Tratto da Nonviolenza. Femminile Plurale agosto 2009 Donne, Guerra, Memoria di Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone [Nuovamente riproponiamo - e nuovamente ringraziamo di cuore Anna Bravo per avercelo messo a disposizione - il primo capitolo del suo fondamentale libro scritto in collaborazione con Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000. Anna Maria Bruzzone e' nata a Mondovi' e vive a Torino, dove ha insegnato. Storica, saggista, ricercatrice sociale, acuta scrittrice di storia orale e delle donne, impegnata per la pace e la dignita' umana. Opere di Anna Maria Bruzzone: (con Rachele Farina), La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, La Pietra, Milano 1976, seconda edizione riveduta Bollati Boringhieri, Torino 2003; (con Lidia Beccaria Rolfi), Le donne di Ravensbrueck, Einaudi, Torino 1978; Ci chiamavano matti, Einaudi, Torino 1979; (con Anna Bravo), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000.] 1. Vecchio e nuovo nelle guerre Negli ultimi decenni, un numero sempre maggiore di paesi ha aperto le forze armate alle donne; e' forse il simbolo piu' vistoso della crisi che ha investito nel mondo occidentale il sistema di divisione dei ruoli secondo il genere sessuale. Ma quando, nel gennaio '91, una delle trentamila donne soldato impegnate nella guerra del Golfo viene catturata dagli iracheni, stampa e televisioni reagiscono in tutto il mondo con emozione e stupore. Quella prigionia inquieta, evoca sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo luogo quello dello stupro, fantasma perenne dell'immaginario maschile ma anche eventualita' concreta, come la gravidanza che potrebbe derivarne. Nonostante il grande rilievo dato dai media alla presenza femminile nel Golfo, sembra che solo in quel momento si scopra che ha implicazioni intollerabili: un carcere nemico non e' posto per una donna. Eppure cadere prigionieri e' una delle conseguenze piu' ovvie del fare la guerra, ed e' gia' successo a molte - basta pensare alle deportate politiche e alle combattenti dei movimenti di liberazione antinazisti. L'allarme di fronte alla prigionia di una giovane donna assomiglia per certi aspetti alla reazione con cui durante le due guerre mondiali si guarda ai nuovi lavori femminili. E' il fenomeno cui si richiamano prioritariamente le tesi che vedono nelle guerre un potente acceleratore della modernizzazione; e con buoni argomenti. Nella prima, le donne entrano a milioni in settori prima loro preclusi, innanzi tutto nell'industria bellica, a milioni afferrano le opportunita' inedite proposte dall'amministrazione pubblica, dai servizi, dalle stesse forze armate, lavorando sia sul territorio metropolitano con compiti di assistenza e sussistenza, sia al fronte come infermiere, guidatrici di ambulanze, ausiliarie militari. E' una rottura drastica e repentina della divisione sessuale del lavoro che con modalita' diverse riguarda tutti i paesi belligeranti e porta non solo gruppi, ma masse di donne fuori da ruoli e settori classificati come femminili, rendendole per la prima volta visibili con questa ampiezza in un ambito non domestico. Meraviglia e preoccupazione sono forti, specialmente in realta' come quella italiana, dove la tradizione culturale e religiosa vede nel lavoro fuori casa una minaccia alla purezza femminile e all'integrita' del nucleo familiare. Insieme alla mancanza di precedenti, ad acuire l'inquietudine e' la crisi complessiva che si innesca con la prima guerra, il crollo di un intero mondo, dei suoi simboli, delle sue chiavi di interpretazione del reale. Ma appunto per questo e' significativo che nella seconda si abbiano reazioni simili: sulla stampa tornano, come fosse la prima volta, le immagini di postine, tramviere, operaie dell'industria pesante, e tornano gli interrogativi sulle loro capacita', i fantasmi di incidenti dovuti alla loro inadeguatezza ai nuovi impieghi. Lo stereotipo che vuole le donne incompatibili con gli spazi e le mansioni di volta in volta definiti maschili si dimostra tenace. Si reggono su questa continuita' alcuni tratti delle politiche del lavoro che, pur in presenza di differenze radicali su altri piani, si tramandano dalla prima alla seconda guerra: salari spesso migliori di quelli dei settori "femminili", ma quasi sempre lontani da quelli maschili; governi e imprese riluttanti a creare nidi, asili per la prima infanzia e camere di allattamento per le madri, e attenti a presentarli come misure temporanee; carattere a termine di molti nuovi lavori, cui le donne sono chiamate con una esplicita funzione di rimpiazzo dei maschi assenti, in alcuni casi addirittura sostitute ad personam. E' l'aspetto basilare. Rilevarlo non equivale a minimizzare gli aspetti di rottura, ne' a sostenere che finita l'emergenza le cose tornano uguali a se stesse. Al contrario. Proprio questa gestione del lavoro femminile indica che non si tratta solo di attuare strategie economiche, ma di ammortizzare una sfida, di tenere o di rimettere le donne al loro posto. Varia il modo di farlo e variano le reazioni sociali e istituzionali. Durante la prima guerra, nella avanzata Torino la gente comune non trova niente da ridire se un vecchio o un ex cameriere si trasformano in operai, ma infierisce contro le donne accusate di aver preso un posto dove qualcun altro avrebbe potuto imboscarsi (1). Nel dopoguerra alla rapidissima espulsione dalle fabbriche si accompagnano ovunque attacchi scomposti contro la "donna nuova" che a partire da inizio secolo si e' affacciata sulla scena culturale e lavorativa (2). Alla fine della seconda guerra, la smobilitazione e' piu' contenuta e minore l'ostilita' verso figure femminili inedite. Non si tratta solo di un quadro politico diverso, ma della maggiore capacita' di difendersi: nell'estate del '45 le operaie torinesi reagiscono alla prospettiva di un'indennita' di contingenza minore di quella maschile invadendo l'Unione industriali e imponendo la medesima cifra per donne e uomini capifamiglia (3). Che all'epoca il fatto resti isolato non lo rende meno importante come segnale di mutamento, in particolare della crescita di politicizzazione che nell'Italia del '43-'45 tocca anche le donne. Ma il quadro e' molto meno lineare di quello proposto dalle interpretazioni delle guerre come pietre miliari che porterebbero a passi avanti irreversibili verso la modernita'. Per il lavoro di mercato, ne' l'una ne' l'altra delle due guerre mondiali inducono a un riesame concettuale e a un riassetto stabile della divisione sessuale del lavoro; piu' modestamente, provocano uno spostamento provvisorio dei suoi confini, imposto da un cambiamento dei ruoli maschili (dalla sfera produttiva alla sfera militare) anziche' da una ridiscussione di quelli femminili (4). Per quel che riguarda la conquista dei diritti politici, epilogo classico delle guerre e delle lotte di liberazione nazionale, bisogna interrogarsi innanzi tutto sulle sue radici: il voto nel '18 alle donne britanniche, per esempio, e' frutto dell'impegno pluridecennale delle suffragiste non meno che della necessita' di dare riconoscimento alla mobilitazione femminile nel fronte interno, e un discorso simile vale per il voto riconosciuto alle italiane e alle francesi alla fine della seconda guerra mondiale. Bisogna interrogarsi anche sui limiti di quelle conquiste - l'acquisizione di uguali diritti formali puo' non intaccare affatto la marginalita' politica - e sulla loro possibile reversibilita': in Algeria, con il codice elettorale del 1987, non integralista, si e' tentato di dare agli uomini la possibilita' di votare a nome delle donne. Nel nuovo c'e' molto del vecchio. Vale per il lavoro in settori maschili, come per l'ingresso delle donne nei movimenti di liberazione e nelle truppe regolari. Vale per le guerre del passato ma anche per la contemporaneita', sia di guerra sia di pace, nei limiti in cui e' possibile oggi distinguere fra il tempo dell'una e dell'altra. La vicenda degli Stati Uniti insegna. Nell'apertura dell'esercito alle donne ha certo pesato la lotta delle organizzazioni femminili/femministe liberal per la parita' in tutti i campi. Ma sono stati determinanti due obiettivi di politica militare messi a punto negli anni Settanta: controbilanciare la presenza crescente di giovani neri sventando la prospettiva di un esercito troppo di colore; sostenere il volontariato, prevenendo tensioni popolari ricalcate su quelle contro la guerra del Vietnam e diffondendo un'immagine del servizio militare come mestiere, e mestiere non piu' "sporco" di altri (5). Non e' un caso che la divisione sessuale del lavoro si sia prolungata all'interno delle forze armate e al fronte, mentre, non diversamente che nelle guerre mondiali, al mutamento dei ruoli lavorativi extrafamiliari delle donne non ha corrisposto alcuna ristrutturazione stabile dei compiti e delle responsabilita' nello spazio domestico. Durante la guerra del Golfo, la cura dei bambini e della casa delle combattenti e' ricaduta per lo piu' su altre donne, molto di rado su uomini, e in ogni modo come fatto temporaneo ed eccezionale. Nei processi di trasformazione la compresenza di vecchio e nuovo e' la regola. Ma in questo caso si tratta di un carattere fondante: e' nello spazio domestico che risiede il primo terreno di organizzazione della disparita'. Se il nuovo si ferma alla sua soglia, i mutamenti economici e lavorativi rischiano di non intaccare nella sostanza i rapporti di genere; le conquiste politiche di essere vanificate. E' difficile preservare uno spazio politico se non si puo' mettere contemporaneamente in questione quello culturale e simbolico. Eppure la presenza femminile ha innescato conflitti solo in parte previsti e prevedibili. Due esempi fra molti: nell'esercito americano le donne hanno aperto il contenzioso delle differenti opportunita' di carriera e delle molestie sessuali; durante la guerra del Golfo, altre hanno fatto leva sulla carica innovativa legata alla figura delle combattenti per mettere in discussione la propria, come le saudite che hanno manifestato alla guida di automobili contro il divieto di farlo imposto dall'interpretazione nazionale della legge coranica. E' un fatto tanto piu' importante se si pensa che in tutta l'area mediorientale le guerre hanno sfrenatamente rafforzato l'enfasi sulla maternita' come valore e come servizio principale che le donne devono rendere alla nazione; lo stesso avviene nella ex Jugoslavia, dove la maternita' e' diventata strumento e bersaglio delle strategie di pulizia etnica. In questi casi c'e' davvero da augurarsi che i cambiamenti siano instabili; e c'e' da chiedersi se il dibattito sulla irreversibilita' o meno delle trasformazioni non sia troppo vincolato alla storia dell'occidente e alla nostra vecchia concezione del cambiamento come invariabilmente progressivo. Applicarla alle vicende delle donne, dove non e' affatto chiaro cosa rappresenti un miglioramento e cosa un peggioramento, e non lo e' affatto come misurarli (6), sarebbe una leggerezza. A noi pare che raramente una maggiore liberta' femminile sia stata il sottoprodotto di processi che ne' la perseguivano ne' la prevedevano. Questi possono contribuire ad allargare la zona neutra in cui donne e uomini operano in termini relativamente interscambiabili; possono dilatare lo spazio d'azione e i compiti femminili, renderli piu' visibili, metterli in valore - ma come fatto a termine. Difficilmente ridefiniscono i ruoli maschili spostandoli verso la domesticita' e la cura. Se si guarda alla storia del novecento, l'impressione e' che per quanto riguarda i rapporti di genere i risultati piu' importanti siano legati al tempo di pace, o quantomeno a forme di lotta poco militarizzate. L'esempio piu' vicino