Presenza alla Persona nell'etica di Aldo Capitini. Considerazioni su Alcuni Scritti Minori di Giuseppe Moscati Dal sito www.aldocapitini.it riprendiamo il seguente saggio. Giuseppe Moscati (per contatti: giuseppe.moscati@tiscalinet.it) e' dottore di ricerca presso l'Universita' degli Studi di Perugia dove svolge attivita' di collaboratore scientifico, tutore di sostegno e cultore della materia presso le cattedre di filosofia morale e storia della filosofia morale del professor Mario Martini, con cui condivide tra l'altro gli studi capitiniani. Formatore sui temi dell'intercultura, della pace, del dialogo tra i popoli e della cooperazione allo sviluppo, e' segretario e membro supplente del Premio di laurea "Aldo Capitini". E' redattore della rivista "Rocca". Ha pubblicato numerosi articoli su riviste specializzate occupandosi in particolar modo degli aspetti etico-politici dell'opera di Capitini e in generale del pensiero nonviolento, tra cui: "Il libero-socialismo di Aldo Capitini", in AA. VV., Aldo Capitini tra socialismo e liberalismo, Franco Angeli, Milano 2001; La presenza alla persona nell'etica di Aldo Capitini. Considerazioni su alcuni scritti "minori", "Kykeion", n. 7, Firenze University Press, Firenze 2002; Mazzini, Capitini, Gandhi. Intervista a Mario Martini, "Pensiero Mazziniano", nuova serie LVII, n. 4, Bologna University Press, Bologna 2002; Pensare la pace, scacco matto alla guerra. Una riflessione filosofica su conflitto e dintorni, "Foro ellenico", VI, n. 53/2003; Dietrich Bonhoeffer: Essere-per-gli-altri, "Rocca", LXIII, n. 8/2004; E il settimo giorno ando' alla guerra. Religioni tra scenari di guerra e orizzonti di pace, "Apulia", XXX, n. 4/2004; Capitini, la nonviolenza e il dialogo tra i popoli, "L'altrapagina", XXII, n. 5/2005; Maria Zambrano, violenza e creazione, "Rocca", LXIV, n. 12/2005; Simone Weil: dal mito al cuore dell'uomo, "Rocca", LXIV, nn. 16-17/2005. Si puo' partire da una significativa definizione del negativo data da Aldo Capitini sessant'anni fa per approfondire alcune delle tematiche cruciali del pensiero del filosofo della nonviolenza. Mi riferisco, in particolare, ai temi di responsabilita', persona, liberta' e valore, e alle posizioni capitiniane di anti-dualismo, critica dell'idealismo e integrazione-aggiunta all'esistenzialismo: tutto cio', esplicitato da Capitini in alcune sue opere di ampio respiro, puo' essere letto, peraltro, anche attraverso gli scritti meno conosciuti dell'autore. Il testo in questione, innanzitutto, e' quello di una conferenza tenuta da Capitini nel febbraio 1941 e dedicata al problema della persona (1). Esso, del resto, e' ancor piu' fecondo se letto alla luce di altre considerazioni di Capitini presenti, sotto forma di questioni, suggerimenti e risposte alle provocazioni di pensatori come Guido Calogero, Giuseppe Granata, Guido De Ruggiero ed altri "dialoganti" dell'epoca, nei testi di questi, soprattutto in Individuo e persona del Calogero e in Azione e valore del De Ruggiero. Capitini, dunque, definisce il negativo come dolore di qualcuno, come dolore di un essere determinato: esso "e' sempre dolore di una persona; non esiste il dolore di 'nessuno'" (2). Da qui, poi, egli puo' dedurre la necessita' di un certo atteggiamento etico: la "presenza al dolore della persona" (3). Ecco, allora, che ci appare subito chiaro come Capitini voglia connotare come etico il rapporto fra persone, fra l'io ed il tu che l'io si ritrova davanti sofferente, in condizioni di bisogno. Ne consegue che l'uomo e' l'essere nel bisogno, che l'uomo e' tale in quanto bisognoso dell'altrui presenza. La quale, dovere morale di ciascuno, diventa l'argine all'indifferenza e il balsamo della solitudine. Ma per comprendere la presenza, il suo valore e la sua azione, va prima presa in considerazione la persona: la priorita' di ogni discorso morale spetta, secondo Capitini, al "porre le persone". Un atto che costituisce il vero baluardo contro due pericolosi nemici di una visione morale del mondo, e cioe' solipsismo e vitalismo "grezzo": "Il solipsismo e' l'ombra che sempre accompagna la nostra decisione, ed e' il dubbio che ci poniamo sempre... corrispettivo della nostra liberta', autonomia o infinita' di volere" (4). E qui, in un luogo kantiano - ma di un Kant "riformato" (5) -, il Nostro afferma che "porre gli altri e' valore in me, e siccome avverto che posso far cio' e non farlo, ne consegue una nobilta' intima nel porre le persone... Ponendo le persone, da un lato superiamo il solipsismo, dall'altro il grezzo vitalismo" (6). Anzi, l'interesse di Capitini si incontrera' con maggiore evidenza nelle sue riflessioni sul come porre la persona: e' sentendola davvero nel tempo che posso avvicinarne la vera essenza, che coincide con l'esistenza, ed e' nel calarmi io stesso nel tempo, vicino ad essa, che posso sentire la sua esistenza come viva, vitale, creatrice direi; cogliere l'esistenza di una persona vuol dire prenderne a cuore e sul serio tutti i frammenti vissuti, finanche ogni desiderio, progetto, speranza, senza mai pensarli quali accidenti (7). Tutto questo e' possibile se si e' in una certa disposizione etica, se si ha, cioe', l'intenzione gratuita e disinteressata di porsi come liberta' vicino alla persona che ci e' davanti, e quindi di offrirci come atto libero al tu che, costituzionalmente, mi richiede e insieme mi completa e arricchisce. Tempo e liberta' sono pertanto le due coordinate principali del percepire l'altro come persona, le due categorie fondamentali che ci consentono di coglierne l'esistenza. Troviamo conferma di cio' nella caducita' dell'esistere dell'uomo e nella fallibilita' dell'agire di questo: "bisogna che io provi lo spavento di vedere la persona come esistente nel tempo e suscettibile di cessare, perche' l'assuma veramente col mio atto; bisogna che veda con spavento la persona come suscettibile di errare, perche' io sia vicino alla sua liberta' di elevarsi invece al dolore" (8). Siamo ancora una volta all'interno della possibilita' del negativo: della morte in quanto fine della persona come mortale e finita e del male in quanto caduta nello strumentalismo e nell'atteggiamento totalitario. L'uomo, da una parte e' ente finito ed esposto all'estinzione, quindi caduco e bisognoso di aiuto, dall'altra e' attore etico-sociale esposto a mille situazioni, percio' fallibile e bisognoso, ancora una volta, di un tu che lo motivi alla conquista dei valori. * Questo legame tra gli uomini fondato sul confronto, sulla comprensione reciproca e sulla condivisione del negativo (9) - possiamo sintetizzare: sulla vicinanza-presenza - rappresenta il vero di piu' della visione capitiniana del mondo. Il rapporto tra gli uomini e' letto in base alla considerazione del bisogno come radice dell'esistenza umana ed in vista dell'elevazione a valore prioritario della condivisione di quell'ineludibile fondo opaco della vita di ciascuno, l'elemento drammatico di fondo dell'essere qui ed ora. A proposito di quest'ultimo, poi, che e' un negativo nietzschianamente "umano, troppo umano", come non citare uno dei passi piu' suggestivi di una delle opere maggiori del nostro autore, La compresenza dei morti e dei viventi? Il passo significativo, in questo senso, non puo' che essere quello che prende le mosse dall'interrogazione retorica di un