Pubblicato in appendice a Dietrich Bonhoeffer, Etica.  Bompiani, Milano 1969. I edizione Studi Bompiani, 1992. (308-314).

Che Cosa Significa Dire La Verità?
di Dietrich Bonhoeffer

Dal momento in cui impariamo a parlare, ci sì insegna che le nostre parole devono essere veritiere. Che cosa vuoi dire? Che cosa significa: "dire la verità"? Che cosa ci viene ri­chiesto?

Evidentemente i genitori sono i primi che, con l'esigere la veridicità, regolano il nostro rapporto con loro; quindi in un primo tempo tale esigenza, nel senso inteso dai genitori, si ri­ferisce e si limita alla ristretta cerchia della famiglia. Bisogna osservare inoltre che il rapporto che si esprime in questa esi­genza non è senz'altro reversibile. La veracità del bambino ver­so i genitori è essenzialmente diversa da quella dei genitori verso dì lui. Mentre la vita del piccolo bambino è interamen­te aperta dinanzi ai genitori, e la sua parola deve svelare tutto ciò che è nascosto e segreto, non è pensabile il caso inverso. Riguardo alla veracità, l'esigenza dei genitori verso il bambino è diversa da quella del bambino verso di loro.

Se ne deduce subito che "dire la verità" ha un significato diverso secondo le rispettive posizioni. Bisogna tener conto dei rapporti che esistono in ogni singolo caso. Bisogna domandarsi se e in che modo un uomo ha diritto di esigere da un altro un discorso veritiero. Come il linguaggio usato tra genitori e figli è per natura diverso da quello tra marito e moglie, tra due amici, tra maestro e scolaro, tra autorità e suddito o tra ne­mici, cosi pure la verità contenuta in quelle parole è di volta in volta diversa.

Si obietterà subito che siamo debitori di un parlare veritie­ro a Dio e non a questo o quell'individuo, ed è vero, sempre che non si trascuri il fatto che Dio non è un principio universa­le ma è il Dio vivente che mi fa vivere una vera vita e vuole che io lo serva in essa. Chi dice Dio non può semplicemente cancellare il mondo reale in cui vive; altrimenti non parlerebbe" dinanzi al Dio che in Gesù Cristo è entrato in questo mondo, bensì dinanzi a un qualche idolo metafisico. La questione è appunto questa: come posso io mettere in pratica nella mia vi­ta concreta, con tutti i suoi diversi rapporti, quel parlare veri­tiero di cui sono debitore a Dio. La veracità delle nostre paro-- le, che ci è richiesta da Dio, deve assumere una forma con­creta nel mondo. Il nostro parlare dev’essere veritiero non in linea di principio, ma in pratica. Una veracità astratta non è veritiera dinanzi a Dio.

"Dire la verità" non è dunque soltanto una questione di at­teggiamento personale, ma anche di esatta valutazione e di se­ria riflessione sulla situazione reale. Quanto più varie sono le condizioni di vita di un uomo, tanto maggiore sarà per lui la responsabilità e la difficoltà di "dire la verità". Il bambino che ha un solo rapporto nella vita, quello con i genitori, non ha ancora nulla da considerare e da valutare. Ma la successiva cerchia di persone in cui la vita lo pone, la scuola, gli crea le prime difficoltà. È dunque estremamente importante dal punto di vista pedagogico che i genitori facciano comprendere al bambino (non è il caso di specificare qui in che modo) la dif­ferenza che c'è tra queste diverse cerchie e quindi tra le sue responsabilità.

Bisogna dunque imparare a dire la verità. Queste parole suoneranno scandalose per chi pensa che sia sufficiente un at­teggiamento morale irreprensibile e che il resto è cosa da nulla. In pratica però l'etica non si può disgiungere dalla realtà, perciò una sempre migliore conoscenza della realtà è parte integrante dell'azione etica. Ma nel caso in esame l'azione consiste in pa­role. Bisogna esprimere in parole il reale. In ciò consiste appunto il parlare veritiero. Ma allora si pone il problema inelu­dibile del "come" parlare. Sì tratta di trovare caso per caso la "parola giusta"; è questione di uno sforzo lungo, serio e sem­pre crescente basato sull'esperienza e sulla conoscenza della realtà. Per dire come una cosa è realmente, ossia per parlare in modo veritiero, bisogna che gli sguardi e i pensieri indaghino in che modo la realtà è in Dio, per mezzo di Dio e per Dio.