nel tempo viene dalla prima fase dell'Intifada, in cui l'impegno per l'autonomia sociale e produttiva apre spazi e sollecita iniziative delle donne; mentre il predominio dell'aspetto armato a partire dal '90-'91, con l'avvitamento nella spirale strage-reazione-repressione-vendetta-nuova strage, ha tolto loro visibilita', respiro, forse consapevolezza (7). * 2. Donne e uomini Fare del nuovo una parentesi anziche' un punto di partenza e' stata la strategia generale per contenere gli effetti disordinanti delle guerre. Almeno potenzialmente, le trasformazioni minacciano infatti sia i rapporti di genere sia le costruzioni simboliche del maschile e del femminile, a partire da quella che associa le donne al privato e gli uomini alla sfera pubblica del lavoro e della politica. Nel caso delle donne soldato, si direbbe che le preoccupazioni nascano dal loro distacco dalla casa non meno che dal loro contatto con il nemico. Nira Yuval-Davis (8) ricorda l'intervista radiofonica di un padre inglese che, dovendo occuparsi di due bambini piccoli dopo la partenza della moglie per il Golfo, confessava il suo sgomento per la mole di lavoro e formulava la calda speranza che lei rientrasse al piu' presto e se ne facesse nuovamente carico. Forse una donna capace di combattere e insieme disponibile a tornare alla domesticita' puo' essere la versione postmoderna dell'emancipata, sempre titolare di un doppio lavoro, anche se il secondo e' in questo caso radicalmente diverso da quello produttivo. Altrettanto persistente si e' dimostrato lo stereotipo che identifica la guerra con il maschile e la pace con il femminile. Al punto che, passate le emergenze che l'hanno contraddetto, ha finito spesso per riaffermarsi, sia pure in versione aggiornata: si' alle donne soldato, per esempio, ma protette dalla contiguita' con il nemico e assegnate a settori e funzioni che non creino ansie di tutela, rivalita' e controllo negli uomini. C'e' da stupirsi, ma non troppo. Piu' che a dar conto di quanto donne e uomini fanno, una costruzione simbolica serve a convalidare un assetto di norme e di immagini mentali: in questo caso, un assetto costitutivo della divisione dei ruoli fra donne e uomini e del rapporto individuo/Stato. A dispetto degli enormi cambiamenti nei rapporti fra i generi e nella soggettivita' femminile, da piu' parti si insiste tuttora nell'aspettarsi, quasi nell'esigere dalle donne in quanto tali, particolari competenze e assunzioni di responsabilita' in tema di pace (9). Fra le molte che se ne sono fatte carico, alcune hanno agito appunto in nome di una radicale estraneita' di genere alla guerra; e le donne in nero, cui si deve se in questi anni il dissenso femminile e' stato portato nelle strade e davanti a sedi diplomatiche e militari, hanno scelto deliberatamente i simboli classici del lutto e della testimonianza silenziosa. Ma il rischio, ha notato Lea Melandri, e' "di riprodurre una parte gia' assegnata: quella di una fisicita' senza parole, che si e' voluta immobile nel tempo, a custodire gli eventi dell'esperienza umana che la storia ha escluso da se': la nascita e la morte" (10). Quasi una riedizione del tradizionale pianto materno di fronte alle rovine della guerra. Storicamente, sembra persino ovvio ricordarlo, la separazione non e' invece mai stata netta. Nonostante le molte manifestazioni antibelliciste cui hanno dato vita, nella loro maggioranza le donne hanno lavorato sostenendo la guerra, ne hanno tollerato la violenza per rassegnazione, ma anche per convinzione, spesso sotto le insegne della maternita'. A volte hanno preso le armi; sempre hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli, mariti, fratelli, compagni; sempre hanno riparato ai guasti della guerra, o si sono sforzate di farlo. Non e' solo effetto dell'identificazione con il destino maschile o della propaganda - sebbene nessun governo abbia mostrato di ignorare che per impadronirsi dei corpi e dei cuori dei soldati bisogna prima conquistare, quanto meno neutralizzare, le donne. Il punto e' che, in mezzo a sofferenze e rinunce, dalla guerra nascono nuove forme di autoaffermazione: maternita' e lavoro femminile sono promossi a componente decisiva dello sforzo nazionale, la funzione simbolica della donna viene esaltata come contraltare piu' che mai prezioso al mondo della violenza. Ne nasce anche, almeno per alcune, la possibilita' di guadagni economici, di avventure e vantaggi personali. Di piu': singole donne possono trovarsi, per scelta, necessita' o caso, a trasmettere informazioni e fare sabotaggi, a guidare un'azione armata, salvare e uccidere, torturare e proteggere; e a potenziare con il proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute abitualmente per la interposta persona dell'uomo. A dispetto di recenti speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredita' storica hanno finora immunizzato le donne dall'orgoglio di condividere esperienze fondate su categorie da cui nella normalita' sono state escluse come gloria, onore, virtu' civile; ne' hanno loro impedito di combattere con vecchie e nuove armi (11). Vuol dire allora che scegliere la pace puo' dimostrarsi, anziche' l'adesione irriflessa a uno stereotipo, una sua interpretazione creativa, e questo libro vorrebbe indicarne alcune espressioni. Vuol dire anche chiedersi se le combattenti in armi manifestino o meno diversita' riconoscibili nel modo di vivere la guerra, per esempio una resistenza all'astrazione del pensiero militarista e alla riduzione del nemico a alieno, mostro, non uomo. In mancanza di certezze, si puo' almeno ribadire che le motivazioni e le esperienze formano un mosaico cosi' complicato da non sopportare generalizzazioni. Ma e' cosi' per la stessa esperienza maschile. Assegnarla in toto alla guerra e' altrettanto meccanico che identificare donne e pace. Solo una parte degli uomini fa il soldato, di questi solo una parte combatte; e non tutti sono affetti dal virus militarista. Diversamente, come spiegare il bisogno della leva obbligatoria, come spiegare le renitenze di massa, gli innumerevoli processi - centinaia di migliaia nell'Italia del '15-'18 - per diserzione, rifiuto di obbedienza, abbandono del posto? Come hanno rilevato per primi alcuni studi ormai classici sulla grande guerra, a intaccare il bellicismo e' la stessa fisionomia che puo' assumere la conflittualita' moderna, con il suo tempo interminabile, il suo carattere di meccanismo selvaggio, la dimensione di massa della morte. Nel '14-'18 per molti volontari di classe media scoprire che la guerra e' una copia mostruosa della vita industrializzata mette la parola fine a qualsiasi illusione romantica; a molti operai e contadini la condizione di soldato appariva gia' in partenza un insieme di mansioni pesanti, sporche e mortalmente pericolose comandate da un caposquadra in divisa (12). L'immagine della guerra come trionfo della mascolinita' ne viene incrinata a fondo. Che alla guerra si leghino il piacere della distruzione e lo stupore complice di fronte a manifestazioni di potenza terribili e' un dato di fatto (13). Ma sono molti i comportamenti che lo contraddicono, ispirandosi invece al modello del guerriero compassionevole, capace di contenere la violenza, di non infierire sul nemico, di riconoscere il valore piu' alto non nell'uccidere, ma nel morire per gli altri. Raramente gli altri sono la nazione o i civili. Piu' la guerra mostra il suo volto, piu' la fedelta' del soldato si concentra sui compagni, e precisamente su quelli fra loro che gli sono vicini: si combatte per non lasciarli soli, per aiutarli, se possibile per salvarli. Delle otto medaglie ottenute da un reparto di marines nel 1944, sei riguardavano uomini che si erano buttati a coprire le granate con il proprio corpo per proteggere i compagni dallo scoppio; cosi' tutti e cinque i marines neri decorati di medaglia d'onore in Vietnam (14). E' il culmine di una solidarieta' che puo' venire da modelli precedenti, ma che per lo piu' nasce dall'interno stesso della guerra, dove la sofferenza e il rischio patiti a lungo e fianco a fianco uniscono come forse mai nella vita civile. I tanti episodi di fraternizzazione indicano che questo senso di comunanza ha spesso scavalcato gli schieramenti contrapposti. Non solo: per un singolare paradosso, e' il soldato, non l'uomo di pace, a imparare per primo a farsi carico del suo simile, sostituendo alla "virtu' eroica" del combattimento quella che Todorov definisce virtu' quotidiana della cura (15). Significa misurarsi con l'arte di ascoltare e di parlare, di palesare uno stato d'animo o di nasconderlo se si sa che puo' ferire o abbattere; significa badare al corpo dell'altro, toccarlo, medicarlo, tenerlo vicino. La guerra e' forse l'unica occasione in cui giovani maschi sperimentano fra loro un lavoro di cura simile a quello svolto dalle donne, o riservato a figure professionali come medici, infermieri, psicologi. Non e' un dato incompatibile con il bellicismo, spesso ne e' anzi una componente; ma puo' portare anche alla sua negazione. Ne fa fede l'ambivalenza con cui lo guardano i comandanti militari, ora facendo della solidarieta' di plotone un mito (16), ora temendola come risorsa per comportamenti antagonisti. Che questo aspetto delle relazioni tra uomini sia stato incapsulato nella cifra dell'emergenza e nella categoria di cameratismo non ha niente di strano. La cura e' cosi' rigidamente associata alle donne che per definire il comportamento dell'uomo sollecito non si trovano altro che termini come materno o femminile. E se nel primo caso puo' agire il fascino dell'analogia eroicistica fra il sacrificio del soldato e quello della madre, un'identificazione con il femminile come "piccola" manutenzione della vita parrebbe devirilizzante, e dunque dannosa per la restaurazione dei rapporti di genere. Anche l'esperienza maschile della cura e' stata cosi' archiviata come fatto a termine, mentre il suo potenziale di critica alla polarita' fra immagini del maschile e del femminile restava inesplorato. Ma oggi, primavera duemila, ci sembra che alcuni aspetti del rapporto donne/uomini/guerra siano investiti pesantemente dall'effetto combinato delle trasformazioni tecnologiche e dei nuovi modelli di conflitto via via emersi dopo il crollo del muro di Berlino, in particolare quello sperimentato durante la guerra Nato/Serbia del marzo-giugno 1999. In questo caso, terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse. Sul territorio, uno scontro di tipo tradizionale fra l'Uck, (Esercito di liberazione del Kosovo) e le truppe serbe, che hanno sistematicamente usato la violenza sessuale come strumento della "pulizia etnica": qui le donne sono comparse essenzialmente come vittime, e in qualche caso come militanti della guerriglia nazionalista. Il cielo ha conosciuto invece una guerra tecnologica fatta esclusivamente di incursioni aeree su Serbia e Kosovo e di controffensive serbe: nessuna contiguita' con il nemico, crucialita' delle conoscenze tecniche, peso ridotto del fattore forza fisica. Mentre essere uomo o donna risultava una variabile meno rilevante, l'assenza di scontri ravvicinati e di insediamenti militari Nato in zona di guerra, il dislivello tecnico fra i contendenti e la brevita' del conflitto hanno cancellato una delle condizioni-base su cui si e' storicamente costruita la solidarieta' fra compagni (ma anche la fraternizzazione con il nemico). Sebbene nella discussione sulla guerra del Kosovo di rado sia entrata una prospettiva di genere, e' probabile che ne escano ulteriormente modificati sia il modello maschile del combattente, in molti conflitti sempre piu' simile a un tecnico che a un soldato, sia le funzioni delle donne nelle forze armate. * 3. Con le armi e senza le armi