Capitini indagatore dell'origine del male: "Perche' noi troviamo il male? Proprio perche' la compresenza, nel far nascere l'individuo, lo colloca in una condizione nella quale egli puo' farsi, o tendere a farsi, esclusivamente forza, vitalita', accentramento nell'io isolato, come egoismo o egotismo; quanto piu' egli tende a realizzarsi a questo livello, tanto piu' si realizza quella forma di realta' che noi chiamiamo naturalita', con tutte le sue chiusure, i suoi limiti, il suo male. Quanto piu', invece, l'individuo svolge il suo essere nella compresenza, tanto piu' si intravede la possibilita' che gli impedimenti si riducano e cessino fino al punto di una realta' liberata, attuazione della compresenza" (10). Ma, sia ben inteso, la naturalita' non e', in Capitini, il dato da superare senza esitazioni perche' malattia dell'umanita': essa e' cio' che va recuperato, credo, a quel "vitalismo grezzo" di cui leggevamo sopra, e' la base sulla quale l'uomo e' invitato dal suo stesso esistere e dalla sua consapevolezza di essere nel mondo a costruire i valori. Responsabilita', compresenza, condivisione del drammatico dell'esistenza, la stessa idea di persona non hanno senso se non in relazione ad un teatro - il mondo umano - nel quale entrano in scena i corpi come le volonta', le passioni come le leggi morali, gli istinti come le idee. E se accanto alla memoria o all'"attivita' spirituale" di un uomo c'e' la sua stessa presenza fisica, i rapporti tra gli uomini non possono prescindere da quella base di naturalita'. Tornando alle pagine del Capitini meno noto de Il problema della persona, ci appare evidente proprio questo, attraverso una sorta di reazione del filosofo al dualismo atto/corpo: "oggi sentiamo [il nostro atto] troppo scisso dal corpo fisico" (11). Questo, ferma restando la sottolineatura dei limiti di una concezione materialistica tout court del mondo, limiti che per Capitini investono una vera e propria questione di diritto: la persona e' rispettata solo da colui che la avverte come tale allo stesso modo in cui il diritto richiede in chi lo tutela il dovere di prenderlo come diritto (12). La materia, qui, funge da stimolo, pone la finitudine, che e' poi la spinta al superamento della condizione finita stessa, ma non puo' costituire il fondamento della persona, come prevede il materialista; parallelamente, l'esistenzialista parla del limite dimenticando, secondo Capitini, che questo sorge solo la' dove c'e' la volonta' di superarlo (13). Ma se e' vero che tali avvertenze critiche permetteranno al Nostro di definire, in positivo, cosa sia la "fede nel valore", la "vicinanza alla liberta'", nonche' la "presenza alle persone", e' vero anche che la sua conseguente concezione del bene si espone ad una possibile critica. Prendendo ad esempio il concetto di provvidenza, il testo del '41 porta alle estreme conseguenze l'idea della fede al valore e arriva a dire che, "se io compio una qualsiasi azione, mi sento certo che essa e' un bene, e il bene dunque c'e'" (14); ma e' chiaro che l'inferenza del bene dalla semplice certezza soggettiva lascia delle perplessita'. * Se facciamo riferimento ai valori e al legame tra azioni e valori, dobbiamo chiamare in causa un altro rapporto fondamentale tematizzato da Capitini in queste sue pagine "minori" eppure cosi' stimolanti, quello tra responsabilita' e legge. A Guido Calogero, che lo invita a pronunciarsi sulle questioni dell'etica classica (principalmente sulla dottrina della virtu'), egli risponde che, in realta', "in noi stessi e' la responsabilita', la fonte medesima della legge" (15). Ma allora, se e' proprio nell'essere responsabili il fondamento della legge, l'individuo si fa persona nel mentre si fa responsabile di ogni suo atto, a monte del quale vi e' la scelta del valore; quest'ultimo, dunque, implica necessariamente l'impegno, che e' da considerare e a livello sociale, comunitario (l'uomo tra gli uomini), e a livello personale, a priori rispetto al mondo esterno (l'uomo davanti a se stesso). Con intonazioni ancora una volta kantiane, Capitini pone questo rapporto valore-impegno in stretta relazione con quello io-tu, perche', se il valore coinvolge un impegno rispetto ad esso, cio' e' possibile sulla base della presenza di un tu all'esistenza dell'individuo. Questa e' senz'altro una delle riflessioni piu' alte del testo capitiniano dedicato al problema-valore della persona e merita pertanto un approfondimento maggiore. "Si studi pure per lungo e per largo il dramma dell'individuo, si accumulino i documenti - incalza il Nostro -, tutto cio' non toglie che possa esser detto all'individuo nel suo dramma un tu dall'intimo. Questo tu non spunta finche' l'individuo si sente come cosa tra le cose, vivente tra i viventi, morituro tra i morituri" (16). L'individualita' viene qui presa ad oggetto per una messa in crisi, ancora una volta (anche se qui indirettamente), dalla posizione del solipsismo, ma anche di quella dell'idealismo. Quanto all'individualismo in senso stretto, sara' qui necessario ricordare che il tu di cui parla questo come tanti altri luoghi dell'opera capitiniana e' un tu, in definitiva, che "sorge come presenza esplicita al dramma della persona, che percio' non e' tutto" (17). Ed il senso, mi si passi la ripetizione, e' tutto in quel "non e' tutto": la stessa persona, valore primo da porre per una visione che intenzioni eticamente il mondo (del dramma, ma non solo) dell'uomo, proprio la persona, valore dei valori, non e' tutto, non e' bastante a se stessa! Capitini rivoluziona l'orizzonte della concezione della persona ponendo questa come dipendente, all'interno di una condizione sempre segnata dal negativo, e dipendente non tanto dall'essere di un tu, bensi' dalla presenza di quel tu all'esserci della persona stessa. La persona, in ultima analisi, risulta tale solamente in quanto "oggetto di un atto di tu", quindi vera e propria sintesi di se' e dell'atto del tu che presenzia al suo esistere, soffrire, e cosi' via (18); di seguito troviamo l'affermazione che, "quando io definisco e caratterizzo, e parlo di atto, unita', presente, liberta', etc. parlo di cose immanenti a me stesso e interessanti me, possibili da me (altrimenti non potrei nemmeno definirle). Quando io parlo di liberta', tocco cosa che gia' e' in me e in me si muove, e parlandone come di un valore, assumo l'impegno di attuarla" (19). * Quanto, invece, all'idealismo, la critica capitiniana e' diretta contro la presunzione di quello di far passare l'ideale per cio' che e' (al posto di cio' che dovrebbe essere); tale critica si esplicita, nello specifico, nel corso della discussione avuta dal pensatore umbro con Giuseppe Granata, e si esplicita con estrema chiarezza: "Il pericolo e' nel prendere la realta' ideale come essere e non come dover essere" (20). Ribaltando i termini della questione realta'-utopia, Capitini ravvisa il pericolo piu' grave della filosofia non nel suo porre l'ideale come imperativo, ma nel suo scambiare l'ideale per reale, anzi nel suo confondere il piano ideale con quello effettivo. In altri suoi interventi, comunque, Capitini torna ad affrontare il problema delle posizioni dell'idealismo dal punto di vista dei rischi possibili che da tali posizioni discendono. Ma lo fa gia' approfonditamente nel dialogare con lo stesso De