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Avvenire, 20 novembre 2002
Pellegrinaggio del Cuore
di Raffaele Nigro
Mentre si celebrano le fortune dei nuovi santi pare stemperarsi la figura di un vescovo che negli anni novanta si trovò a gestire una difficilissima crisi delle migrazioni di massa seguita alla caduta del muro di Berlino. E pare che per questa ragione taluno abbia già intrapreso un suo pellegrinaggio del cuore nel Salento, tra Tricase e Alessano, prima del nuovo anno, quando le manifestazioni per ricordare il decennale dalla morte di don Tonino Bello non permetteranno l'intimità alla visita, il tornare in punta di piedi in quella stanza dove si vide un uomo divorato dalla febbre, arreso al cancro e alle terapie radianti. La comunità di Molfetta, che si era sorpresa di fronte all'umanità di un vescovo che aveva poco dell'ufficialità delle gerarchie, ne reclamava il ritorno, ma don Tonino dalla casa di Alessano dove era nato nel 1935 e dove era tornato a chiudere i suoi giorni, faceva sapere che un conto è la volontà degli uomini, un altro il percorso della natura, i suoi capricci, le sue ribellioni.
Si sarebbe spento nell'aprile del '93, questo prete che si era laureato in Teologia a Bologna, che amava suonare la fisarmonica e che dieci anni prima era stato nominato vescovo di Molfetta Giovinazzo e Terlizzi, in provincia di Bari. Un vescovo che si occupava di drogati e di matti, responsabile nazionale della Pax Christi, che aveva fatto della sua diocesi una terra votata alla pace, una parola che in Puglia, luogo di frontiera, significa accoglienza. E la prova generale ci fu, nell'estate del '91, con l'arrivo della Vlora nel porto di Bari. Sul molo foraneo era accorso lui, don Tonino, si sbracciava perché i profughi non venissero trasferiti allo stadio, accoglieva molti fuggiaschi nel palazzo vescovile. Aveva continuato su questa strada, in contrasto con leggi e politica, ospitando albanesi, curdi, macedoni, cingalesi.
Ma ricordo anche le sue om elie folgoranti in memoria di preti ammazzati e gente strana, dai monsignor Romero agli Helder Camara, e poi la sua decisione improvvisa di partire verso Sarajevo, per un Natale fuori dalla convenzionalità,nel momento in cui Sarajevo era martoriata dai bombardamenti, sconvolta da una guerra civile che non risparmiava nessuno. Col cinismo dei cronisti gli strappammo al suo ritorno un'intervista, lui stava già male, tra le stanze del palazzo vescovile dominate da un silenzio severo e che sono ancora come lui le ha lasciate, ci parve l'ombra di se stesso, eppure restava quella intelligenza viva, dolce e umana che avevamo conosciuto in circostanze più felici. Disse "È stato come ripetere i passi di San Francesco, parlare concretamente di pace".
Non agiva in questo senso don Tonino, ma era diventato un riferimento quando spiegava che l'Italia era un ponte con l'Oriente, che la solidarietà può tamponare il vuoto creato dalla crisi ideologica e di valori consolidati. Ci convinceva la sua voglia di mediare tra contemplazione e fede operante, tra preghiera e impegno sociale, il progetto di essere "luce e vita", come recita il titolo di una rivista della diocesi, come spiegano le sue lettere pastorali dirette a propagare una teologia della solidarietà, a scagliare contro le coscienze addormentate Una provocazione fatta pietra.
Aveva percorso monsignor Bello le miserie dell'Africa, del Sudamerica, e sapeva i ritardi e la disoccupazione del nostro Mezzogiorno, come le poteva capire il figlio di un carabiniere quale lui era, ma viveva la lotta alle povertà e alle difficoltà quotidiane con entusiasmo, con uno slancio che coinvolgeva. Fosse vissuto in centro America forse lo avrebbero ammazzato per questo impegno. La morte se lo pigliò comunque in anticipo, ma non tanto da impedirgli di trasmettere la passione per una vita autentica, fatta di slanci e di scelte capaci di scandalizzare per controtendenza e di stupire per una permanente ansia di risveglio.
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