La seconda guerra mondiale e' un laboratorio di sentimenti e comportamenti contrastanti. Forse e' particolarmente vero per l'Italia, dove il rovesciamento delle alleanze e la guerra civile investono tradizioni culturali, convinzioni politiche, fedi religiose, disegnando uno scenario che cambia radicalmente nel tempo e nello spazio. Il discorso riguarda gli uomini, che fra il '43 e il '45 danno vita a due eserciti, uno interamente l'altro in parte volontario, e nello stesso tempo ai piu' grandi fenomeni di sbandamento e diserzione della storia italiana. Ma tocca soprattutto le donne. Nel '40, nessuna organizzazione femminile, cattolica o laica, prende posizione contro la guerra. L'8 settembre '43, quando l'esercito si disfa e decine di migliaia di soldati si sbandano nel paese occupato dai tedeschi, a soccorrerli, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e indirizzandoli sulla via del ritorno a casa, sono soprattutto donne: per lo piu' donne cosiddette "comuni", che agiscono senza il sostegno di ideologie in senso stretto politiche, che non hanno armi per difendersi, e se le avessero non saprebbero ne' probabilmente vorrebbero usarle. Ci si aspetterebbe di vederle assistere in dolorosa rassegnazione alla cattura degli sbandati. Invece li contendono a un esercito strapotente, e non di rado con successo. "Pareva - scrive Luigi Meneghello - che volessero coprirci con le sottane" (17). Nel frattempo altre entrano nell'esercito sui generis della resistenza, e sul fronte opposto nascono le ausiliarie di Salo', un corpo di volontarie militarizzate che non portano le armi. Agli inizi del '45, quando il governo Bonomi pretende di rendere operativo il reclutamento degli uomini dai venti ai trent'anni nel nuovo esercito da affiancare agli alleati, ancora le donne insieme con gli studenti tornano in piazza contro la guerra. E' la rivolta dei "non si parte", che si estende in tutto il centro-sud con scontri a fuoco, morti e feriti. Nella citta' di Ragusa a prendere l'iniziativa e' Maria Occhipinti, ventitre' anni, incinta di cinque mesi, di idee comuniste, che il 5 gennaio si stende davanti a un camion carico di renitenti rastrellati, costringendo i carabinieri a rilasciarli. Scontera' per questo carcere e confino (18). Il senso comune dei contemporanei guarda senza stupore alle azioni di sostegno ai renitenti: cosa puo' fare una donna di piu' naturale che opporsi a chi le vuole portare via il marito, il figlio, e per estensione gli altri uomini? Cosa puo' importarle che l'esercito in questione sia fascista o antifascista? Colpiscono di piu' le partigiane e le ausiliarie, donne che si "snaturano" entrando negli spazi della politica e della guerra, eccezioni che rompono la norma e nello stesso tempo la confermano. Riprodurre nella ricerca gli orientamenti di allora identificando le "donne comuni" con la ripetitivita' e la condizione di vittima, e le partigiane e le ausiliarie con l'innovazione, il protagonismo, l'avventura, sarebbe una fatica inutile, oltre che una doppia ingiustizia. Peggio ancora ragionare in termini di "pacifiche" e "guerriere", "impolitiche" e "politiche". Con il nostro lavoro vorremmo contribuire a renderlo chiaro. Questo libro racconta storie di donne a Torino e nel Piemonte del '40-'45; qualcuna di loro era partigiana; alcune sono state perseguitate e deportate perche' ebree, altre per motivi politici; la maggior parte non ha avuto particolari ruoli politici o militari, e secondo un vecchio stereotipo storiografico rientrerebbe nella "zona grigia" di quelle e quelli che non hanno scelto. Racconta anche di donne rinchiuse in ospedale psichiatrico, di donne condannate per aborto: nonostante lo sfascio istituzionale, l'ordine fascista non dimentica i comportamenti femminili. Di molte abbiamo sollecitato il racconto sotto forma di storia di vita o di tranche autobiografica e qualcuna ci ha offerto anche lettere, documenti personali e scritti di memoria; di altre abbiamo trovato traccia in carte d'archivio. Su alcune esperienze, per esempio la prostituzione, c'e' ancora una tale autocensura che e' stato impossibile ottenere anche una sola narrazione diretta. Cosi' sulle condanne per aborto e per reati comuni. Difficolta' di natura diversa hanno accompagnato la ricerca di donne ex ausiliarie di Salo', e solo in fase di conclusione siamo arrivate a una presa di contatto. Da questo lavoro e' nata una mole di documenti e testimonianze inedite (19) che ci sembra importante per capire quel periodo. Ci chiediamo allora quale rapporto si possa costruire tra le riflessioni in atto su resistenza e guerra e quelle sull'opera delle donne nelle sue molte forme. Un punto di partenza puo' essere il vocabolario della storia, che per indicare l'azione delle partigiane ha fatto ricorso per decenni a due termini, contributo e partecipazione. Sono concetti deboli rispetto alla ricchezza dell'esperienza, ma indicatori forti degli orientamenti storiografici. Contribuire o partecipare non equivalgono a fare e a far parte, anzi marcano il divario fra appartenenza e convergenza momentanea, fra l'azione creativa e il suo contorno o supporto, che restano vaghi. Tanto vaghi che le medesime parole sono state usate estensivamente per abbracciare l'insieme delle iniziative femminili ritenute utili alla resistenza. Forse e' cosi', le donne contribuiscono e partecipano, non fondano. Ma dipende in primo luogo dai confini e dai contenuti che si danno al termine resistenza. Nel campo d'azione sia delle donne "comuni", sia delle partigiane e delle militanti dei Gruppi di difesa della donna, ci sono molti comportamenti tipici della resistenza civile, il concetto messo a punto dallo storico francese Jacques Semelin (20) per indicare una pratica di lotta caratterizzata nei suoi soggetti (appunto i civili), nei suoi mezzi (non le armi, ma strumenti come il coraggio morale, la duttilita', la capacita' di manipolare i rapporti, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico), nei suoi obiettivi. Questi possono essere tanto l'appoggio alla resistenza armata, quanto finalita' autonome che esprimono il rifiuto in prima persona della societa' contro la pretesa nazista di dominio sulla sua vita e sulle sue strutture. E' resistenza civile quando si sciopera o si manifesta per migliori condizioni materiali, per ostacolare lo sfruttamento delle risorse locali da parte degli occupanti, per testimoniare la propria identita' nazionale; quando si agisce per isolare moralmente nazisti e collaborazionisti; quando si tenta di mantenere una certa indipendenza di gruppi sociali e istituzioni (21), di impedire la distruzione di beni essenziali, di contenere la violenza magari offrendosi come intermediari; quando ci si fa carico di qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra. A distinguere queste e altre pratiche dalle strategie di emergenza messe in atto soprattutto dalle donne per far continuare la vita quotidiana, sono l'intenzione e la funzione antinazista, anche se fra le due aree di comportamenti possono esserci affinita' e sovrapposizioni. A volte collettivi, piu' spesso individuali, frutto ora di una tessitura minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le lotte sono per lo piu' non violente, ma non sempre: per l'Italia, ricordiamo gli assalti a magazzini viveri e a treni carichi di derrate o combustibili - l'altra guerra, la definisce Miriam Mafai (22) - e non da ultimo le violenze collettive, spesso amplificate nell'immaginario sociale, contro esponenti e favoreggiatori di Salo'. Anche l'assenza di armi non e' sempre una scelta, in certi casi e' semplicemente impossibile procurarsele. Per molti protagonisti/e valgono ragioni politiche in senso stretto. Per moltissimi/e altri si tratta piuttosto di compassione verso chi e' in pericolo, stanchezza della guerra, spirito di ribellione per il continuo peggioramento delle condizioni materiali; a volte di orgoglio nazionale o dignita' del proprio mestiere. Ma nessuna di queste spinte basterebbe, senza un preventivo disconoscimento della legalita' fascista e senza l'identificazione, per quanto embrionale e sotterranea, di una legittimita' altra. E' forse il principale punto di convergenza fra protagonisti/e cosi' eterogenei che a accomunarli e' quasi solo la condizione di cittadini di uno stesso paese. Ma e' un punto forte: gia' negli scioperi del marzo '43, la scintilla era nata dal rifiuto della legalita' vigente, che pretendeva di imporre l'unione sacra in nome della patria, e si fondava su un'altra idea di legittimita', secondo la quale e' immorale far pagare alle popolazioni prezzi cosi' alti in termini di fame, freddo, fatica, rischio. Nella resistenza civile italiana, la mobilitazione dell'8 settembre spicca come un momento forte, esemplarmente pericoloso (23), con caratteristiche di massa e esteso a tutto il territorio occupato. Alle sue radici, non tanto una pieta' indifferenziata, quanto la disponibilita' femminile nei confronti di un destinatario ben determinato, il giovane maschio vulnerabile che si rivolge in quanto tale alla donna come a una figura forte e protettrice, vale a dire a una madre. Per questo parleremmo qui di maternage di massa (24) come forma di resistenza civile insieme rafforzata e mediata dalla carica simbolica connessa alla figura femminile. Nei venti mesi successivi, si contano piccoli e grandi fallimenti, piccoli e grandi risultati. Si vanificano i piani nazisti, come quando le donne di Carrara resistono agli ordini di sfollamento totale emanati nel luglio '44 per garantire alle truppe tedesche una via di ritirata attraverso territori sgombri (25). Si strappano miglioramenti delle condizioni di vita. Si delegittimano le istituzioni di Salo'. Si salvano persone, come fanno i contadini toscani che ospitano per mesi i prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento italiani dopo l'armistizié (26). Si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela e trasformazione dell'esistente, vite, rapporti, cose, che si contrappone sul piano sia materiale sia simbolico alla terra bruciata perseguita dagli occupanti, e che ha alti livelli di rischio, dalla denuncia alla deportazione e alla pena di morte per chi fornisca documenti falsi ai ricercati, dia aiuto a partigiani o, recita un decreto di Salo' del 9 ottobre 1943, dia rifugio a prigionieri e militari alleati o ne faciliti la fuga. Del resto, nell'ordine senza diritto imposto dall'occupazione, basta un rifiuto occasionale di obbedienza a provocare conseguenze gravi. L'impegno nella resistenza civile puo' contare e costare quanto quello nella resistenza armata. Partiti, Cln e forze partigiane guardano con grande attenzione agli orientamenti popolari. E' cosi' in tutta Europa, dove gia' alla vigilia dell'occupazione cominciano a circolare testi che suggeriscono regole di condotta nei confronti dei tedeschi. In qualche caso sono opera di ignoti o di militanti isolati, in altri vengono da organizzazioni della resistenza. I Dieci Comandamenti di un Danese propongono la linea della "spalla fredda", che sollecita a rifiutarsi di andare a lavorare in Germania, a sabotare macchinari e produzione, a proteggere chiunque sia ricercato, a trattare "i traditori secondo quel che si meritano". In Italia nel dicembre 1943 un opuscolo del partito d'azione chiede ai dipendenti pubblici rimasti in servizio di ostacolare con ogni mezzo il funzionamento dell'amministrazione fascista (27). Al di la della loro ricaduta operativa, materiali come questi contribuiscono a mettere in luce una delle caratteristiche piu' interessanti della resistenza civile: il suo essere intessuta di iniziative ora solitarie ora di gruppo ora di massa, e nutrita sia di elementi di organizzazione politica sia di "spontaneita'", o, piu' precisamente, di forme diverse di concertazione fondate su rapporti di paese, di quartiere, di caseggiato, su reti parentali, di colleganza, di amicizia. In Italia, dove il fascismo ha frantumato l'opposizione e infiltrato le strutture sociali e dove i gia' deboli sentimenti civici sono sbriciolati, la funzione dei reticoli informali e' dominante. Ma nelle rappresentazioni ufficiali e nell'immaginario d'epoca, resistente e' chi ha combattuto in montagna, e nei giorni della liberazione, ha sfilato nelle citta' incarnando anche visivamente l'irrompere del nuovo. In seconda istanza viene l'esponente dei partiti del Cln. Figure inermi e debolmente organizzate come i deportati e gli internati militari restano sullo sfondo, e i criteri per l'attribuzione delle qualifiche partigiane rispecchiano questa gerarchia. In Italia - stabilisce il decreto luogotenenziale del 21 agosto 1945 - e' dichiarato partigiano chi ha portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata "regolarmente inquadrata nelle forze riconosciute e dipendenti dal Comando volontari della liberta'", e ha preso parte a almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio. A chi e' stato in carcere, al confino, in campo di concentramento, la qualifica viene riconosciuta solo se la prigionia ha oltrepassato i tre mesi; almeno sei sono necessari nel caso di servizio nelle strutture logistiche. A chi, dall'esterno delle formazioni, abbia prestato aiuti particolarmente rilevanti viene attribuito in qualche regione il titolo di benemerito. Parametri simili vigono negli altri paesi europei, mentre solo il Belgio introduce per pochissimi casi lo statuto di resistente civile. Con questa consacrazione dell'iniziativa in armi e del legame politico - di partito, di gruppo, di organismo di massa - si sancisce una strettoia che penalizza molte forme di opposizione e moltissimi uomini e donne, comprese le partigiane, che in vari casi non sono state inserite negli organici, e le miltanti dei Gruppi di Difesa della donna. Partigiana deportata a Ravensbrueck e coautrice di un libro di memoria e di analisi sulla prigionia femminile (28), Lidia Beccaria Rolfi ricorda l'atteggiamento con cui i compagni la accolgono al suo ritorno dal lager: "Quando tu tentavi di raccontare la tua avventura, tiravano sempre fuori l'atto eroico: '... pero' noi!'. I tedeschi li avevano ammazzati loro, i fascisti li avevano fatti fuori loro... e noi eravamo prigionieri..." (29). Dove l'ironia prende di mira, insieme all'autocelebrazione, i valori celebrati: orgoglio militare, enfasi sulla morte, primato del combattente in armi (30). E' una critica che va alle radici, e non e' un caso che a farla sia una donna. Nella resistenza e nello Stato che ne nasce, la spinta al rinnovamento tocca aspetti decisivi dell'assetto politico e istituzionale. Ma resta saldo, sul piano simbolico se non a livello giuridico, uno dei fondamenti tradizionali della cittadinanza, che lega la sua pienezza al diritto/dovere di portare le armi, facendo degli inermi per necessita' o per scelta figure minori, cittadini in seconda. E' il modello consegnato alla modernita' dalla rivoluzione francese e dalle sue leve di massa, paradigma maschile e guerriero del rapporto individuo/Stato (31). All'attualizzazione di quel primato contribuisce un intarsio di modelli irriducibile a una posizione politica o di partito: dalla tradizione marxista di appoggio alle guerre di liberazione alla figura del ribelle risorgimentale, dalla memoria del combattente di Spagna al sogno del proletario armato come avanguardia del movimento patriottico. A imporlo e a farlo apparire naturale e' la stessa realta': quella di resistenza e' una guerra. Che la guerra non si combatta solo con le armi e che la politica non sia solo quella organizzata, e' un'idea lontana dall'Italia di allora. Per le donne, si aggiunge il peso delle costruzioni simboliche sul femminile da cui, a dispetto dei suoi sogni di cambiamento, il movimento resistenziale non e' affatto immune. Perdura l'ideologia dell'inconciliabilita' fra donne e politica, in omaggio alla quale azioni simili hanno uno statuto diverso a seconda di chi le compie: di una donna che cucina per i partigiani, cura i feriti o segnala la presenza di tedeschi, si dice che da' un aiuto; dell'addetto alla sussistenza di una formazione, del cuoco, dell'infermiere, dell'informatore, si dice che sono partigiani. Lo stesso maternage dell'8 settembre, che salva fra l'altro la "materia prima" della resistenza armata, viene dato quasi per scontato: le donne avrebbero agito come madri e spose, ed e' come madri e spose che si cerca di guadagnarle alla causa - e che nello stesso tempo se ne diffida per il loro "egoismo" familistico. Sebbene la guerra sottoponga il concetto di politica a tensioni fortissime, pochi fra i protagonisti sembrano capaci di vedere nelle pratiche delle donne qualcosa di diverso dal prolungamento dei ruoli di assistenza e di cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla "naturale" divisione degli spazi. Che a singole esponenti politiche siano assegnati incarichi di rilievo in qualcuno dei territori provvisoriamente liberati dai partigiani, e' un segnale importante, ma coesiste con il fatto che in nessuna di queste zone viene riconosciuto alle donne il diritto di voto per l'elezione degli organismi di autogoverno. Perdura - ed e' stupefacente se si pensa ai pericoli per i civili, alla fame, all'imprevedibilita' del domani - l'assimilazione fra vita quotidiana e routine, con quel suo risvolto simmetrico che identifica emergenza e caduta peccaminosa nel lassismo. Se la Chiesa rimprovera alle donne di sfuggire la domesticita' con il pretesto della guerra e di non saper piu' educare cristianamente le figlie, in una lettera della XL brigata Matteotti (32) si arriva a invitare le compagne a impegnarsi per procurare quanto necessario alla formazione, "abbandonando la vita metodica e casalinga" (sic). Nonostante il coraggio con cui una parte della dirigenza partigiana stigmatizza i pregiudizi maschili, perdura anche l'ideologia dell'incompatibilita' fra donne e armi, mentre in banda la divisione dei compiti si modella sulla gerarchia di genere. Per molte che combattono, poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici. E' cosi' in tutta la resistenza europea, ma nei paesi latini si arriva al grottesco: una donna italiana si vede attribuire la qualifica di soldato semplice proprio dal giovane partigiano che lei stessa aveva messo a capo di una formazione quando esercitava in via provvisoria il comando della piazza di Torino (33). Lo stereotipo forse piu' imbarazzante per la sensibilita' dell'oggi e' l'associazione tra femminilita' e impurita', contaminazione, disordine sessuale, che nella resistenza solo piccole minoranze si propongono di smontare. Mentre i rapporti di genere restano associati al privato, e il privato viene temuto come luogo del cedimento e della perdizione (34), si esaltano madri e sorelle putative, si guarda con diffidenza alla femminilita' di ogni altra, comprese le partigiane. Un caso limite - rimasto isolato, ma inizialmente proposto a modello dal comando generale del Corpo volontari della liberta' - e' quello della piemontese XIX brigata Garibaldi, dove le 38 donne del distaccamento femminile non solo lavorano di cucito al chiuso sotto il controllo di un'anziana, non solo sono diffidate dall'avere rapporti con i civili, ma vengono sottoposte a visita medica settimanale per evitare casi "di malattie piu' o meno contagiose" (35). La partigiana ideale e' la protagonista dell'Agnese va a morire (36), il romanzo modello sulla resistenza femminile: informe, materna, in eta' non sospetta. Le altre, come e' risaputo, inquietano. Giovani, uscite non episodicamente dal privato e mischiate ai maschi nelle formazioni, sfidano troppe costruzioni ideologiche, a partire da quella per cui donne e uomini devono avere spazi separati; e fanno a tal punto da catalizzatore del biasimo antipartigiano che, in ossequio alla mentalita' diffusa, vengono non di rado messe ai margini a emergenza finita. Che il "racconto" della resistenza come nuova epopea nazionale nasca su questa rimozione del femminile non ha mai occupato i pensieri degli storici. Eppure affrontare quel vuoto aiuterebe a capire da dove veniamo, in particolare per quanto riguarda modelli e politiche di genere, su cui forse non esiste un rivelatore potente quanto il tempo della guerra. Basta pensare, per esempio, all'impegno di tanti dirigenti politici e militari italiani nell'evitare un'immagine promiscua della resistenza. Per lo piu' lo si e' letto come un adeguamento all'arretratezza sociale e culturale del paese e un residuo interno all'orizzonte nord-occidentale, come se l'Italia non fosse invece fortemente legata alla tradizione del bacino mediterraneo. Senza dimenticare lo scarto temporale e le differenze che ci separano dai paesi della riva sud, sarebbe utile una riflessione centrata sia sulla pretesa delle religioni a regolamentare direttamente o indirettamente la vita delle donne e la morale privata, sia sul riconoscimento che le forze politiche sono costrette, avvezze, spesso interessate, a dare a quella intromissione. La riluttanza a far sfilare le partigiane nei cortei della liberazione come versione evoluta del velo? Sarebbe un'ironia, se si pensa che nella guerra appena conclusa a garantire la vita sono state donne visibili a livello di massa nella sfera pubblica come mai prima (37); ma darebbe un elemento in piu' per comprendere alcuni aspetti che ci sta a cuore sottolineare, innanzitutto l'enorme legittimazione accordata al materno in quei momenti e la sua poca resa in termini di liberta' e visibilita' femminili a emergenza finita. * 4. Interpretazioni Questi orientamente hanno modellato per decenni i modi e tempi della ricerca, che, come in tutta Europa, ha quasi ignorato la resistenza delle donne e le lotte non armate. Per quanto riguarda la prima, la sua marginalizzazione era evidentissima nel disinteresse per il nodo donne/politica. Un problema lungamente dibattuto a proposito degli scioperi del marzo 1943 - il rapporto fra organizzazione politica e concertazione informale - e' stato del tutto trascurato per le donne. Le stesse divergenze fra partigiane, fra organizzazioni femminili e al loro interno, venivano eluse a favore di un'immagine di quieto unanimismo. Gia' a partire dagli anni settanta alcune studiose denunciavano queste cecita' (38); ma in quella fase, e per vario tempo ancora, nella comunita' delle storiche dominava la diffidenza verso i binomi che accostano le donne agli eventi della cosiddetta grande storia (gli intrecci donne/guerra, donne/resistenza e cosi' via), quasi fossero un cedimento alle sue gerarchie di rilevanze. Anche per questo la storiografia reistenziale poteva continuare indisturbata a "spiegare" l'opera delle donne in termini di rapida politicizzazione (senza pero' verificarla), o di naturale oblativita' femminile e di umanitarismo (seducenti parole tuttofare che andrebbero a loro volta spiegate, perche' quei sentimenti non scattano sempre ne' per chiunque). In termini simili, e con la stessa distrazione, si guardava alle lotte senza armi. Pochissime le ricerche, assolutamente imparagonabili alla mole di studi sulla resistenza armata e sui gruppi politici, e dovute quasi soltanto a esponenti e gruppi della nonviolenza. Lo scarto era ancora maggiore per la sistemazione storico-teorica. Sul nodo guerra di liberazione / guerra civile sono state scritte cose decisive e probabilmente definitive (39), su quello lotta armata / lotta non armata e sul modello di cittadinanza uscito dalla resistenza si e' pensato e detto poco. A tutt'oggi