Limitare il problema del parlare veridico a singole situa­zioni di conflitto sarebbe un atteggiamento superficiale. Ogni parola che pronuncio dev'essere vera; a parte la veridicità del suo contenuto, il rapporto che essa esprime tra me e l'altra persona è vero o falso. Posso adulare, vantarmi, essere ipocrita, senza dire una vera bugia, eppure la mia parola è falsa perché io distruggo e dissolvo la realtà del rapporto tra marito e mo­glie, superiore e subordinato, ecc. La parola singola fa sempre parte di una realtà globale che vuole esprimersi attraverso la parola. Secondo la persona con cui converso o da cui sono in­terrogato o della quale parlo, bisogna che il mio discorso sia sempre diverso per essere veritiero. La parola veridica non è .una grandezza costante in sé: è vivente come la vita stessa. [Quando essa si distacca dalla vita e dal rapporto concreto con 'il prossimo, quando qualcuno "dice la verità" senza tener conto della persona a cui parla, c'è l'apparenza ma non la sostanza della verità.

Colui che pretende di "dire la verità" dappertutto, in ogni momento e a chiunque, è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità. Circondandosi dell'aureola di fa­natico della verità che non può aver riguardi per le debo­lezze umane, costui distrugge la verità vivente tra gli uomini. Egli offende il pudore, profana il mistero, viola la fiducia, tra­disce la comunità in cui vive, e sorride con arroganza sulle ro­vine che ha causato e sulla debolezza umana che "non sopporta la verità". Egli dice che la verità è distruttiva ed esige delle vittime, e si sente come un dio al di sopra delle deboli crea­ture, ma non sa di essere al servizio di Satana.

Esiste una verità satanica. La sua natura consiste essenzial­mente nel negare tutto ciò che è reale, assumendo le apparenze della verità. Vive di odio contro la realtà, contro il mondo che Dio ha creato e amato. Si da l'apparenza di eseguire un giudi­zio di Dio sulla realtà caduta nel peccato. Ma la verità di Dio giudica il creato per amore, invece la verità di Satana lo fa per invidia e per odio. La verità di Dio si è incarnata nel mondo e vive nella realtà, mentre la verità di Satana è la morte di tut­to il reale.

Il concetto di verità vivente è pericoloso e fa nascere il so­spetto che sì possa adattare la verità alle diverse situazioni: in questo modo il concetto di verità si dissolve, mentre verità e menzogna si avvicinano fino a confondersi. Ciò che stiamo dicendo sulla necessità dì conoscere la realtà sì potrebbe anche fraintendere nel senso, che la quantità di verità che sono pronto a dire all'altro debba dipendere da un mio calcolo o da un mio atteggiamento pedagogico nei suoi confronti. È importante tener conto di questo pericolo. Ma la possibilità di superarlo sta unicamente nel discernere diversi contenuti e li­miti che la realtà stessa prescrive al mio dire affinché esso sia veritiero. Non è lecito però prendere a pretesto i pericoli in­siti nel concetto di verità vivente per sostituirlo con il con­cetto formale e cinico della verità.