Ruggiero, specie quando - sempre a chiare lettere - invita a "far scendere l'idealismo in terra" (21). Non mi pare fuori luogo ricordare qui una vivace affermazione di Ludwig Feuerbach: "Come e' sciocco... venerare, come verita' divina, l'idealismo in cielo, cioe' l'idealismo dell'immaginazione, e respingere invece come un errore umano l'idealismo in terra, cioe' l'idealismo della ragione!" (22). In realta', un po' tutte le considerazioni di Capitini sul rapporto tra idealismo e realta' fanno capo alla riflessione intorno ad un'antitesi fondamentale, quella di forma e contenuto, presentata anche come opposizione di conscio e subconscio e simili. Secondo Capitini, va evitato, in primo luogo, l'accrescimento eccessivo dell'elemento della forma, del conscio (come del presente e dell'unita') rispetto a quello del contenuto, dell'inconscio (come del passato e del molteplice); pena la riduzione a vuota forma, vuoto conscio, ecc. (23). Ma, in considerazione del fatto che un'eccedenza di contenuto, subconscio e simili condurrebbe ad un pessimismo accentuato che pare avere, a giudizio di Capitini, tutte le caratteristiche di un vero e proprio nichilismo, il filosofo perugino si affretta a porre un'altra questione. Quella del "punto di arresto" nel processo innescato dal pensiero di un Granata che si era fatto promotore di una sorta di "pessimismo conoscitivo" lontano dalla morale e dal dovere morale (24). Affinche' "non si vada nel nulla - e' il monito capitiniano in proposito -, io pongo... la persona in atto aperta ai molteplici contenuti" (25). * Si ritorna cosi', direttamente, al concetto di valore, piu' volte da Capitini messo in relazione con quello di persona e di liberta' e legato di per se' ad un atto di fede. "La fede nel valore la raggiungo vivendo concretamente la vita umana, incarnandomi nei miei sentimenti e nei miei pensieri, e allora non posso fare a meno di sperimentare il valore della bellezza nell'intuire, della verita' nel ricercare, della fedelta' nell'amore, della bonta', della giustizia, etc." (26). Ma la fede nel valore implica di necessita' la vicinanza alla liberta', la quale si ha nel "porre delle persone non il loro contenuto, ma la forma del loro agire" (27). Questa e' una convinzione capitiniana che merita sicuramente un'attenzione particolare, perche' va presa per nodo cruciale del discorso sui valori, societa' e visioni del mondo. Vi si puo' ritrovare un Capitini che si pronuncia contro le ingiustizie sociali e le discriminazioni classiste - indirettamente - ed anche contro le visioni totalizzanti in genere - esplicitamente. E infatti egli chiarisce: "Il contenuto la persona, appunto percha' libera, se lo dara' da se': se io dovessi porre i contenuti sarebbe questo un infinito quantitativo e totalitario" (28). E' la liberta' della persona a fondare la scelta dei valori e, mancando la possibilita' personale di questa, verrebbe meno ogni forma di liberta'. La figura del dittatore (o del pensiero totalizzante in generale), quindi, ne esce come chiaramente determinata e caratterizzata dalla volonta' di soppressione non solo della liberta', ma pure dello stesso "darsi i contenuti", diritto inalienabile di ogni individuo. Dalla fede nel valore e dalla vicinanza alla liberta', finalmente, la presenza alle persone, che "e' il di piu', e' l'aggiunta al loro dramma, e' il loro interiorizzarle come viventi, come sofferenti proprio come esseri di finitezza..." (29). Veniva cosi' posta una stretta connessione fra tre elementi fondamentali del pensiero capitiniano, valore liberta' e persona, e definita, tra le righe, la vita nei termini di presenza dell'io al tu. Questa presenza, tra l'altro, si struttura in Capitini sotto forma di piu' "figure", forse ben rappresentabili da quella del Tu-tutti (o tu-Tutti), e comunque riconducibili tutte ad un intento fondamentale, quello di "drammatizzare" nella vita comune, quotidiana, la "realta' di tutti" (30). Ma perche' una filosofia dei valori ha da occuparsi di tutti? Essenzialmente perche' tutti sono valori per me. La spiegazione di cio' e' insita in una nostra contraddizione, in una contraddizione tutta umana di cui soffriamo: "io supero la mia individualita' isolata e limitata, che cadrebbe come oggetto, nel portarmi ad essere Soggetto, cioe' presenza eterna di qua dal mondo; sento anche altre persone individuate dalla parte del soggetto, mediante l'amore che volgo ad esse come singole: nel tu le faccio io, le aggiungo al mio io" (31). Proprio qui e' la contraddizione: la scoperta del fatto esistenziale di non essere soli, per giunta individui finiti e mortali, non e' ancora identificazione del mio io con l'io di tutti; siamo ancora su di un piano "assimilatorio", non c'e' unione integrale di persone, ma, possiamo dire, solo addizione. La contraddizione, svela infine il nostro autore, "si supera affermando la presenza, non solo la mia e di chi amo, di coloro a cui ho volto il tu, ma di tutti" (32). * E' dunque un atto etico a fondare la mia presenza agli altri, tutti gli altri, e questo ci conduce a due considerazioni, innanzitutto: a) il religioso, per Capitini, e' la categoria dell'unione che regola - o, almeno, dovrebbe farlo - il mondo dei rapporti umani (religio come legame); b) in una tale concezione, il valore e' eterno, nel senso di antico quanto l'uomo e sempre presente all'uomo (l'onnipresenza ne fa una costante della presenza dell'umanita' al mondo). Quanto al primo punto, la religione di cui ci parla Capitini, da una parte "e' contrasto col mondo, protesta e tensione al superamento dei limiti di una realta' insufficiente, urto ai dormienti nell'angustia del gusto effimero, e' separazione, e' lotta, e' guerra..." (33). Dall'altra, essa e' cio' che "indica un'unita' piu' profonda, la possibilita' di una vera pace" (34). Se la religione di cui dicono tante pagine del pensatore umbro non corrisponde affatto con quella cattolica, e se egli rifiuta decisamente i canoni fondamentali assunti dalla religione istituzionalizzata in genere, e' vero anche che una simile concezione del religioso non puo' prescindere dalla testimonianza dell'impegno concreto di ciascuno nei confronti di ognuno: l'invito in questione "non e' quello di 'credere per agire', bensi' l'altro del 'provare per persuadersi'" (35). Riguardo poi al valore, c'e' ancora da dire che Capitini ha affrontato la questione del rapporto di questo con l'azione, e lo ha fatto in un suo breve lavoro, sempre degli anni Quaranta (36). In esso Capitini chiarisce, preliminarmente, che valore "e' termine moderno per l'antico di Bene. Valore si puo' definire cio' che e' desiderato (individualmente) e che dovrebbe essere desiderato (universalmente)" (37). Ma se, secondo lui, va in primo luogo distinta l'azione - "modificazione della realta'", per iniziativa del soggetto (38) - dall'atto - "cio' che fa essere" (39) -; e' bene poi, sempre secondo Capitini, riferirsi all'idea di azione per poter parlare dei valori, in quanto sempre strettamente connessa, l'idea di azione, al mondo umano; non cosi', invece, il concetto di atto, legato soprattutto alla tradizione teologica. Viene dichiarata qui, pertanto, la preferenza per il termine (e l'idea) di azione in qualita' di elemento della ricerca eminentemente etica, per poi definire il "valore centrale" come quello che, "secondo