manca del tutto, per esempio, una riflessione su quanto, e se, abbiano influito su quel modello il carattere volontario dell'arruolamento, la struttura meno gerarchica delle formazioni militari, gli obiettivi di pace. Non in modo decisivo, a giudicare dall'indicatore rappresentato dal linguaggio, che continua a fare del caduto la personificazione eroica e virile del morto. Certo la nostra realta' e' imparagonabile alle grandi mobilitazioni popolari e istituzionali di altri paesi, e sovradimensionarla avvalorerebbe il mito nazionale degli "italiani brava gente". Per quanto riguarda l'aiuto agli ebrei, banco di prova della resistenza civile europea, non si hanno da noi prese di posizione ufficiali ne' da parte di personalita' della cultura, ne' di istituzioni religiose e civili o di ordini professionali; dissociazione dalla politica razzista e sostegno concreto si realizzano in gran parte a livello individuale o nelle reti di rapporti di piccolo raggio. Quanto basta, pero', a rifiutare lo stereotipo speculare di un popolo geneticamente afflitto da opportunismo e inclinazioni fascistoidi - la categoria di carattere nazionale e' cosi' volatile che la si puo' tirare in qualsiasi direzione. Comunque si valuti la dimensione quantitativa, non perdono la loro vitalita' i significati che l'area dei comportamenti conflittuali inermi offre, e che ne' la cultura di sinistra ne' quella cattolica hanno colto e accolto. La prima li ha trattati quasi come una componente ambientale che aderisce, sabota o si astiene in una partita giocata tra fascisti e partigiani. La seconda ha puntato a valorizzare sia l'azione disarmata sia la pietas che si sforza di salvaguardare beni e persone, ma identificandole come espressioni della coscienza cristiana e forme proprie della partecipazione cattolica alla resistenza (40); a volte rivendicandole in esclusiva (41). Quasi che atti e sentimenti simili non appartenessero anche all'esperienza del combattente, o non potessero avere altra matrice che quella religiosa (42). Si puo' dire, schematizzando, che questi orientamenti si sono riprodotti per decenni, con le due parti che rivendicavano l'una il primato della lotta armata nella guerra antifascista e nella fondazione democratica, l'altra quello della resistenza senza armi. Restava cosi' irrisolto il problema di una concettualizzazione della lotta civile che non ne facesse un puro complemento di quella armata (43), ne' un fenomeno indistinto buono a legittimare qualsiasi condotta, ne' il blasone dello schieramento cattolico; e nell'opinione pubblica si tramandava la vecchia e settaria divisione dei ruoli che assegna alle sinistre, in particolare ai comunisti, l'organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneita' e la pietas. Il risultato e' che un intero universo di comportamenti rimaneva fuso e confuso nello scenario della guerra civile, mentre il senso comune storiografico recalcitrava di fronte alla prospettiva di riconoscergli il titolo di resistenza. In qualche caso - per esempio i 600.000 militari internati in Germania che rifiutano di arruolarsi nell'esercito di Salo' - si parlava di "resistenza passiva", un termine gia' in uso all'epoca, che per la cultura occidentale ha un segno negativo e che risulta davvero stonato. Come si fa a definire "passivo" un no opposto ai nazisti dall'interno di un campo di prigionia? Ecco perche' il concetto di resistenza civile risulta prezioso. Individuare nella societa' un luogo di antagonismo anziche' uno scenario, nei cittadini e nei gruppi sociali i protagonisti anziche' le comparse, equivale a mettere in questione automatismi fra i piu' radicati: non solo la polarita' fra un maschile associato alla guerra e un femminile associato alla pace, ma anche l'equiparazione fra comportamento attivo e presa delle armi, e l'identificazione altrettanto arbitraria della scelta non violenta con l'equidistanza dagli schieramenti. Se la resistenza civile puo' e spesso deve cercare la mediazione, lo fa a partire da una scelta di campo. Pensiamo dunque che meriti un posto a se' nel dibattito avviato in questi anni su "zona grigia" e attendismo. Un posto contiguo, perche' spesso ne condivide il contesto sociale e una frazione di percorso, e nello stesso tempo lontanissimo, perche' non ne e' la faccia nascosta ma l'esatto contrario. Ci sembra che lo sia anche se si adottano letture nuove e sensibili degli atteggiamenti delle popolazioni, per esempio sottolineando la fatica di sopravvivere e la sofferenza comuni, o rifiutando di assimilare esitazioni e sentimenti di estraneita' a una palude opportunista (44). Sono modi di rendere giustizia a chi, pur non facendosi parte attiva della lotta, puo' aver condiviso momenti di solidarieta' o sforzi per limitare il peso dell'emergenza. Ma perche' la resistenza civile abbia a sua volta giustizia, il primo passo e' proprio distinguerla da questo sfondo. Chi protegge un perseguitato non si mette in posizione di attesa, non delega la salvezza dell'altro alla fine vittoriosa della guerra, un evento che potrebbe arrivare troppo tardi. Sceglie, si espone, e con il suo comportamento esemplifica il rapporto semplice e cruciale che esiste fra il tema della resistenza civile e quello della responsabilita' individuale. Se si indica come sola forma di opposizione qualificata quella in armi, come solo antagonista decisivo il partigiano, si finisce implicitamente per legittimare chi ha scelto di non agire, e puo' giustificarlo invocando principi e infinite ragioni pratiche. E' vero che non tutti possono sparare, lasciare la famiglia e la casa, vivere in clandestinita', reggere grandi fatiche. La lotta armata, soprattutto quella in montagna, chiede corpi giovani e sani. Molto cambia se si afferma l'idea di una resistenza diversa, praticabile in molti piu' luoghi e forme, accessibile a molti piu' soggetti, dalla madre di famiglia al prete al nonviolento, ma anche a chi ha un'eta' anziana, o e' infermo, magari fisicamente inetto. "Fai come me" e' un invito che il resistente civile puo' estendere molto al di la' di quanto possa fare il partigiano in armi. Il problema della colpa diventa cosi' meno tranquillamente eludibile, sia sul piano individuale sia su quello collettivo (45). Qualcosa puo' cambiare anche per quanto riguarda un altro crocevia storico e ideologico. Si discute da tempo in Italia sulle difficolta' della resistenza a porsi come matrice dei sentimenti di appartenenza, sui modi di affrontare le fratture politiche che segnano l'identita' nazionale. Ma esistono divisioni legate al genere sessuale, alle fasce di eta', alle diverse tradizioni, alla geografia, a cominciare da quella che giustappone un nord cuore della lotta armata, virilmente attivo, innovatore, a un sud "femminilmente" passivo, cooptato in un riscatto cui sarebbe rimasto estraneo. Sono problemi non solo italiani, visto che tutti gli stati europei hanno preso a simbolo della rinascita postbellica la figura minoritaria del giovane maschio combattente. Dare valore alla resistenza civile rimette in discussione questo assetto politico e simbolico, fino a prospettare una ridefinizione di quel che si intende per contributo di un gruppo, di una categoria, di un paese, alla lotta antinazista. Oggi lo si valuta ancora in termini di morti in combattimento; sarebbe giusto misurarlo anche sulla quantita' di energie, di beni e soprattutto di vite strappate al III Reich. * 5. Prove di dialogo Quasi cinque anni fa, scrivendo questa introduzione alla vigilia del cinquantennale del 25 aprile, abbozzavamo un bilancio sia interno alla storia delle donne sia esterno. Mentre il censimento delle ricerche indicava che il rapporto donne/guerra/resistenza stava entrando a pieno titolo nell'agenda delle storiche, i programmi culturali e celebrativi mostravano un disegno in chiaroscuro. I limiti di militarismo insiti nei criteri per l'assegnazione delle qualifiche partigiane venivano ormai riconosciuti (46), e nel dibattito almeno due punti sembravano acquisiti: che la resistenza e' un oggetto plurale e differenziato su cui era necessario lavorare ancora a livello di ricerca e di concettualizzazione; che lo studio delle lotte inermi poteva essere una tappa importante di questa nuova fase (47). Anche la presenza femminile era in genere ricordata piu' di frequente; sarebbe ormai stato difficile giustificare un vuoto totale proprio in un momento di massima visibilita' dell'evento. Ma si persisteva a usare un concetto come "solidarieta' femminile", che mette l'accento sull'aiuto offerto ad altri e sull'aspetto umanitario, si esitava di fronte a quello di resistenza civile, che sottolinea invece il rapporto fra comportamenti delle donne e forze occupanti e il suo significato politico e di lotta. Nonostante alcune sollecitazioni a "complicare" anche in Italia i contenuti del termine resistenza (48), la tendenza era ancora a trattare l'esperienza di genere come una enclave all'interno di convegni, libri e mostre, per di piu' limitandosi a vicende e immagini del femminile senza affrontare ne' quelle del maschile ne' i concreti rapporti donne/uomini: un'area su cui c'e' stato, e in parte c'e' ancora, un vasto non detto e un piu' vasto non pensato. Nel frattempo l'espressione "resistenza civile" continuava ad apparire vagamente abusiva, concorrenziale alla lotta armata, comunque inessenziale alla comprensione sia delle tante iniziative di donne (e non solo di donne), sia degli scioperi operai - che, se si accetta la categoria di guerra civile, inaugurano nel marzo '43 la resistenza al fascismo. Oggi la nostra impressione e' che il momento delle rigidezze sia superato. Nella ricerca e nel dibattito la resistenza civile e le lotte delle donne compaiono in modo meno episodico, il termine "resistenza passiva" ha perso credito e la gerarchia armati/inermi non e' piu' intoccabile, mentre voci autorevoli hanno invitato a ridefinire le caratteristiche e i confini della minoranza attiva tenendo conto delle lotte non armate (49). E' un processo lento, non lineare, con varie componenti: la crescita quantitativa e qualitativa degli studi delle donne e dei gruppi della nonviolenza, le posizioni di studiosi/e che anche sull'onda del crollo dei regimi comunisti, invitavano da tempo a considerare nuove categorie e nuovi oggetti di ricerca; l'incrinarsi di alcuni tabu' storiografici (50); infine ma non da ultimo il ruolo di quelle partigiane, deportate "razziali" e politiche, militanti antifasciste, che hanno pubblicamente guardato con simpatia alla resistenza civile e spesso hanno offerto notizie preziose in merito. Fra il concetto di resistenza civile e quello di resistenza tout court, fra i criteri e i referenti sociali che sono alla base dell'uno e dell'altro, si e' inaugurato un dialogo. Lo stesso concetto di resistenza civile si e' aperto al confronto con gli studi delle donne. Inizialmente, quel concetto privilegiava le mobilitazioni istituzionali e le iniziative tendenzialmente di massa e politicamente organizzate, riservando a quelle individuali e di piccoli gruppi lo statuto piu' debole di disubbidienza o dissenso; oggi si ammette che quell'accezione lasciava in ombra molti soggetti a pieno titolo attivi, e si tende a ricomprendere anche le azioni individuali e di microgruppi, l'area a maggiore presenza femminile. Ma il legame fra donne e resistenza civile ci sembra piu' un punto di partenza che di arrivo (51). Quella categoria ha aperto una strada, riunendo sotto un titolo forte iniziative senza nome, azioni ritenute sussidiarie e grandi lotte; ha mostrato che quell'area di comportamenti non e' il braccio disarmato del movimento partigiano ne' un sottoprodotto dei partiti, e neppure un limbo inorganizzato e impolitico. Ha spostato alcune storie