Dobbiamo cercare di spiegare chiaramente quanto abbiamo detto. Ogni parola vive e ha la sua origine in un determinato ambiente. La parola detta in famiglia è diversa da quella detta in ufficio o in pubblico. La parola che nasce nel calore. di un rapporto personale si raggela nella fredda atmosfera delle cose pubbliche. La parola di comando, che è al suo posto nei pub­blici servizi, nella famiglia distruggerebbe i vincoli della fidu­cia. Ogni linguaggio deve avere un luogo che gli è proprio e non uscirne. Per mezzo dei giornali e della radio il linguaggio pubblico è enormemente aumentato e ha prodotto come conse­guenza una certa incapacità di distinguere i diversi linguaggi, cosicché, per esempio, è stata quasi distrutta la caratteristica specifica del discorso personale. Alla parola autentica si sosti­tuisce la chiacchiera. Le parole non hanno più peso. Si parla troppo. Quando i confini tra i vari linguaggi si cancellano e le parole non hanno più una loro radice, un loro ambiente, il lin­guaggio perde veracità e nasce quasi necessariamente la men­zogna. Quando i diversi ordinamenti della vita non si rispet­tano più mutuamente, le parole diventano bugiarde. Per esem­pio: un maestro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che suo padre torni spesso a casa ubriaco. È vero, ma il bambino nega. La domanda del maestro ha creato una situa­zione che il bambino non è ancora in grado dì padroneggiare. Egli percepisce soltanto che si sta producendo un'ingiustificata interferenza nell'ordinamento della famiglia che egli deve di­fendere. Ciò che accade in famiglia non riguarda affatto Ì com­pagni di scuola. La famiglia ha il suo segreto e lo deve difen­dere. Il maestro ha disprezzato la realtà della famiglia. Nella sua risposta il bambino avrebbe dovuto trovare il modo di ri­spettare tanto l'ordinamento della famiglia quanto quello della scuola. Ma non è ancora in grado dì farlo: gli mancano la ne­cessaria esperienza, la conoscenza e la capacità di esprimersi propriamente. Nel rispondere negativamente alla domanda del maestro dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una verità, cioè che la famiglia è un'istituzione sui generis nella quale il maestro non ha diritto di immischiarsi. Si può dire che la risposta del bambino è una bugia, ma è una bugia che contiene più verità, ossia che è più conforme alla verità, che non una risposta in cui egli avesse ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna. In base alle conoscenze che aveva, il bambino ha agito bene; la colpa della bugia ricade esclusiva­mente sul maestro. Se al posto del bambino ci fosse stato un uomo d'esperienza, avrebbe potuto rettificare l'errore dell'in­terrogante evitando al tempo stesso la falsità formale della ri­sposta e trovando così la "parola adatta" alla situazione. Le menzogne dei bambini e delle persone senza esperienza deriva­no spesso dal fatto che essi vengono posti in situazioni che non sono in grado di padroneggiare. C'è dunque da chiedersi se il concetto di menzogna, che è e che va inteso come qualche cosa di rigorosamente condannabile, possa essere ragionevolmente esteso e ampliato fino a identificarlo con il concetto dell'affer­mazione formalmente contraria alla verità. Abbiamo visto or ora quanto sia difficile dire che cos'è propriamente una men­zogna.

La definizione corrente, secondo cui è menzogna la contrad­dizione consapevole tra pensiero e parola, è assolutamente in­sufficiente. Su quella base si dovrebbe condannare il più inno­cuo "pesce d'aprile". Il concetto di "bugia scherzosa", derivato . dalla morale cattolica, toglie alla menzogna il suo carattere spe­cifico dì cosa grave e malvagia (e toglie d'altra parte allo scher­zo il suo carattere di gioco innocente e libero), ed è perciò un concetto poco felice. Lo scherzo non ha nulla a che vedere con la bugia, e non è lecito ridurli a un denominatore comune. Se si dicesse che la menzogna è l'atto dell'indurre scientemente in errore un'altra persona a suo danno, si includerebbe nella de­finizione anche l'inganno del nemico cui si ricorre necessaria­mente in guerra e in altre situazioni analoghe. (Kant ha detto di essere troppo orgoglioso per dire mai una bugia, ma ha in- ; volontariamente spinto questo principio a conclusioni assurde : affermando che si sentirebbe obbligato a dare informazioni ve­ritiere anche a un criminale che venisse a cercare qualcuno ri-fugiatosi presso dì lui.) Se si chiama bugiardo chi inganna il nemico in guerra, la bugia viene ad avere una consacrazione e una giustificazione sociale assolutamente in contrasto con ciò che essa è. Se ne deduce in primo luogo che la menzogna non sì può definire formalmente come contraddÌ2Ìone tra pensiero e parola. Tale contraddizione non è neppure un elemento neces­sario della menzogna. Da questo punto di vista esiste un modo di parlare corretto e incontrovertibile, che tuttavia è bugiardo; per esempio quando un notorio mentitore dice per una volta "la verità" per fuorviare chi l'ascolta, oppure quando sotto la apparente correttezza si nasconde consapevolmente un equivo­co, o quando la verità decisiva viene volontariamente celata. Anche il deliberato silenzio può essere una menzogna, ma non  necessariamente.