liberta' e responsabilita', si impegna nei singoli valori, e operando per essi li immette nella societa', e in tutte le forme, cioe' come valore estetico se fa dell'arte o la studia, valore di pensiero, valore sociale, etico, etc." (40). Dal confronto tra pensiero e azione e dall'incontro tra quest'ultima e il valore risulta che la fede nel valore, di cui dicevamo, trova nel terreno della pratica un riscontro ed un significato che non possono essere di tipo affermativo o di tipo polemico (41): nell'azione s'impone, possiamo dire, sempre e comunque una certa scelta del valore da incarnare e, con questo, una scelta di campo. Per questo, infatti, il valore e' eterno; ed anzi, lo e' proprio perche' coincide con la causa che ci fa accettare di vivere nel tempo insieme costruendolo (42). Sono i valori a rendere "accettabile" la vita e l'uomo stesso e' per il valore e, in quanto tale, e' persona (43). * Date tali premesse, Capitini arrivera' in seguito a concludere che il valore ha in se' anche una funzione emancipatrice, perche' esso "e' creazione, e' liberazione continua dalla schiavitu' ad un'immaginata realta' mostruosa ed esterna" (44). Certo, l'affermazione della fede nel valore, di cui abbiamo letto, reca con se' tutta una serie di problemi: una fede, obietterebbe Emanuele Severino, e' pur sempre "una certezza smentibile, che potrebbe rivelarsi falsa, e il cui contenuto potrebbe non convincere piu' chi ne era convinto" (45); e percio' colui che "ha una fede qualsiasi deve essere cosciente di cio' in cui egli crede, ma... cio' in cui crede... gli si deve dunque presentare nel suo esser qualcosa di smentibile" (46). Capitini, del resto, non si e' tirato indietro la' dove c'era la necessita' di problematizzare il tema: "Orfeo - nota il pensatore perugino -, quando col valore del suo canto e' riuscito a vincere la morte della persona amata, cede al desiderio di vederla e interrompe il canto, si volge e cosi' la perde. Questa dura legge e' la legge del valore. Esso porta con se' una severita' invincibile, che lo costituisce: che il valore e' piu' della realta' che si incontra, con cui si urta e che crediamo ci sazi, mentre non ci sazia appunto perche' la prima realta' che si incontra non e' il valore" (47). E poi, vivere un valore e', in Capitini, costruirne uno dialogando con altri che possono arricchire la mia stessa visione di quel valore; per la fede nel valore, in definitiva, possono essere ricordate le caratteristiche che egli attribuisce a quello che chiama "sacro di apertura". Si tratta dell'assenza di istituzioni o circoli chiusi, negatori della liberta' e promotori di omologazione e settarismo; della presenza di una lingua comune; del rispetto delle opinioni di ciascuno, fosse pure il piu' emarginato e "lontano"; del sentimento della compresenza (tutti ci sono presenti, sempre); e infine di un altro elemento positivo, assai centrale nell'opera capitiniana, cioe' della ricerca comune - condotta alla luce di una ragione coscienziosa oltre che dell'esperienza di chi ci ha preceduto, di "cio' che e' da fare" e di cio' che non lo e' (48). * Note 1. Il problema della persona, appunto, e' il titolo della conferenza: titolo che dobbiamo, pero', all'"Archivio di Filosofia", mancando di un titolo proprio il manoscritto, come segnalano i curatori del bel volume antologico AA. VV., Filosofi nel dissenso. Il "Reale Istituto di Studi Filosofici" a Perugia dal 1941 al 1943, a cura di E. Mirri e L. Conti, intr. di A. Montesperelli, Editoriale Umbra, Foligno (Pg) 1986, p. 60. 2. A. Capitini, Il problema della persona, in AA. VV., Filosofi nel dissenso..., cit., p. 68. 3. Cfr. ibidem. 4. A. Capitini, Discussione, in G. Calogero, Individuo e persona, in AA. VV., Filosofi nel dissenso..., cit., p. 49. 5. Fra i tre aspetti che la vita concreta, quotidiana, presenta, Capitini inserisce quello per cui consideriamo le persone - "almeno alcune" - alla stregua non di mezzi, ma di fini (cfr. ivi, p. 47). 6. Ibid. 7. Cfr. A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 69. In una parola, lo vedremo piu' avanti, persona e' l'uomo per il valore. 8. Ibid. Abbiamo davanti ai nostri occhi, aveva gia' detto l'autore, "l'esperienza diretta della propria finitezza, della possibilita' cioe' di errare e di soffrire: quando questa esperienza e' vissuta realmente, essa e' di un determinato individuo in un concreto dramma" (ivi, p. 62). La sottolineatura credo vada ai termini "determinato individuo" e "concreto dramma", proprio per ribadire come l'accento Capitini lo faccia cadere sulla natura sempre determinata (e umana) del negativo. Il filosofo scrivera', nel '47, sempre riguardo alla negativita' del punto di partenza dell'uomo nel mondo, eppure con tono speranzoso: "Sulla scena sempre un po' fosca del mondo i fatti riluttano tanto piu' quanto piu' uno rifiuta di un'ispirazione del valore" (A. Capitini, Saggio sul soggetto della storia [1947], in Id., Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini, Fondazione Centro Studi Aldo Capitini, Perugia 1998, p. 222). 9. Sempre in riferimento a tempo e liberta' quali termini della comunicazione tra gli individui, leggiamo che "la vicinanza dell'atto alle persone non le supera, le vive nel dramma del tempo e della liberta'; se l'atto vuole volgersi alla persona, a cominciare dalla propria, non puo' che farsi presente cosi'. Vivendo gli elementi drammatici che la persona porta con se', viene eliminata la descrizione e l'impersonalita' da ogni angolo del reale" (A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 70). L'indifferenza e' combattuta cosi' a partire dal fatto-valore del dramma dell'uomo, che viene convissuto grazie alla presenza dell'altro al mio tempo e alla mia liberta', dove - appunto - tempo e' caducita' e liberta' e' possibilita' di "errare". 10. A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi (1966), in Id., Scritti filosofici..., cit., pp. 264-265. Questione di non secondaria importanza sarebbe quella del ricadere, su di noi, del male compiuto dagli altri, per cui cfr. ivi, p. 265. 11. A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 67. 12. Cfr. ibid. 13. Cfr. ibid. 14. Ivi, p. 69. 15. A. Capitini, Discussione, in G. Calogero, Individuo e persona, cit., p. 48. 16. A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 62. 17. Ibid. 18. Cfr. ibid. 19. Ivi, p. 63. 20. A. Capitini, Discussione, in G. Granata, Le contrastanti posizioni teoretiche di Allmayer e Calogero sul problema della persona, in AA. VV., Filosofi nel dissenso, cit., p. 59. 21. A. Capitini, Discussione, in G. De Ruggiero, Azione e valore, in AA. VV., Filosofi nel dissenso, cit., p. 102. Ed anche qui e' chiamata in causa, stavolta in modo esplicito, la filosofia critica kantiana di contro al disinteresse dello Hegel verso una "sintesi" di idealismo e realismo. Si tratta, comunque, di un capovolgimento dell'idealismo che Capitini si augura possa venir attuato dalla filosofia contemporanea. 22. L. Feuerbach, Grundsaetze der Philosophie der Zukunft, Zuerich und Winterthur (1843), trad. it. e cura di C. Cesa, Principi della filosofia dell'avvenire, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 80. 23. Cfr. A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 66. 