). La politica e' pace nonviolenta, relazione di pace non imposta, ma trovata nel co-orientamento. Il problema e' passare da questo concetto di politica all'attuazione... Ma intanto si pone salda un'alternativa alla prassi violenta, da cui nasce il concetto violento della politica, che genera sempre altra violenza pratica. L'obiettivo politico nonviolento fa cercare e costruire i mezzi omogenei nonviolenti. La prassi politica nonviolenta libera le potenzialita' piu' originarie dell'uomo: la sua dignita', i suoi diritti umani, e specialmente restituisce i diritti umani a coloro ai quali sono negati. L'esercizio dei diritti si completa in armonia con l'esercizio dei doveri, perche' la politica e' etica, ed e' "cura per l'altro": e' questo, in Capitini, "il nuovo nome della politica", il perfetto opposto del nome oggi (ma quante altre volte nella storia e nello spazio umano) corrente e dominante: politica come "gara contro l'altro". La politica capitiniana e' l'opposto assoluto della politica che intende usare la morte data ad altri, invece della cura della vita.
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17. Il criterio e' chiaro: "Preservare la vita ed il futuro di tutti e' il primo criterio necessario per vivere all'interno di una percezione mondiale". Qualunque criterio escludente, in nome di qualunque valore - liberta', progresso, civilta', democrazia - sarebbe dimenticare le radici della politica, che e' spazio della comunita', di tutti e di ciascuno (p. 191). Questo e' l'imperativo categorico di Jonas: "Un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e orientato al nuovo tipo di soggetto agente, suonerebbe press'a poco cosi': 'Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra', oppure, tradotto in negativo: 'Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilita' futura di tale vita', oppure, semplicemente: 'Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell'umanita' sulla terra', o ancora, tradotto nuovamente in positivo: 'Includi nella tua scelta attuale l'integrita' futura dell'uomo come oggetto della tua volonta''" (25). La partecipazione nel potere di tutti, in quanto produce uguaglianza, produce pace. Ecco un altro nome vero della politica: la politica e' pace. La cura per l'altro e' il mezzo, il metodo, la via; la pace e' il risultato. Il quale e' possibile se il metodo e' quello detto. Che non e' eludere il conflitto, ma gestirlo senza violenza, con metodi costruttivi, della vita, non distruttivi, della morte e del dominio (p. 192). La pace e' il fine della politica. Non ne e' "la fine", nel senso che possa porsi solo al di la' della politica, essendo questa identificata con la non-pace, o non-ancora-pace, ma sempre legata a mezzi di conflittualita' permanente, compromessa con la violenza, non pacificata (26). La polis di giustizia, di pace, di unione e partecipazione, di nonviolenza, del potere di tutti, del confronto senza violenza, non e' limitata ai forti, capaci di lottare e competere, ma e' comunita' - cosa e casa comune, res publica, di tutti, non divisa e non lacerata fra possessi parziali e contrapposti, non privatizzata, non consegnata all'etica del profitto particolare, ma alla legge del bene comune e del servizio ad esso. Di questa comunita', dunque, sono membri non i forti privilegiati e capaci: "ne fanno parte non soltanto i cittadini sani e attivi e producenti, ma anche i malati, gli inerti, i disfatti, i morti" (27). E' una "politica della responsabilita'", della cura per tutti, quindi certamente anche delle generazioni future. Capitini anticipa una sensibilita' che ha avuto sviluppi dopo di lui, nel pensiero morale e in tutta la cultura ecologica: la responsabilita' verso i posteri (28). Si tratta di una "aggiunta" preziosa all'etica interpersonale e politica: non e' vero che non abbiamo doveri verso chi ancora non e' nato, verso i posteri. Poiche' noi poniamo continuamente le condizioni, positive o negative, della loro vita, rendendola piu' o meno umana; poiche' il loro modo d'essere e di vivere e' nelle nostre mani; dal momento che siamo responsabili di tutte le conseguenze, anche lontane ma prevedibili, delle nostre azioni, siamo tanto piu' responsabili quando quegli effetti toccheranno vite umane, sebbene ora sconosciute. Ecco, la comunita' cosi' intesa e' una proiezione al massimo possibile della democrazia partecipata, il suffragio piu' universale che ci sia (scritto in tempi di dittatura imposta e subita dall'Italia). Anche i morti partecipano con la loro presenza nella costruzione attraverso tempi e spazi della "coralita' dei valori". Davvero, non una politica del calcolo e confronto delle forze, ma della convergenza differente e costruttiva di tutte le forze ed energie spirituali. Un'immagine massima e compiuta della citta' umana, modello trainante delle realizzazioni storiche condizionate. Ma non un modello estrinseco al reale: piuttosto un'animazione e fermento intimo della convivenza umana storica, che cerca e persegue la sua verita' sempre maggiore.