Da queste considerazioni risulta evidente che l’essenza della menzogna è molto più profonda che la contraddizione tra pen­siero e parola. Si potrebbe dire che dipende dall'uomo che pro­nuncia una parola se essa sia veritiera o falsa. Ma anche que­sto è insufficiente; la menzogna infatti è qualche cosa di ogget-tivo e dev'essere definito come tabe. Gesù chiama Satana "pa­dre della menzogna" (Gv 8, 44). La menzogna è prima di tutto la negazione di Dio, come si è manifestato al mondo. "Chi è bugiardo se non colui che nega che Gesù è il Cristo?" (1 Gv 2, 22). Menzogna è il contraddire la parola dì Dio, che egli ha detto in Cristo e sulla quale riposa il creato. Men­zogna è dunque la negazione, il annegamento, la consapevole e volontaria distruzione della realtà quale e stata creata da Dio e sussiste in lui, nella misura in cui lo si può fare con le pa­role o con il silenzio. Le nostre parole sono destinate a espri­mere, in unione con la parola di Dio, la realtà come essa è in Dio, e il nostro silenzio dev'essere segno del limite che la real­tà, così come essa è in Dio, pone alla parola.

Nei nostri tentativi di esprimere la realtà, non la scopria­mo come un tutto unitario ma la troviamo in uno stato di divi­sione e di contraddizione con sé stessa, che ha bisogno di ri­conciliazione e di guarigione. Ci troviamo inseriti allo, stesso tempo in diversi ordini della realtà, e la nostra parola, che tende alla riconciliazione e alla guarigione della realtà, è sempre di nuovo trascinata nella divisione e nella contraddizione esi­stenti, e può dunque adempiere il suo scopo di esprimere la realtà cosi come essa è in Dio, soltanto a- condizione di assu­mere ih sé tanto la contraddizione esistente, quanto l'intima coerenza della realtà. La parola umana per essere vera non può negare né il peccato né la parola dì Dio creatrice e riconcilia-trice, nella quale ogni divisione è superata. Il cinico vuole fen­dere veritiera la propria parola con l'enunciare di volta in volta le singole cose che crede di aver percepito, ma senza tener conto della realtà nel suo insieme; appunto perciò egli distrug­ge completamente la realtà; e anche se superficialmente la sua parola sembra giusta, di fatto è falsa. "Tutto quello che esiste è lontano e molto profondo; chi Io troverà?" (Eccl. 7, 24). Come potrò dire la verità?

1. Rendendomi conto dì chi mi spinge a parlare e di che cosa mi da diritto di farlo.

2.    Rendendomi conto del luogo in cui mi trovo.

3.    Collocando in questo contesto l'oggetto di cui parlo.

Queste indicazioni presuppongono tacitamente che il par­lare sia soggetto a determinate condizioni; esso non accompa­gna ininterrottamente tutto il corso della vita, ma avviene a suo tempo e luogo e con uno scopo appropriato, e quindi ha i suoi limiti.

1. Chi o che cosa mi da diritto o mi muove a parlare? Chi parla senza averne diritto o senza motivo è un chiacchiero­ne. Ogni parola sta in un doppio rapporto con un'altra persona e con una cosa; bisogna dunque che questo rapporto sia eviden­te in ogni parola. Un discorso che non ha relazione con nulla è vuoto: non contiene nessuna verità. C'è in questo una diffe­renza essenziale tra pensare e parlare. Il pensiero in sé non ha necessariamente un rapporto con qualcuno ma solo con qualche cosa. La pretesa di aver diritto di dire quello che si pensa non sì giustifica affatto. La parola deve avere una giustificazione e una motivazione nel prossimo. Per esempio: posso pensare che un altro sia stupido, brutto, incapace, senza carattere, oppure anche intelligente e coscienzioso. Ma è una cosa ben diversa sapere se ho diritto di parlare e che cosa mi spinge a parlare di queste cose e con chi. Senza dubbio esiste un diritto di pa­rola connesso con una funzione che mi sia stata affidata. I ge­nitori possono biasimare o lodare il bambino, mentre il bambi­no non ha lo stesso diritto nei loro riguardi. Tra maestro e scolaro esiste un rapporto analogo, sebbene i diritti del mae­stro verso Ì bambini siano più limitati di quelli del padre. Perciò la critica o la lode che il maestro rivolge allo scolaro sarà circoscritta a singoli errori e risultati ottenuti, mentre certi giudizi generali sul carattere del bambino toccheranno ai geni­tori e non al maestro. Il diritto di parlare si trova sempre nel­l’ambito della concreta funzione che io esercito. Quando si oltrepassano quei limiti, la parola diventa indiscreta, presuntuosa e urtante, tanto se loda quanto se biasima. Vi sono persone che si sentono chiamate a rivolgersi a tutti quelli che incontrano e (così si esprimono) a "dir loro la verità".

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