24. Cfr. G. Granata, Le contrastanti posizioni teoretiche..., cit., p. 58. ´"Solo nella luce della conoscenza - aveva infatti affermato il Granata -, non della morale, cercheranno gli uomini la pace con se stessi" (ibid.). In una prospettiva palesemente lontana da quella capitiniana, egli aveva auspicato che un domani, in un mondo che si interessera' meno di morale, potesse regnare una morale piu' alta di quella in vigore nel mondo contemporaneo. 25. A. Capitini, Il problema della persona, cit., p. 66. 26. Ivi, p. 68. 27. Ibid. 28. Ibid. "A me sembra - nota poi - di piu' alto valore porre la tua persona come libera che determinare il contenuto della tua liberta'" (ibid.). 29. Ibid. 30. Cfr. A. Capitini, La realta' di tutti (scritto nel 1944, ma edito nel '48), in Id., Scritti filosofici..., cit., p. 214. L'espressione e' della prefazione che al suo libro il Nostro scrisse, il 22 novembre '64, e che compare, in nota, nel volume citato, alla fine del testo del '44, La realta' di tutti appunto, cui l'autore dice di essere molto legato. Non a caso, questo libro, quarto di quelli ideologici e piu' propriamente antifascisti - dopo Elementi di un'esperienza religiosa, Vita religiosa e Atti della presenza aperta - "strutturava organicamente la sintesi del valore e della presenza, come 'realta' di tutti' che nessuno esclude e la cui unita' e' la produzione del valore" (ibid.). 31. A. Capitini, Saggio sul soggetto della storia, cit., p. 240. 32. Ibid. 33. A. Capitini, Religione aperta (1955), in Id., Scritti filosofici..., cit., p. 473. 34. Ibid. 35. F. Truini, Aldo Capitini, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1989, p. 152. "La vera regola della saggezza pratica - ricorda John Stuart Mill - non e' quella di rendere egualmente importanti nelle nostre abituali contemplazioni tutti gli aspetti delle cose, ma di dare la massima importanza a quegli aspetti che dipendono dalla nostra condotta o possono esserne modificati. Nelle cose che non dipendono da noi, non e' soltanto per amore di una vita piu' comoda che e' desiderabile l'atteggiamento di chi guarda alle cose ed agli uomini di preferenza dal loro lato gradevole; e' anche allo scopo di poterli amare di piu' e poter lavorare con maggior lena per il loro perfezionamento" (J. S. Mill, Il teism o, in Id., Saggi sulla religione (1885), trad. it. e cura di L. Geymonat, Universale Economica, Milano 1953, p. 151). 36. Si tratta di pochi fogli che documentano una relazione sul tema, con particolare riferimento alla centralita' del valore nell'agire dell'uomo in societa': ad essa e' stato dato il titolo (anche in questo caso altrimenti mancante) de Il rapporto fra azione e valore dai curatori del volume citato Filosofi nel dissenso. 37. A. Capitini, Il rapporto fra azione e valore, in AA. VV., Filosofi nel dissenso, cit., p. 108. 38. Cfr. ibid. 39. Cfr. ibid. 40. Ivi, p. 109. 41. Cfr. ibid. 42. Cfr. ivi, p. 110. 43. Cfr. ibid. 44. A. Capitini, Saggio sul soggetto della storia, cit., p. 222. 45. E. Severino, Se la "buona fede" non basta alla morale. L'etica tra scienza e politica, "Corriere della sera", 6 agosto 2000. 46. Ibid. 47. A. Capitini, Saggio sul soggetto della storia, cit., p 223. 48. A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 476. (Parte prima - segue) GIUSEPPE MOSCATI: PRESENZA ALLA PERSONA NELL'ETICA DI ALDO CAPITINI. CONSIDERAZIONI SU ALCUNI SCRITTI MINORI (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Dal sito www.aldocapitini.it riprendiamo il seguente saggio. La prima parte abbiamo pubblicato ne "La domenica della nonviolenza" n. 71] Per meglio comprendere il rapporto che, in Capitini, lega apertura e compresenza, puo' essere utile rileggere un altro dei testi meno conosciuti del pensatore della nonviolenza, La religione e la pace, che e' del 1955 e che riesce a racchiudere nelle sue poche righe alcune indicazioni molto interessanti. Capitini affronta in questo scritto - in realta' un articolo de "Il Nuovo Corriere" di Firenze del 28 gennaio - proprio il tema della ricerca comune della possibile strada di pace, per imboccare la quale - egli premette - e' necessario innanzitutto abbandonare religioni istituzionalizzate, da una parte, e roccaforti economico-sociali, dall'altra. Il no all'istituzionalizzazione della religione, ovvero alla cristallizzazione del portato sentimentale dell'uomo, e' chiaro e inamovibile: "Se si dice che una vivissima forza morale e religiosa posta nella situazione attuale puo' stabilire un ponte di pace, sta bene; se si dicesse che il ponte e' costituito dal 'ritorno' ad una concezione autoritaria e istituzionale della vita religiosa, questo sarebbe errato, ed equivarrebbe a voler guarire il capitalismo tornando al feudalesimo" (49). Tanto e' vero che non ci si puo' riferire, per un discorso sulla pace, al passato, di per se' fitto di guerre e non certo moralmente "superiore" alla contemporaneita': trarre esperienza dalla storia non equivale, per Capitini, a prediligere sempre e comunque il passato rispetto al presente, ma, semmai, a non accontentarsi del presente cosi' com'e' ed a lavorare costantemente fiduciosi in un possibile miglioramento delle condizioni con le quali abbiamo a che fare. Non ci troviamo, pertanto, dinanzi al percorso obbligato del ciclo che ci e' alle spalle, "come se ci fossimo pentiti di avere scoperto la tolleranza al posto dell'inquisizione, il socialismo al posto della corporazione, la religione aperta al posto della religione che imponeva dogmi e leggende, pena la perdita del cielo e della terra" (50). L'invito dunque e' quello a lavorare insieme per costruire un presente migliore, aspirando all'apertura dell'"unita' amore per tutti" e guardando alla verita' come a qualcosa che non e', e non puo' essere, "per tessera o sacramento" (51). Ma questo, senza peraltro arrivare a mettere contro le diverse fedi o i loro diversi modelli: la diversita' va colta come ricchezza di apertura, appunto, e giammai quale terreno di scontro. Líapertura, allora, e' la forza genuina da opporre a violenza e dominio della potenza, ed in questo caso essa apertura costituisce un obbligo di orientamento per ogni comunita', in primis per quella religiosa; per questo motivo il Nostro non puo' che pronunciarsi incredulo lettore del libro del gesuita Angelo Brucculeri, Moralita' della guerra, edito da "Civilta' Cattolica" e confortato dal placet delle gerarchie ecclesiastiche (del '44 e' la quarta edizione), testo che, in realta', e' quanto di piu' ostile all'idea di apertura. Si tratta di una vera e propria giustificazione dell'opposta idea di "guerra giusta" (52) e, secondo Capitini, dell'espressione piu' diretta delle posizioni piu' retrive del mondo cattolico di quegli anni: vi si trova la legittimazione della guerra offensiva, della violenza agli innocenti se sorretta da buone intenzioni e mirante ad effetti benefici (?), e persino la stessa approvazione di quell'azione che, in generale, abbia due ordini di conseguenze, malefiche e benefiche, ma parta dalla volonta' di produrre solo le seconde... Quanto al singolare tentativo del gesuita di giustificare la guerra (e non solo quella di difesa!) a partire dalle buone intenzioni, si puo' a buon diritto citare il Capitini del '55: "Si tratta di fare in modo che quel 'fine' non sia un qualche cosa di dipinto in fondo, interessando invece esclusivamente il mezzo; ma che quel fine viva gia' nella qualita' e