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Note
1. Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004, p. 22.
2. Mencio (Mengzi), filosofo cinese, 372-289 a. C., citato in Pier Cesare Bori, Saverio Marchignoli, Per un percorso etico tra culture. Testi antichi di tradizione scritta, seconda edizione, Carocci, Roma 1998, p. 59. Si potrebbe usare questo ragionamento, e lo si fa, contro la nostra argomentazione: "non sono uomini...", dunque vanno eliminati dalla societa' umana. Ma fa parte dell'umano l'evoluzione sia in peggio sia in meglio, e nessuno puo' escludere il ricupero di un essere umano all'umanita' che lui
ha negato in se stesso. Sopprimerlo sarebbe un disumano fissarlo nella contraddizione con la sua natura. Credo, infatti, che questo "non sono uomini..." sia da intendere non nel senso definitorio, ma descrittivo, come se dicesse: non vivono all'altezza umana, contraddicono la loro natura umana.
3. Cfr nota 34 alla stessa p. 59, di Pier Cesare Bori, citando Scarpari, La concezione della natura umana in Confucio e Mencio, Cafoscarina, Venezia 1991, p. 40.
4. Alberto Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna, Einaudi, Torino 2004, p. 134.
5. Cfr il mio Dov'e' la vittoria? Piccola antologia aperta sulla miseria e fallacia del vincere, Il Segno dei Gabrielli editori, S. Pietro in Cariano (Verona) 2005.
6. Si puo' vedere la mia bibliografia dei casi storici di lotte nonviolente Difesa senza guerra, pubblicata piu' volte in successivi aggiornamenti, reperibile in internet:
http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_2668.html ;
http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
7. Secondo il giudizio di un autore (citato da Melloni nell'opera citata, pp. 135-136), che puo' forse avere ragione in qualche caso di pacifismo estremo, di cui pero' non vedo esempi, quando invece figure di un simile autolesionismo sacrificale sono tipiche della mitologia militare violenta, in tutta la storia, fino alla figura tristemente attuale dell'attentatore sui-omicida.
8. Raniero La Valle, Introduzione a Claudio Napoleoni, Cercate ancora. Lettera sulla laicita' e ultimi scritti, Editori Riuniti, Roma 1990, p. XXX.
9. Giovanni 4, 37, che cita la bella immagine del salmo 126, 5-6.
10. Luigi Pintor, I luoghi del delitto, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 15.
11. Principio della sapienza e' il timore del Signore (Proverbi 1, 7).
12. In La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998, pp. 135-138.
13. Mohandas K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1996, pp. 64-65.
14. Norberto Bobbio, Introduzione a Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 31.
15. Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa, Laterza, Bari 1937, p. 111; pp. 115-116 della riedizione Cappelli 1990.
16. Questo pensiero di Capitini si ricava dalle pp. 16-17 e 30-31 di Teoria della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1980, e anche nella citata Introduzione di Bobbio a Il potere di tutti, p. 33.
17. Scritti filosofici e religiosi, a cura di Mario Martini, Protagon, Perugia 1994, p. 199; citato da Curzi, p. 130.
18. Teoria della nonviolenza, citato, p. 4, da Il problema religioso attuale (1948).
19. Raimon Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo. Edizioni Cultura della Pace, Fiesole (Firenze) 1990, p. 47.
20. Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, vol I, Potere e lotta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985, Capitolo I, La natura e il controllo del potere politico, pp. 49-94.
21. Raniero La Valle, Introduzione a Enrico Peyretti, La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998, p. 8.
22. Vedi nel sito
http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
un mio articolo.
23. Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, citato, pp. 172-177.
24. Aldo Capitini, Il potere di tutti, citato, p. 327.
25. Hans Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Insel Verlag, Frankfurt am Main 1979; Il principio responsabilita'. Un'etica per la civilta' tecnologica, Einaudi, Torino 1990, p. 16.
26. Vedi la discussione nei seguenti articoli: La pace, fine della politica, di Claudio Ciancio, in "il foglio" n. 306, novembre 2003 (l'articolo di Ciancio giocava sul duplice significato di "fine", volendo dire che la politica deve preparare la pace, ma questa trascende la politica, che non puo' realizzarla); Pace, fine o principio della politica?, di Enrico Peyretti, in "il foglio" n. 310, marzo 2004 ["il foglio" di cui qui si parla e' il prestigioso mensile redatto da "alcuni cristiani torinesi" da trentacinque anni a questa parte - ndr -].
27. Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa, citato, p. 50; questa citazione e' a p. 192 di Curzi.
28. Dietrich Bonhoeffer (citato da Curzi a p. 193), Hans Jonas (citato qui sopra), Giuliano Pontara (in vari scritti: per esempio Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995; problema richiamato da Pontara in La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, pp. 23-25).


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