importanti dalla memoria privata a quella pubblica. E' moltissimo, e non avrebbe senso pretendere di piu', a maggior ragione perche' il concetto ha una storia in larga parte autonoma dal discorso di genere. Il punto e' che, sgombrato il campo dalla gerarchia armati/inermi, diventano ancora piu' evidenti altri fattori di esclusione. Anche nella resistenza civile ha corso lo stereotipo secondo cui le donne sarebbero incompatibili con la sfera politica, e sono all'opera meccanismi che possono tenerle ai margini. Non e' soltanto antifemminismo. Vincolata agli imperativi della clandestinita', organizzata a maglie larghe, spesso poco omogenea, la resistenza civile nelle sue forme piu' strutturate si regge su una struttura autoritaria che non prevede ne' criteri di avvicendamento della dirigenza, ne' regolari meccanismi di controllo e di confronto. Come fa notare Semelin, non potrebbe essere altrimenti. Ma a essere penalizzate sono in primo luogo le donne, presenti soprattutto nelle realta' di base, per lo piu' ancora prive di uno stile politico autorevole, comunque raramente cooptate nelle leadership. E' un paradosso della resistenza civile antinazista usare pratiche associate al femminile, e uno stile politico e modelli organizzativi tipicamente maschili (52). Persino nelle azioni piu' informali e di base agiscono strutture in cui le donne possono scomparire. Innanzitutto la famiglia, che nell'Europa occupata e' un bersaglio delle politiche di sfruttamento e terrore, e nello stesso tempo un luogo primario di radicamento e concertazione. Non per caso si e' parlato di politicizzazione dei ruoli familiari e di pubblicizzazione della sfera privata (53). Spinte e legittimate ad agire in nome e per tramite della famiglia, le donne restano spesso impigliate nella sua immagine di unita' organica, che tende ad assumere il ruolo di protagonista in loro vece, o a assegnarlo al marito, padre, fratello. Come mostrano anche alcune storie raccontate in questo libro, la figura di moglie e madre puo' sovrastrare quella della resistente, la sua iniziativa tornare ad essere classificata come contributo. E' dunque utile proseguire nella "contrattazione" con la categoria di resistenza civile - il che equivale a mettersi in cerca dei modi in cui si esprime l'azione delle donne, a distinguerla dallo sfondo che potrebbe annettersela e a farla pesare nella concettualizzazione. In questa prospettiva ci limitiamo a sottolineare il legame privilegiato con la mutevole zona di separazione/sovrapposizione tra sfera pubblica e sfera privata che la guerra movimenta fino a scardinarla (54). Le donne - una minoranza di donne - non solo operano per lo piu' in aree a confini incerti come la tutela della comunita', l'assistenza ai piu' vulnerabili, la protezione dei perseguitati, ma quei confini manipolano sistematicamente in ogni loro attivita'. Scrivono e ciclostilano in case che sono nello stesso tempo abitazioni e centri di resistenza. Frequentano mercati e botteghe facendo insieme spesa e propaganda politica. Trasformano gli incontri amichevoli in riunioni, uno sconosciuto in figlio, marito, amante, un libro in contenitore per una rivoltella, il proprio corpo in nascondiglio di documenti; coinvolgono parenti e vicine, tessono relazioni personali negli spazi pubblici, usano gli spazi privati per stabilire contatti politicamente utili. Se il gioco riesce, e' perche' l'associazione tra femminilita' e privato regge ancora sul piano simbolico, anzi viene rafforzata dalla guerra. E perche' di questo stereotipo le donne fanno un uso sapiente, spostando nell'universo delle armi le armi della sfera privata e personale: seduzione, appello agli affetti, fragilita' esibita, impudenza calcolata, a volte la tattica del piccolo dono offerto al nemico in segno di pace, spesso l'esibizione dei simboli del materno. E', dislocata in un ambito del tutto nuovo, la tradizionale pratica di chi si trova in condizioni di dipendenza e per questo deve attrezzarsi a interpretare l'altro. La capacita' di recitare piu' ruoli e di mischiare i confini varrebbe infatti a poco, se non si sposasse all'ingrediente principe delle tattiche di divisione psicologica del nemico, l'attitudine a guardarlo come alterita' composita e decifrabile anziche' come massa indifferenziata; e se non si fondasse sulla consapevolezza che un punto debole degli occupanti sta nel bisogno di sospendere momentaneamente il clima di muro contro muro per godere di un simulacro di rapporti "normali": fame di privato, si potrebbe chiamare. C'e' questo raffinato gioco delle apparenze e delle probabilita' alla base degli episodi infinite volte narrati di donne che superano (o si illudono di superare) i posti di blocco con le loro sporte piene di volantini o munizioni - piene di politica e di guerra - esibendo i simboli della routine domestica o della femminilita' inoffensiva. La "contrattazione" potrebbe partire proprio da qui, dalla ricerca di concetti e intrecci narrativi capaci di far risaltare, insieme alle nuove idee e competenze, le tradizioni di saperi femminili attivate nel faccia a faccia con la guerra. Resta il fatto che per i suoi strumenti e i suoi contenuti la resistenza civile si addice alle donne, e viceversa: tanto che si va facendo strada fra gli storici italiani la tendenza a ritenerla un comportamento e un oggetto storico quasi esclusivo delle donne. Noi stesse corriamo il rischio di creare una nuova enclave e di incidere troppo poco nella discussione in atto. Sarebbe un peccato. Gia' oggi, grazie all'attenzione di alcune studiose si sono scoperti o riscoperti fenomeni e soggetti: per esempio quegli impiegati/e comunali romani che, ancora prima di essere coordinati dal Comitato di liberazione, organizzano un ingegnoso sistema per procurare ai ricercati una "regolare" falsa identita', scegliendo come domicilio edifici bombardati e come luogo di provenienza irraggiungibili Comuni a sud del fronte; o gli sterratori del Verano, che disseppelliscono le bare dei fucilati cui i nazisti vietano di apporre segni di riconoscimento, le aprono, prendono nota delle ferite, dei tratti fisici, dei vestiti, per consentirne l'identificazione in futuro (55). Ma casi come questi sono ancora felici eccezioni. La polarita' armati/inermi risulta davvero incrinata soltanto quando l'inerme coincide con le donne; se si tratta di comparare uomini a uomini, quella gerarchia regge, almeno a giudicare dal quasi vuoto di ricerca e di discussione. Degli attori della resistenza civile ci si occupa di rado e si sa poco, e quel poco a volte emerge per caso, come avviene nel '98 con la storia dell'agente di custodia del carcere milanese di san Vittore Andrea Schivo, deportato e ucciso a Flossenburg per aver "agevolato i detenuti politici ebrei coi loro bambini... soccorrendoli con delle uova, marmellata, frutta, di tutto quanto poteva essere possibile e utile" (56). Forse e' il momento di chiedere le "pari opportunita'" per gli uomini. Certo e' il momento di riattraversare pazientemente guerra e resistenza, misurando la seconda in modo diverso sia sul piano della partecipazione numerica (che senso ha ormai limitarsi a fare il conto dei combattenti in armi?) sia su quello dei significati. Perche' sono molti, all'interno stesso della lotta armata, i comportamenti che sfuggono alla contrapposizione fra chi prende e chi rifiuta le armi. Pensiamo al tema poco studiato delle tregue stipulate fra resistenti e nazisti/fascisti: sotto il termine tregua convivono situazioni di crisi militare e manovre contro formazioni partigiane concorrenti, ma anche il proposito di contenere la distruttivita', di dare un po' di respiro alla popolazione e all'economia locale. Un discorso simile puo' valere per l'elasticita' dell'esercito partigiano: se la resistenza civile e' per eccellenza una realta' a confini mobili, anche dalla resistenza armata si entra e si esce. Dove le formazioni sono stanziali, ci sono partigiani che al momento della vendemmia e della mietitura tornano a casa, per poi rietrare in banda a lavoro finito: rispetto agli eserciti regolari e' un modello opposto, ed e' proprio quel che contribuisce a assimilare il partigiano al combattente popolare. Pensiamo ai tentativi di contrapporre alla bellicosita' come valore il criterio del caso per caso, di resistere alla logica di una guerra "dove non si fanno prigionieri", di pesare minuziosamente il rapporto danni/benefici di una data azione; al dibattito aspro e accorato tra le forze partigiane sui limiti da autoimporsi; ai molti sforzi di mettere fine al piu' presto allo spirito della guerra civile, come fa una giovane partigiana torinese che nei giorni della liberazione viene incaricata di scortare un prigioniero e che gli consente di dileguarsi: "abbiamo vinto, lascio perdere" (57). Forse, sottolineando la vicinanza di pratiche di questo tipo alle strategie di contenimento della distruttivita' (58), si potrebbero chiamare comportamenti di pace in tempo di guerra e a dispetto della guerra. Pensiamo all'importanza di ampliare la discussione sulle spinte complesse che muovono i piccoli e grandi salvatori, dalle ragioni politiche a quella sorta di rivolta morale che si coglie per esempio nelle memorie di Giorgio Perlasca, il commerciante fascista che nella Budapest del '44 si fa passare per console di Spagna e riesce a salvare circa 3.000 ebrei ungheresi fornendo loro documenti e salvacondotti (59). Forse da questo ventaglio di esperienze uscirebbe un racconto di guerra e resistenza piu' vicino alla sensibilita' del presente. E guardando al presente, ricerca e divulgazione potrebbero avere un significato aggiuntivo. La guerra del Kosovo e' nata anche dalla sconfitta della resistenza civile della popolazione kosovara albanese, una sconfitta in cui ha pesato innanzitutto l'ostinazione serba, ma cui non e' stata estranea l'indifferenza della comunita' internazionale di fronte a anni di pratiche nonviolente e poi di fronte alla loro crisi. Rendere onore alle lotte di ieri e' anche un omaggio a quelle di oggi, fatto nella speranza - precaria, ce ne rendiamo conto - di guadagnare qualche consenso in piu' all'idea che la scelta non armata e' spesso la piu' meritevole di riconoscimento e di appoggio. * 6. Un lavoro di memoria Gran parte delle esperienze presenti in questo libro sono state raccontate dalle protagoniste fra il '90 e il '93. Sono gli anni in cui l'illusione di pace generale nata con il crollo del muro di Berlino cede di fronte al moltiplicarsi dei focolai di scontro, all'incrudelirsi delle guerre in atto e allo scoppio di nuove, nel caso della ex Jugoslavia proprio ai confini italiani. Spettacolarizzata nei suoi aspetti sia tecnologici sia arcaici, la guerra entra ogni giorno nelle case, riattivando paure, sensibilita', idiosincrasie - il passo pesante dei tedeschi in stivali di cuoio, la sirena dei bombardamenti -, segnando le forme del ricordo, in particolare in tema di valutazioni e bilanci. Succede cosi' che la tensione fra presente e passato, tipica ricchezza delle fonti di memoria, si caratterizzi per la forza con cui il primo polo agisce sul secondo. La guerra che si e' vissuta puo' appiattirsi su quelle del presente in una sola sequenza di sofferenze inutili, o all'apposto stagliarsi come catastrofe unica e irripetibile. Si desidera raccontare, si teme di raccontare, ci si interroga sulla sua utilita'. Gli appelli alla pace e le dichiarazioni di pacifismo si fanno quasi obbligati, in un intreccio di ritualita' e determinazione: chi ha conosciuto la guerra teme troppo un suo ripetersi per farsi spaventare dalla ripetitivita' del linguaggio. Dimenticare che si tratta di storie di guerra raccontate in tempi di guerre ci priverebbe di un contesto importante per