nell'assunzione del mezzo, e sia la' evidentemente riconoscibile" (53). Ma la vera polemica dello scritto si sviluppa in particolare riguardo alla questione della liberta', negata ai cittadini dall'autorita' ecclesiastica, di optare per l'obiezione di coscienza e di rifiutarsi-opporsi alla strategia della guerra. Il filosofo denuncia, qui, una chiesa cattolica avversa all'obiezione di coscienza ed in questo, appunto, conservatrice piu' che mai. E lo fa, ponendosi coraggiosamente come "rivoluzionario nonviolento" (W. Binni) e puntando uno scomodo indice su cio' che di inaccettabile per un libero pensatore - come lui e pochi altri coraggiosi e come tanti altri che rimangono fermi ad una critica sottovoce - mantengono quelle istituzioni che dovrebbero offrire tutt'altro. E' doveroso, allora, ricordare che le conquiste democratiche di oggi sono maturate alla luce dell'instancabile opera di grandi uomini come il Nostro, che l'affermazione dei valori fondamentali della nostra vita democratica deve la sua forza anche agli scritti oggi poco frequentati di pensatori ingiustamente considerati minori. "Poco nota al di fuori dell'Italia - ha infatti notato Giovanni Salio - l'eredita' capitiniana e' stata raccolta prevalentemente dai nuovi movimenti nonviolenti e per la pace italiani" (54). Eppure Capitini "ha anticipato i principali temi oggi in discussione (difesa popolare nonviolenta, educazione alla pace, economia nonviolenta, politica e nonviolenza) e ha gettato le basi sulle quali continuano ad operare i 'persuasi della nonviolenza'" (55). * Uno dei suoi messaggi piu' attuali e che dovremmo sentire a noi piu' vicino credo sia quello che ci invita a guardare agli uomini, non ai regimi o alle forze economico-sociali che si scontrano sullo scenario politico mondiale di tutti i tempi. Convinto che non ci si puo' appiattire sull'esistente - "non si debbono accettare societa' o regimi perche' 'verita' storiche'" (56), e' una delle sentenze finali de La religione e la pace - il Capitini propositivo indica quale puo' essere una possibile via di unione tra gli uomini. L'"apertura a tutti" diventi un abito, uno spirito di disposizione permanente; la speranza in una "realta' liberata" da violenze e ingiustizie si estenda a tutti, non escluda nessuno e rifugga da azioni offensive di ogni genere e da giustificazionismi deleteri (alla Brucculeri); il sentimento religioso, infine, si faccia portatore di un processo de-istituzionalizzatore fino a giungere, senza paure, ad identificare Dio stesso con la pace. Questa strada, se rimarra' aliena dalle piste battute da chi e' "in cattiva fede" e dagli "interessati" in senso lato (57), potra' forse "unire tutti coloro che al mondo politico ed economico attuale, insufficiente e fremente di guerra fredda o calda, portano una libera aggiunta religiosa" (58). Ribadendo cosa e' religione per il filosofo nonviolento, leggiamo un altro passo assai significativo di Religione aperta: "La vita ama e segue i forti, l'atto religioso cerca gli umiliati e gli offesi, gli storpiati, gl'impalliditi. La vita vuole disfarsi dei vecchi perche' essa non sa quello che fa: l'atto religioso e' qui ad una delle prove fondamentali di apertura alla realta' liberata per tutti" (59). La religione, in definitiva, e' quell'atteggiamento di nonviolenza e cura nei riguardi di tutti gli esclusi dalla grande storia, dal processo vitale "maggiore", dalle vittorie di classe, dai giochi di potere, ma innanzitutto dalle regole di base della natura. I condannati dal darwinismo, come li potremmo chiamare, trovano la loro unica tutela nella cura "religiosa" di chi, senza contravvenire alle leggi dell'ordinamento naturale delle cose, aggiunge qualcosa in piu' (che poi e' molto in piu') allo stato dei fatti, alla mera datita' biologica. E, per questo, religione non e', secondo Capitini, cio' che e' rivolto al cielo, bensi' cio' che guarda agli uomini, qui davanti a noi, cio' che produce impegno qui in terra ed in questa vita: la vera salvezza e' nell'unita' di amore contro i mali della vita come la concreta divinita' e' la pace tra gli uomini (60). E' la pace, allora, il fine possibile dell'azione umana, non tanto a partire da un pensiero di tipo escatologico classico, ma in virtu', forse, di un forte atto di presenza ai valori, di testimonianza attiva delle grandi potenzialita' valoriali dell'universo uomo; solo l'esperienza reale del valore rende questo sempre vivo, ma solo grazie alla "apertura che comprende il sacrificio e la speranza, perche' anche la pace costa" (61). Ecco la "decisione attiva" che ci presenta il nostro autore, decisione da "'volontari della nonviolenza', contro l'opportunistica scelta del 'male minore'" (62). * L'opportunismo di cui il Nostro taccia la scelta di chi opta per il male minore e' il peggior nemico di un reale mutamento delle cose. L'anno prima di scrivere La religione e la pace, e cioe' nel 1954, Capitini era intervenuto a proposito dei programmi teorici e dell'operato del "Terzo Campo", una sorta di associazione con aspirazioni di diffusione mondiale e nata da un gruppo originario di pacifisti gandhiani (radicali), operanti negli Stati Uniti e via via collegatisi ad altri gruppi di gandhiani, pacifisti, socialisti... Egli si era espresso a favore della Dichiarazione (del 4 ottobre '53) e dei seminari-conferenza (inizialmente triennali) tenuti da tale gruppo sul tema fondamentale dell'abolizione della guerra, e si era dichiarato fiducioso nel cammino di una simile "terza posizione" rispetto agli opposti totalitarismi americano e comunista; ma pure si era mostrato dubbioso riguardo a tre "punti deboli" del Terzo Campo. Tra questi, quello che in sostanza attiene al programma pratico e che ricade, appunto, sul pericolo della via del male minore; il rischio, per Capitini, viene dalla tentazione di accentuare il punto della "difesa della liberta'" a discapito di altri due nodi centrali, ovvero la promozione di un'economia di tipo socialista "dal basso" e la stessa "rivoluzione nonviolenta": accentuando l'aspetto della difesa della liberta', infatti, c'e' solo da aspettarsi "uno squilibrio e, in fondo, un ritorno a qualche cosa di conservatore, accontentandosi di la' dove c'e' un po' piu' di liberta', scegliendo il 'male minore'" (63). E quella del male minore non e' altro che una "teoria non adatta a chi mira ad un rinnovamento profondo" (64): inseguire quel "po' di piu' di liberta'" puo' voler dire rinunciare al grande progetto di una "socialita' nuova" che non ritorni all'aristocrazia e vada oltre la democrazia (verso l'omnicrazia), desistere dall'agire "dal basso" in opposizione al gerarchico, conservatore e reazionario concetto di "alto" e, in breve, sacrificare la stessa idea di "apertura a tutti" (65). Capitini non si accontenta ed invita apertamente il Terzo Campo a non farlo. Egli ricorda che la novita' del pacifismo contemporaneo e' nell'operare al di fuori delle istituzioni esistenti - la Societa' delle Nazioni e' idea vecchia ed insufficiente -, nella consapevolezza che le Nazioni Unite non costituiscono un efficace baluardo contro la possibilita' di una tragica, terza guerra mondiale: la strada da seguire, allora, non puo' che essere quella di un "federalismo nonviolento dal basso" (66). D'altra parte, gia' l'obiezione di coscienza e' (e deve essere) innanzitutto un atto contrario all'autorita' ed all'istituzione, e semmai richiama il valore delle leggi non scritte che si possono far risalire all'Antigone, cui Capitini fa riferimento (67). L'obiezione e' senz'altro legata al valore-responsabilita' della coscienza e si basa sull'impegno "per un motivo universale... sia esso religioso, morale, sociale" (68), ponendo la nonviolenza anche come mezzo oltre che come fine (69). Il movimento di coscienze e di intellettuali attorno ai temi della pace e della coesistenza fraterna fra i popoli, dell'obiezione di coscienza, dello stesso metodo nonviolento porta il Nostro a sperare nell'avvento di un "nuovo cristianesimo", non piu' pensiero esclusivo e "da rivelazione", bensi' fatto di gente, di persone che si incontrano in campo comune ed equidistante dalle fedi particolari: un cristianesimo finalmente corale (70). Non si tratta, dunque, di istituire una nuova palingenesi morale e spirituale, si tratta semplicemente di ascoltare i bisogni di ognuno, anche la voce piu' flebile al mondo, per rendersi conto che la coscienza dell'uomo rifiuta lo stato di minaccia bellico e con esso tutti i suoi satelliti ideologici, se mi si passa l'espressione. Che sono, all'epoca, il maccartismo e la difesa dei propri interessi economico-sociali (vale a dire di quelli della classe dominante americana), lo stalinismo (71), ma anche la "cultura" fascista, le tattiche opportunistiche della Chiesa di Roma e la stessa filosofia "alle nostre spalle" (72); e che sono, ancora, minacce purtroppo sempre riemergenti: il colonialismo, le discriminazioni sociali, religiose, politiche, razziali, ecc., il protettorato... * Da "indipendente di sinistra", Aldo Capitini si pone come difensore delle liberta' civili, ma difensore consapevole dell'importanza di accompagnare una tale difesa con il metodo gandhiano di nonviolenza e cooperazione, e di coniugare la lotta socio-politica con l'atto dell'aggiunta. La ferma e radicale rinuncia all'uso della violenza e' fondamentale (73), e lo e' al fine di mirare con ottimismo alla formazione di una comunita' aperta che sia raggiungimento di "una societa' dal basso, aperta a tutti e a tutti i valori, di massima verticalita' e massima orizzontalita', di la' da ogni privilegio e ogni discriminazione" (74). E "la nonviolenza non e' una legge, ma un valore, e quindi un creare, che puo' ampliarsi ed essere meglio realizzato e portato avanti" (75): essa non puo', pertanto, essere imposta, essendo figlia di un certo relativismo culturale di fondo. Per il quale non e' da assolutizzare ne' un evento storico, ne' una cosa ne' una persona, come non e' da accettare alcun tipo di rivoluzione violenta, seppure questa dovesse recare conseguenze positive (76). * Tornando alle iniziative e alle idee del Terzo Campo, esse rappresentano, secondo il Capitini della prima meta' degli anni '50, l'orizzonte di una possibile fuoriuscita dalla situazione di emergenza della guerra fredda e, allo stesso tempo, di uno sperato ingresso nell'era della pacificazione mondiale tra le nazioni in chiave antimperialista e nella piena esplicitazione dei valori della democrazia. Anzi, le stesse liberta' individuali possono essere davvero tutelate nell'ottica di una reale estensione, in senso capitiniano, del patrimonio ideologico-culturale della democrazia; ma cio' comporta il lavoro in direzione di una limitazione del sistema capitalistico - specie nei suoi aspetti di teoria indifferente alla persona - e di una chiara opposizione all'assolutismo statale e alla conservazione sociale (77). Sperando nella formazione di un "movimento rivoluzionario internazionale nonviolento" che non si accontenti ne' del sistema sociale del capitalismo ne' di quello dello stalinismo a favore di un'economia socialmente diretta. Capitini credeva raggiungibile uno stato di disarmo delle potenze e delle menti: per fermare la preparazione delle guerre si deve cominciare dal rifiuto di appoggiare qualsiasi politica estera che contempli la violenza tra le sue possibili strategie d'azione. Ogni popolo, ribadisce il filosofo commentando il Convegno di New York del novembre '53, possiede l'inviolabile diritto all'indipendenza dal controllo e dall'ingerenza stranieri, siano essi di tipo militare, politico, economico o culturale (78). Ma alla lotta nonviolenta di gandhiani e pacifisti in genere, secondo lui, e' piu' che preziosa l'alleanza con i socialisti, indipendenti e libertari, ricchi di una storia politico-culturale aliena da strategie di guerre e violenze (79); rimane, poi, il fatto che il Terzo Campo non puo' limitarsi ad essere terza forza tra i due blocchi: esso non puo' solo opporsi, ma deve anche porsi, e porsi quale "meta di un ordine nuovo, libero, umano e democratico" (80). Allora il sogno capitiniano di qualcosa di piu' di uno stato di non belligeranza, e quindi di una nuova concezione della vita, ritrova le sue componenti concrete nell'impegno per la nonviolenza e nelle lotte per l'obiezione di coscienza nonche' per una riforma religiosa sincera, ma anche negli incontri-discussione per l'unione di Occidente e Oriente asiatico, nelle esperienze di C.O.S. e C.O.R., nelle battaglie per il liberalsocialismo... (81). Confrontandosi con tematiche riguardanti la "salute" del mondo intero, Capitini si misurava con la contemporaneita', quella politica, quella economica, quella degli intellettuali, ma sempre anche con quella degli ultimi. * Note 49. A. Capitini, La religione e la pace, "Belfagor", X (1955), fasc. 2, p. 1. E, incalza poco dopo il Nostro, "Kant e Mazzini sono un progresso immenso su S. Tommaso e Innocenzo III" (ibid.). 50. Ibid. 51. Cfr. ivi, p. 2. 52. Quella di Capitini e' una nuova opposizione alla visione del mondo propria di Cicerone e, per esso, della romanita' (si veda S. Weil): oltre a respingere infatti il modo di concepire la religione dell'oratore romano, egli attacca esplicitamente la teoria della "giusta guerra" come dottrina ciceroniana. 53. A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 587. 54. G. Salio, Le tecniche della nonviolenza, "Il Ponte", LIV, n. 10 (ottobre 1998), p. 53. 55. Ibid. 56. A. Capitini, La religione e la pace, cit., p. 2. Ma il non accontentarsi della realta' cosi' come ci si presenta dinanzi e' strettamente connesso, nell'opera capitiniana, al recupero della centralita' dell'immanenza. Proprio dove Capitini tratta della trascendenza, non si lascia sfuggire l'occasione di rivendicare "le ragioni dell'immanenza in quanto accettazione del mondo nel quale l'uomo si trova ad operare, ma pone l'esigenza del trascendimento come 'apertura religiosa dell'uomo...'. Il trascendimento e' un superamento 'di questa realta' insufficiente, il costituirsi di un realizzarsi liberato, l'Unita'-amore di tutti, nessuno distrutto e tutti liberi e cooperanti nella compresenza'" (M. Martini, Nota del curatore, in A. Capitini, Scritti filosofici..., cit., p. 462). Le parole del Capitini sono tratte dal testo del '55 Religione aperta. 57. E con questi i sostenitori di particolarismi, assolutismi, separatismi, gli artefici di discriminazioni, demonizzazioni, ecc. 58. A. Capitini, La religione e la pace, cit., p. 3. 