comprenderle. Sono, anche, storie narrate su sollecitazione di altre donne personalmente interessate alla ricerca/costruzione di un'ascendenza femminile, e all'interno di un progetto che punta in modo dichiarato a dar valore all'esperienza delle donne. L'interazione fra chi racconta e chi interroga, grazie alla quale la fonte orale si costruisce come prodotto a due, e' intessuta qui non solo dalle somiglianze e differenze fra donna e donna, ma dal diverso modo in cui quel progetto e' percepito e valutato. Molte narratrici parlavano per la prima volta pubblicamente di se'; pochissime si sono stupite del nostro invito a raccontare. Che la propria esperienza debba entrare a pieno titolo in una storia rinnovata, attenta al quotidiano, alle "piccole cose", al privato, sembra una convinzione diffusa; molto meno diffusa e' la consapevolezza che vari comportamenti attengono invece alla sfera della politica, e che tocca al concetto di resistenza ridefinirsi per abbracciarli. Effetto combinato di conquiste e limiti del femminismo, dei messaggi dei media, di diversi gradi di credibilita' del nostro progetto, della tenuta degli stereotipi anche in chi li subisce? Questo e altro sicuramente; ma in certi larvati scetticismi, in certi impliciti ridimensionamenti, si avverte in primo luogo il peso del senso comune, storiografico e non, creato dalle interpretazioni dominanti su guerra e resistenza. Come si vedra', la memoria ne porta molte tracce. Sebbene alle protagoniste la ricerca sembrasse doverosa non meno che a noi, lo scarto fra aspettative diverse e' rimasto tendenzialmente netto (60). Una sola narratrice usa per descrivere la propria vicenda la bella espressione "piccola resistenza", dove il primo termine allude a una modalita' minore, ma la seconda ne rivendica l'appartenenza alla sfera del politicamente significativo. Ne nasce un racconto di grande presa emotiva e teorica, che tende a fare dell'intervistatrice una "testimone mentale" capace di trasmettere a un pubblico piu' vasto i significati cari alla protagonista. E' il desiderio di molte. Anche per questo ci sembra discutibile l'ipotesi di un rifiuto femminile alla narrazione legato a riserbo, diffidenze, sottovalutazione della propria esperienza, rimozioni - che pure possono avere un peso. Crediamo, piu' semplicemente, che molte donne non abbiano parlato perche' ben poche e pochi si sono preoccupati di sollecitare la loro memoria (61). Nel dopoguerra e per tre decenni ancora, le rare pubblicazioni sono orientate da criteri di rilevanza politico-culturale ancora piu' selettivi di quelli applicati ai testi maschili. Che l'esperienza resti muta sul piano pubblico e' dunque il frutto di una scelta da parte di singoli e di istituzioni, che adottano il silenzio e ne trasferiscono la responsabilita' da se stessi alle protagoniste e dalla storia alla memoria. Un esempio ancora piu' evidente riguarda la deportazione, dove basta una scorsa alle bibliografie per smentire il luogo comune secondo il quale i sopravvissuti non avrebbero scritto o raccontato (62). L'insistenza sull'importanza interpretativa del contesto non implica pero' una concezione della memoria come materiale infinitamente flessibile alle suggestioni dell'interlocutore e dell'oggi. Se il racconto non e' mai pura duplicazione del passato, non e' neppure l'eco del presente. Piuttosto nasce da una contrattazione ininterrotta fra norme e immagini di tempi diversi, si costruisce attraverso una pluralita' di repertori narrativi in cui quello d'epoca fa da caposaldo, denso com'e' di tradizioni familiari e di gruppo, di simboli popolari e religiosi, di modelli culturali, messaggi politici, discorsi di propaganda. E a qualsiasi repertorio fa a sua volta da caposaldo la concretezza dell'esperienza. Tra le risorse conoscitive offerte dalla memoria biografica, la piu' preziosa e' forse la sua capacita' di ricordare che la realta' deborda dai linguaggi disponibili per raccontarla (63), che le idee non nascono per germinazione da altre idee, ma nella loro tensione con il vissuto corporeo, affettivo, mentale. Convinzioni e valutazioni delle narratrici sono molto piu' resistenti di quanto spesso ritiene chi le interroga. Non per questo diventa automaticamente agevole narrare. Il racconto del reduce e' un genere letterario, quello femminile manca ancora di un modello, anche se una guerra come la seconda, per gran parte di retrovia e di occupazione, tende a minare lo stereotipo che assegna al discorso maschile il sangue, a quello femminile il lutto. Di questa polarita' si trova traccia in vari racconti, in particolare quando la memoria femminile sembra incorporare ampi squarci dell'esperienza maschile - e' cosi' per la deportazione, la prigionia militare, la campagna di Russia, dove si ha l'impressione che gli uomini parlino per interposta persona, e le donne facciano da voce narrante. Sottrarsi alla celebrazione del lutto non e' impresa facile, come non lo e' soffrire prima per se stesse che per gli altri. Non nasce pero' solo da qui, ci sembra, la riluttanza cosi' diffusa a presentarsi come pedine schiacciate dall'oppressione, una strategia tanto piu' interessante se si pensa all'enorme successo editoriale e televisivo della Storia di Elsa Morante, con quel prototipo di vittima assoluta che e' il personaggio di Ida Ramundo. Certo gioca in questo rifiuto una tradizione di vita e di racconto, locale e non solo, imperniata sulla donna anello forte della famiglia e della comunita'. Ma nelle narrazioni c'e' materia per un'altra ipotesi, tanto piu' se le si confronta con quelle raccolte in alcune citta' della Germania. Qui l'insistenza sulla condizione di vittima e' un dato generale, interpretato credibilmente come strumento per autoassolversi dalle responsabilita' del nazismo (64): sull'onda di un simbolismo popolare e religioso che separa nettamente vittime e colpevoli, chi e' vittima di un evento non potrebbe esserne considerato responsabile. Risponde allo stesso scopo l'assimilazione della guerra a una catastrofe naturale o a un meccanismo che si autoscatena. Che in gran parte delle nostre interviste siano assenti strategie di questo tipo, suggerisce che in Italia si continua a non fare i conti con la parte avuta dal paese nei crimini della guerra: quanto piu' ci si ritiene innocenti tanto meno si ha bisogno di atteggiarsi a vittime. Non e' solo l'effetto di rigenerazione prodotto dalla resistenza; pesa anche lo stereotipo del fascismo come altro da se', espresso qui nella prontezza con cui ci si dissocia a posteriori senza rimettere in discussione ne' se stessi ne' il proprio rapporto con l'autorita'. Si potrebbero fare, e faremo, altri esempi della ricchezza di questi racconti per lo studio delle soggettivita', del modo in cui da un irrigidimento, un aggiustamento, una deriva della memoria si puo' risalire a una cultura o a un'ideologia - e naturalmente ai sogni, ai desideri, alle frustrazioni personali e collettive. Quante volte la storia che la memoria tramanda e' la vita che poteva essere e non e' stata, la vita che ancora si spera per se' e per gli altri. Non vorremmo pero' che sottolineare questo aspetto mettesse in ombra il contenuto di verita' che il racconto rivendica anche quando si sposta all'altro polo del continuum che separa e unisce elementi "soggettivi" ed elementi "oggettivi"; a condizione di farla interagire con altre fonti, come e' d'uso per qualsiasi documento, la memoria ha pieno diritto di parola sul piano della conoscenza fattuale. Dai nostri racconti esce uno spaccato credibile delle esperienze di guerra in uno spazio che non coincide piu' con la Torino industriale e operaia, ma con un territorio a confini mobili, in cui citta' e campagna si sovrappongono modificandosi a vicenda. Non solo: fra le nostre narratrici, alcune, torinesi di origine, vivono la guerra lontano da casa; altre vengono da citta' diverse o dalla campagna piemontese; altre ancora sono emigrate, per lo piu' dal Veneto, ma qualcuna anche dal Sud. Se il quadro resta ben caratterizzato dal punto di vista locale, offre pero' possibilita' di comparazione gia' al proprio interno (65). In nessun modo abbiamo puntato a un campione rappresentativo, del resto manifestamente inattingibile, ma alla raccolta del maggior numero possibile di esperienze, soprattutto di quelle dimenticate o tenute ai margini. La rappresentativita' che speriamo di aver colto riguarda i molti modi in cui donne e uomini sono stati - o non sono stati - soggetti della propria vita e dei propri pensieri; le molte forme in cui nella stessa persona si e' agita la tensione fra norme e comportamenti, passivita' e liberta', vecchio e nuovo, sia o no quest'ultimo definibile come moderno. La memoria ha aperto molti spiragli sulla guerra che intorno a questi nodi si combatte all'esterno come all'interno delle persone. * Note 1. T. Noce, Gioventu' senza sole, Editori Riuniti, Roma 1950. 2. M. De Giorgio, Le italiane dall'Unita' a oggi. Modelli culturali e comportamenti sociali, Laterza, Roma-Bari 1992, cap. I. 3. La manifestazione e' ricordata in varie narrazioni presenti in B. Guidetti Serra, Compagne, Einaudi, Torino 1977. 4. Vedi F. Thebaud, La femme au temps de la guerre de '14, Stock, Parigi 1986; M. R. Higonnet, J. Jenson, S. Michel, M. Collins Weitz (a cura di), Behind the Lines. Gender and the Two World Wars, Oxford University Press, Londra-New Haven 1987; G. Braybon, P. Summerfield, Out of the Cage: Women's Experiences in two World Wars, Pandora Press, Londra-New York 1987; U. Frevert, Women in German History, Berg, Oxford 1989. Sull'Italia, F. Bettio, The Sexual Divison of Labour. The Italian Case, Oxford University Press, New York 1988. 5. Cfr. N. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War: Women's Citizenship and Modern Warfare, in H. Bresheeth, N. Yuval-Davis (a cura di), The Gulf War and New World Order, Zed, Londra 1991, e C. H. Enloe, Le donne soldato americane e la professionalizzazione della "cittadinanza di prima classe", in E. Addis, V. E. Russo, L. Sebesta, Donne soldato, Ediesse, Roma 1994; nello stesso volume, vedi Sebesta, Donne e legittimita' dell'uso della forza: il caso del servizio militare femminile (sull'arruolamento delle donne come risposta alle tendenze verso la delegittimazione dell'uso della forza), e Addis, Le conseguenze economiche del servizio militare: costi e benefici per le donne soldato. 6. J. W. Scott, Rewriting History, in Higonnet et al., Behind the Lines cit., p. 25. Sul concetto di modernita' resta essenziale T. Mason, Moderno, modernita', modernizzazione: un montaggio, in "Movimento operaio e socialista", 1987, n. 1-2. 7. Vedi E. Donini, Che cosa resta, in "Inchiesta", 1991, n. 91-92. 8. Yuval-Davis, The Gendered Gulf War cit. 9. Lo notava nell'84 Alessandra Bocchetti nel Discorso sulla guerra e sulle donne, Centro culturale Virginia Woolf, Roma, ora in A. Bocchetti, Cosa vuole una donna, La Tartaruga, Milano 1995. 10. L. Melandri, L'illusione dell'innocenza, in "Il manifesto", 26 febbraio 1991. 11. J. B. Elshtain, Donne e guerra, Il Mulino, Bologna 1991, parte II, La virta' civica armata; S. Ruddick, Il pensiero materno, Red, Como 1993, pp. 191 sgg. 12. Vedi E. J. Leed, Terra di nessuno: Esperienza bellica e identita' personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985, cap. III, e l'altrettanto noto P. Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Bologna 1984; per l'Italia A. Gibelli, L'officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 13. Cfr. J. G. Gray, The Warriors: Reflection on Men in Battle, Harper & Row, New York 1970. 14. Elshtain, Donne e guerra cit., p. 278. Vedi l'intero capitolo VI, Uomini: i molti militanti / i pochi pacifici. 