59. A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 494. La religione e' quell'atteggiamento, dinamico e realistico, di chi non riesce ad accontentarsi del negativo del mondo (cfr. ivi, p. 483), ma anche di chi, riconoscendo il grande valore del laicismo, spera di poter aggiungere ad esso ed alle sue conquiste qualcosa d'altro, che e' "in piu'" e non "contro" (cfr. ivi, p. 568). Cio' che la religione assolutamente non e' (non dovrebbe essere) attiene al mondo delle superstizioni, dei dogmi e delle esclusioni da ipotetici paradisi da elite. Si veda, per questo, almeno il passo in cui l'autore riconosce al materialismo storico il merito di aver contrastato e negato la dottrina della salus "personale e isolata" del fedele (cfr. ivi, p. 591). Ma si rilegga anche la lucidissima lettera (vanamente) indirizzata all'arcivescovo di Perugia, Pietro Parente, il 27 ottobre 1958: "La religione non deve essere divisione, ma aggiunta, aggiunta e apertura continua a tutti, quale che sia il loro agire, la loro opinione, la loro fede e i loro sacramenti o non sacramenti" (A. Capitini, Lettera all'Arcivescovo di Perugia, in Id., Battezzati non credenti, Parenti Editore, Firenze 1961, pp. 19-20). 60. Quando Capitini parla di coesistenza, "costruttiva di pace" e "nell'amore" (cfr. A. Capitini, La religione e la pace, cit., p. 3), presupponendo la liberta' dell'atto dell'aggiunta (che, tra l'altro, ha in lui piu' significati e valenze) e chiarendoci appieno il rapporto tra pace ed atteggiamento "religioso", inevitabilmente mi fa pensare a Karl Jaspers: "solo dopo che ci siamo resi conto della nostra colpa, diventiamo consapevoli della solidarieta' e della corresponsabilita' senza di cui non e' possibile la liberta'" (K. Jaspers, Die Schuldfrage, R. Piper & Co., Muenchen 1965; trad. it. di A. Pinotti, La questione della colpa, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pp. 129-130). Ed anzi, la stessa liberta' politica "comincia la' dove, nella maggioranza della popolazione, la persona singola si sente responsabile per la politica della sua comunita'" (ivi, p. 130). 61. A. Capitini, La religione e la pace, cit., p. 3. 62. Ibid. 63. A. Capitini, Problemi del "Terzo Campo", "Il Ponte", X, n. 10 (ottobre 1954), p. 1661. 64. Ibid. 65. Cfr. ibid. In un senso che e' politico e religioso insieme, il filosofo ritrova una simile idea di apertura in quell'"intima realta'" che riesce ad unire il vivo ed il morto, come cio' che e' vicino con cio' che e' lontano: e' questa la "realta' di tutti" (lo stesso valore e' prodotto "da un intimo che e' la presenza eterna di tutti": A. Capitini, La realta' di tutti, in Id., Scritti filosofici..., cit., p. 188). Accanto a questa realta', un sincero e disinteressato spirito gandhiano dovrebbe perseguire la nonmenzogna e la nonviolenza, appunto, ma pure la non accettazione della dot trina della dannazione eterna e la trasformazione delle attuali condizioni dell'uomo e del mondo in condizioni "liberate" dal negativo nei suoi molteplici aspetti (cfr. A. Capitini, Problemi del "Terzo Campo", cit., p. 1661). 66. Cfr. ibid. Un'unione, pero', che, agendo dal di fuori delle strutture istituzionali, non ricalchi i modi operativi di quelle passate ed esistenti (cfr. ibid.). 67. Cfr. ivi, p. 1654. 68. Ibid. 69. Cfr. ibid. Discutendo dei problemi della nonviolenza, tra l'altro, l'autore ribadisce la sua "fede" gandhiana anche in questo luogo "minore": "Autorita', disciplina ferrea, attentato, colpo di mano, procurarsi armi, menzogna e spionaggio, tortura, eliminazione degli avversari attuali e probabili, machiavellismo, ecc., non si superano se non col metodo gandhiano" (ivi, p. 1661). 70. Cfr. ivi, p. 1654. 71. Il quale, notava Capitini, non era certo garanzia di un mondo migliore e piu' libero, riproponendo, in definitiva, totalitarismo e collettivismo di Stato. Se gli Stati Uniti proponevano un modello politico che non favoriva in alcun modo i "movimenti rivoluzionari" o comunque di cambiamento perche' di stampo imperialista, il Comunismo non faceva che irreggimentare le masse in "enormi macchine da guerra" e, nonostante avesse riconosciuto il significato della "grande rivoluzione popolare", finiva per tradirne le aspirazioni ad una "libera societa' dell'avvenire" con il suo metodo sostanzialmente antidemocratico. Per questo, cfr., in particolare, ivi, p. 1655 e 1657. 72. Cfr. ivi, p. 1658. Da qui credo si possa spiegare il recupero capitiniano di tanto laicismo, sulla scorta delle cui esperienze e battaglie ha da muoversi, secondo il Nostro, l'uomo "coscienzioso" di oggi. 73. A tale riguardo, c'e' da dire che Capitini esprime i propri dubbi sulla sopravvivenza del Terzo Campo in quanto avente al suo interno individui favorevoli all'uso della violenza contro gli altri due "campi", l'americano e il sovietico (cfr. ivi, p. 1661). Ma accettare la strategia violenta e ricalcare la scelta bellica vuol dire ritornare "a tutti i modi della vecchia politica che un gandhiano voleva superare, e, in fondo, anche il Terzo Campo" (ibid.); perche' non ci puo' essere affatto indifferente il come si acquista il potere e si rovescia l'esistente (cfr. ivi, p. 1657). D'altra parte, l'indicazione di Capitini e' sempre stata quella del guardarsi dal pericolo dei "vecchissimi strumenti" quali la tortura e il machiavellismo, la violenza e l'oppressione, la menzogna e il dispotismo poliziesco, ecc., al fine di non cadere nell'illusione di poter ottenere un "nuovo" auspicabile giustificando con il fine qualsiasi mezzo (cfr. A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 587). Sulla base dell'interesse attribuito dal Nostro al come si perviene al potere, possiamo definire la scelta dei mezzi come una scelta, in Capitini, di vitale importanza: "si mette un ideale pur nello scegliere i mezzi" (cfr. A. Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa, in Id., Scritti filosofici..., cit., p. 11) e con l'uso di un determinato mezzo diciamo del valore dell'idea che vogliamo difendere e affermare. 74. A. Capitini, Problemi del "Terzo Campo", cit., p. 1658. Ma una societa' che si muova, naturalmente, in "forme nuove di controllo comune a tutti" e si mantenga lontano dalle "vecchie forme di potere" (cfr. ibid.). 75. A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 559. 76. Cfr. ibid. 77. Cfr. A. Capitini, Problemi del "Terzo Campo", cit., pp. 1655-1656. 78. Cfr. ivi, p. 1656. 79. Vengono qui, pero', messi in evidenza i limiti dei partiti socialisti dell'epoca, riassumibili nel fatto che, dopo una prima fase caratterizzata dalla volonta' di rivoluzionare le vecchie strutture sociali, finiscono per "adagiarsi" su queste (cfr. ivi, p. 1659). Anzi, riprendendo A. J. Muste, presidente del Comitato del Terzo Campo, Capitini constata con amarezza che in una societa' come quella occidentale "non si puo' prendere il potere, per non identificarsi con vecchie strutture; ma dobbiamo lavorare perche' la situazione (e la nostra vita) si trasformi" (ibid.). 80. Cfr. ivi, p. 1657. Capitini coglie, inoltre, l'occasione per ricordare come il mondo anglo-americano del Terzo Campo confermi l'attualita' di tante pagine del suo testo del '37, Elementi di un'esperienza religiosa (cfr. ivi, p. 1658). 81. Come "io l'intesi - leggiamo sempre da Problemi del "Terzo Campo" -, non in senso laburistico (pur rispettabile), ma come massimo socialismo economico e massima liberta' giuridico-culturale..." (ivi, p. 1658). (Parte seconda - fine) |