15. Per la distinzione tra virtu' "eroiche" e "quotidiane", T. Todorov, Di fronte all'estremo, Garzanti, Milano 1992. 16. Vedi M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra: da Marinetti a Malaparte, Mondadori, Milano 1990. 17. L. Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano 1986, p. 27. 18. M. Occhipinti, Una donna di Ragusa (preceduto da Un altro dopoguerra, di E. Forcella), Feltrinelli, Milano 1976. Come scrive Forcella, della rivolta dei "non si parte" si e' parlato e scritto poco, soprattutto perche' all'epoca era stata unitariamente interpretata come frutto di rigurgiti fascisti e trame separatiste. 19. La ricerca e' stata svolta, oltre che dalle autrici, da Eleonora Bisotti, Anna Gasco (che ha curato anche le videointerviste), Grazia Giaretto, che hanno condotto la maggior parte delle interviste, contribuito al lavoro di archivio, e costantemente partecipato alla riflessione sui materiali. Lettere, scritti autobiografici, documenti personali, materiale fotografico, testi video e le piu' di 8.000 pagine di trascrizione delle interviste sono depositati a Torino presso l'Istituto storico della Resistenza in Piemonte. Nelle note delle citazioni si fa riferimento alle pagine della trascizione. 20. J. Semelin, Senz'armi di fronte a Hitler. La Resistenza Civile in Europa. 1939-1943, Sonda, Torino 1993, che propone la definizione sopra citata, riferendola alla mobilitazione sia delle popolazioni sia delle istituzioni o di entrambe. 21. Fra le lotte di questo tipo, ricordiamo il rifiuto dei magistrati torinesi di prestare giuramento alla repubblica di Salo', e la resistenza di varie categorie di lavoratori e di sportivi contro l'iscrizione coatta a associazioni professionali nazificate in Belgio, Olanda, Danimarca, Norvegia (vedi rispettivamente A. Galante Garrone, Il mite giacobino, Donzelli, Roma 1994, pp. 89-90, e Semelin, Senz'armi cit.). 22. Numerosi esempi in M. Mafai, Pane nero, Mondadori, Milano 1987, pp. 246 sgg., e nel racconto di Nelia Benissone, in A. M. Bruzzone, R. Farina, La Resistenza taciuta, La Pietra, Milano 1976. 23. Sulla durezza della repressione nazista contro le popolazioni, vedi L. Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993. 24. A. Bravo, Simboli del materno, in A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991. 25. Commissione provinciale pari opportunita' di Massa-Carrara, A Piazza delle Erbe!, Provincia di Massa-Carrara, 1994, in particolare G. Bonansea, Immagini e simboli nei racconti di partigiane carraresi. Le voci, il racconto. 26. R. Absalom, La strana alleanza: prigionieri alleati e contadini dopo l'8 settembre 1943, Olschki, Firenze 1991. 27. Citato in C. Pavone, Per una riflessione critica su rivolta e violenza nel Novecento, in "I viaggi di Erodoto", 28, 1996. 28. L. Beccaria Rolfi, A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrueck. Testimonianze di deportate politiche italiane, Einaudi, Torino 1978. 29. Cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), La vita offesa: storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Franco Angeli, Milano 1986, p. 383. 30. Per un'analisi critica dell'uso della violenza nella lotta antifascista e dei problemi politici ed etici connessi, vedi l'ampia trattazione di C. Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralita' nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, cap. VII, La violenza. 31. Della riflessione femminile sul rapporto fra cittadinanza e diritto/dovere di portare le armi, un esempio importante e' Elshtain, Donne e guerra cit., soprattutto la parte I, La virtu' civica armata. Vedi anche G. Bonacchi, A. Groppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Laterza, Roma-Bari 1993, in particolare V. Fiorino, Essere cittadine francesi: una riflessione sui principi dell'89. 32. Citata in Archivio centrale Udi, I gruppi di Difesa della donna 1943-1945, Ed. Archivio centrale Udi, Roma 1995. 33. M. Alloisio, G. Beltrami, Volontarie della liberta', Mazzotta, Milano 1981. 34. Pavone, Una guerra civile cit., pp. 521 sgg. 35. Il documento e' in G. Rochat (a cura di), Atti del Comando generale del CVL, Franco Angeli, Milano 1972, pp. 187-188. Una ferma denuncia contro un trattamento che equipara le partigiane "alle puttane del reggimento" viene dal Comando G. L. (G. De Luna, Storia del Partito d'Azione, Feltrinelli, Milano 1982, p. 297). 36. R. Vigano', L'Agnese va a morire, Einaudi, Torino 1949, moltissime volte ristampato. 37. Visibilita', mobilita' e politicizzazione delle donne sono fra gli elementi sottolineati nell'interpretazione di E. Galli Della Loggia, Una guerra "femminile"?, in Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali cit. 38. Vedi, oltre a Bruzzone-Farina, La Resistenza taciuta cit., Guidetti Serra, Compagne cit, Alloisio-Beltrami, Volontarie della liberta' cit, anche R. Rossanda, Le altre, Bompiani, Milano 1979. 39. Pensiamo naturalmente a Una guerra civile di Pavone, dove all'opposizione non armata e' pero' dedicato il solo paragrafo Lotta nella societa' e lotta per la sopravvivenza. 40. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Il Mulino, Bologna 1991, p. 109, n. 48. 41. Vedi soprattutto la posizione di Rocco Buttiglione, in "Il Tempo", 19 settembre 1992, denunciata da Norberto Bobbio, in N. Bobbio, G. E. Rusconi, Lettere sull'azionismo, in "Il Mulino", a. XLI, 1992, n. 344. Sulla spinta all'amore e alla tutela dell'esistente nel combattente in armi vedi Elshtain, Donne e guerra cit., in particolare il VI capitolo. 42. Per esempio la tradizione pacifista anarchica, o il millenarismo contadino di cui parla Roger Absalom a proposito dei mezzadri toscani, vedi Id., La strana alleanza cit. 43. Il rischio non e' solo italiano, come mostra la scelta di Semelin, nel citato Senz'armi di fronte a Hitler, di dedicare l'analisi ad anni in cui la resistenza armata era in Europa ancora inesistente o poco sviluppata. 44. Vedi rispettivamente P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, pp. 47-54, e G. E.Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna, 1995, cap.I. 45. Intendiamo per colpa collettiva, sulla scorta di Jean Amery, (Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 125) "la somma, divenuta oggettivamente manifesta, di comportamenti colpevoli individuali", per cui la colpa di ogni singolo nelle sue azioni e omissioni "diviene la colpa complessiva di un popolo". 46. C. Dellavalle, Partigianato piemontese e societa' civile, "Il Ponte", 1, 1995, cit. 47. Cosi' per esempio al seminario Resistance, Widerstand, Resistenza, Goethe Institut, Torino 6-8 aprile 1995. 48. Cfr. la relazione di L. Paggi al convegno "In Memory: Revisiting Nazi Atrocities in Post-Cold War Europe", Arezzo, giugno 1994, che sottolinea la difficolta' "della narrativa fondata sui valori dell'antifascismo e della resistenza a ricomprendere la memoria delle popolazioni coinvolte". 49. Pavone, Per una riflessione critica su rivolta e violenza, cit. 50. Tra i primi esempi vedi G. Crainz, Il conflitto e la memoria, e Id, Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, ambedue sulle uccisioni di fascisti nell'immediato dopoguerra, in "Meridiana" nn. 13, 1992 e 22-23, 1995. Vedi anche P. Pezzino, Anatomia di un massacro, Il Mulino , Bologna 1997, e G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997, entrambi sulla memoria conflittuale verso la resistenza di comunita' vittime di rappreseglie naziste. 51. Per una diversa considerazione del rapporto donne/resistenza civile, cfr. M. de Keizer, La "Resistenza civile", in "Italia contemporanea", 200, 1995. 52. A. Bravo, La resistenza civile, in L. Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Manifestolibri, Roma 1966. 53. P.Schwartz, Redefining Resistance:Women's Activism in Wartime France, in Higonnet et al. (eds), Behind the Lines cit; A. Rossi-Doria, Le donne sulla scena politica, in Storia dell'Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1994: M. Nash, Women's Experience, Civil Resistance and Everyday Life in War and Revolution: Spain 1936-1939, relazione presentata al convegno "Donne, guerra, resistenza nell'Europa occupata" (Milano 14-15 gennaio 1995). 54. Cfr. anche le relazioni di M. G. Camilletti, L. Capobianco, M. Fraser, L. Mariani, al convegno citato sopra. 55. S. Lunadei (a cura di), Donne a Roma 1943-1944, Cooperativa Libera Stampa, Roma 1996. 56. S. Laudi, Un giusto, in "Ha Keillah", 3, 1998. 57. La protagonista e' Marisa Sacco, che narra l'episodio in "Guerra alla guerra", video a cura di Anna Gasco, Torino 1995. 58. Tzvetan Todorov, Une tragedie francaise, Seuil, Parigi 1994. 59. E. Deaglio, La banalita' del bene, Feltrinelli, Milano 1991. 60. Sulla necessita' di lavorare con la memoria anziche' sulla memoria, vedi L. Lanzardo, Torino, guerra, donne. Un esempio di ricerca qualitativa: le fonti orali, in "Qualestoria", 1990, n. 1. 61. Vedi l'analisi di R. Prezzo, La seconda guerra mondiale sul filo della memoria. Memoria e soggettivita' rammemorante, in "L'impegno", 1993, n. 1. 62. Cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia. 1944-1993, Franco Angeli, Milano 1994. 63. Sul rapporto critica femminista / decostruzionismo, vedi E. Alessandrone Perona, Sincronie e diacronie nelle scritture femminili sulla seconda guerra mondiale, in "Passato e presente", 1993, n. 30, pp. 118 sg. 64. A. M. Troeger, German Women's Memories of World War II, in Higonnet et al., Behind the Lines cit. 65. Delle 125 donne intervistate, sono nate in Piemonte 95 (di cui 60 a Torino e nella cintura): 87 di loro sono di famiglia piemontese. Fra le altre, sono nate al Sud 11, nel centro Italia 4, 15 nel Nord Italia. Nel 1940, avevano meno di 19 anni 51 di loro; 43 erano fra 19 e 29 anni; 25 erano fra 29 e 39 anni; 6 fra 39 e 50. Delle loro famiglie (considerando la condizione del capofamiglia) 39 erano di classe operaia, 20 contadine, 24 di piccola borghesia impiegatizia, 22 di borghesia delle professioni, 5 artigiane, 10 commercianti. 5 erano famiglie di ufficiali e sottufficiali. Le donne di religione cattolica sono 115, di cui alcune non praticanti; 8 di religione ebraica; due valdesi. La loro scolarita' va dalla licenza elementare (50), alla licenza di scuole tecnico-professionali e di avviamento (38), alla licenza liceale o al diploma (14), alla laurea (23). Solo 13 sono definibili come casalinghe; 20 erano ancora studentesse o scolare; 23 erano operaie, 21 impiegate, 2 contadine, 6 commesse, 7 insegnanti, 5 sarte, 2 modiste, 6 occupate in professioni artistiche, 2 commercianti, 2 ostetriche, 1 medico, 1 infermiera, 1 avvocata, 3 domestiche, 1 traduttrice. Le rimanenti svolgevano attivita' varie. Le donne ricoverate in ospedale psichiatrico erano 4, 1 e' suora, 1 e' stata crocerossina per tutta la durata della guerra. All'epoca 52 erano sposate, 38 con figli; 73 erano nubili, 2 con figli; 69 hanno vissuto lo sfollamento, 35 hanno avuto prigionieri, feriti, deportati, dispersi, morti fra i parenti stretti, 2 sono state gravemente ferite nei bombardamenti. Le partigiane riconosciute sono 4; 27 hanno fatto attivita' politica, molto spesso senza legami con partiti e organizzazioni. 26 donne si sono autocandidate all'intervista rispondendo a un "Invito a raccontare" diffuso in un convegno; 26 sono state raggiunte attraverso istituzioni e circoli; 73 attraverso reti di rapporti personali e canali politici. Alcune hanno scelto di comparire attraverso uno pseudonimo. Da altre ricerche da noi condotte abbiamo tratto i racconti delle deportate sia "razziali" sia politiche e di altre partigiane. A tutte le donne che ci hanno narrato la loro esperienza, sia quelle che compaiono in questo libro sia quelle che non abbiamo potuto citare, siamo profondamente grate. |
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