Ettore Masina Ricorda Ernesto Balducci Nuovamente proponiamo questo ricordo di padre Balducci pronuncato da EttoreMasina a Firenze il 18 febbraio 2002. Ettore Masina nato a Breno (Bs) il 4 settembre 1928, giornalista, scrittore, fondatore della Rete Radie' Resch, gia' parlamentare, e' una delle figure piu' vive della cultura e della prassi di pace. Sulle sue esperienze e riflessioni si vedano innanzitutto i suoi tre libri autobiografici: Diario di un cattolico errante. Fra santi, burocrati e guerriglieri (Gamberetti, 1997); Il prevalente passato. Un'autobiografia in cammino (Rubbettino, 2000); L'airone di Orbetello. Storia e storie di un cattocomunista (Rubbettino, 2005). Tra gli altri suoi libri: Il Vangelo secondo gli anonimi (Cittadella, 1969, tradotto in Brasile), Un passo nella storia (Cittadella, 1974), Il ferro e il miele (Rusconi, tradotto in serbo-croato), El Nido de Oro. Viaggio all'interno del terzo Mondo: Brasile, Corno d'Africa, Nicaragua (Marietti, 1989), Un inverno al Sud: Cile, Vietnam, Sudafrica, Palestina (Marietti, 1992), L'arcivescovo deve morire. Monsignor Oscar Romero e il suo popolo (Edizioni cultura della pace, 1993 col titolo Oscar Romero, poi in nuova edizione nelle Edizioni Gruppo Abele, 1995), Comprare un santo (Camunia, 1994); Il Volo del passero (San Paolo, tradotto in greco), I gabbiani di Fringen (San Paolo, 1999), Il Vincere (San Paolo, 2002). Un piu' ampio profilo di Ettore Masina, scritto generosamente da lui stesso per il nostro foglio, e' nel n. 418 de "La nonviolenza e' in cammino" La sorridente gara di poc'anzi sulla primogenitura delle amicizie balducciane, ha riportato in me tante immagini del nostro grande amico: quella di lui magro, quasi esile (l'anno era il 1954) conferenziere nella Corsia dei Servi: un ragazzo troppo razionale e persino troppo colto, che nei dibattiti manovrava l'arguzia toscana e la scienza teologica come corpi contudenti per atterrare l'avversario; una "storica" fotografia del 1957 con lui, padre Davide Tiroldo, padre Camillo De Piaz, don Primo Mazzolari e, mi pare, don Abramo Levi, affacciati al balcone della villa di Luigi Santucci: mirabile pattuglia di evangelizzatori nella Missione di Milano voluta dall'arcivescovo Montini; e un Balducci piu' maturo, anche nel fisico, a un dibattito romano in cui, durante l'ultima sessione del Concilio, io "moderavo", con qualche interno tremore, due giganti della teologia come Danielou e Chenu... * E tuttavia, anche in me, sopra ogni altra, prevale l'immagine di Balducci nella Badia Fiesolana. Quando noi "foresti" vi giungevamo, percepivamo che la Badia, la comunita' che vi si raccoglieva, erano per Balducci il centro della sua cosmogonia. Mi e' capitato di dire e qui lo ripeto per avviare poi un discorso che mi portera' in altri luoghi, mi e' capitato di dire una volta che Balducci abitava la Badia come l'indio amazzonico abita la propria capanna: e cioe' come il centro del mondo, spazio sacro nel quale non soltanto egli vive, ma anche seppellisce i suoi morti, a reciproca custodia. Dunque anche nei miei ricordi prevale la figura di un Ernesto in qualche misura davvero abate, benche' senza titolo ecclesiastico: il quale celebrava liturgie e accoglieva fiorentini o fiesolani, ma anche persone giunte da ogni parte d'Italia per deporre nel suo cuore sacerdotale e davanti alla sua limpida ragione dolori e problemi; il Balducci che nella Badia riceveva dai confratelli e dagli amici affetti, notizie, consigli, persino sorridenti rimbrotti per quel tanto di narcisismo che c'era in lui, com'e' inevitabile per tutti gli intellettuali; e aveva amanuensi devote e capaci che ci hanno conservato il tesoro delle sue parole; e pie donne che si occupavano dei pranzi per lui e i suoi amici, spazio conviviale in cui Ernesto si apriva ai suoi rari, ma cosi' limpidi, sorrisi. Insomma nei ricordi di noi che tante volte approdammo alla Badia e' difficile per cosi' dire enuclearlo da quella dimora, la quale - pietre e creature - era per lui una casa-madre, chiostro popolato di voci amiche, "portico di Salomone"; in cui gli era indispensabile tornare rapidamente, quando ne era partito. * Ma io, oggi, voglio parlare, invece, del Balducci pellegrino, itinerante. Non per viaggi in terre lontane: quelli, in qualche misura, egli non li sentiva necessari. La sua cultura, la sua insaziabile fame di culture "altre" e di notizie significanti, la vastita' della sua erudizione, la capacita' di manovrare una sterminata biblioteca (che non stava tutta negli scaffali ma anche nella sua prodigiosa memoria) gli rendevano possibile raggiungere i luoghi piu' alti e drammatici della storia umana: senza muoversi dalla Badia, Balducci scendeva fra le immense folle radunate da Gandhi lungo le rive del Gange, o saliva i sentieri scoscesi delle Ande percorsi dalle torme dei conquistadores ossessionati dalla smania dell'oro; camminava idealmente sulle strade silenziose dell'Umbria, con Francesco e con Chiara; e in tutti questi cammini non avanzava soltanto con l'acume e la scienza interpretativa ma anche con la capacita' di cogliere le sofferenze dei vinti, le loro disperse memorie, le massacrate speranze: il figlio del minatore del Monte Amiata non dimenticava mai la preziosita' germinativa delle lotte e delle sofferenze dei poveri. E proprio la partecipazione al dolore della povera gente gli faceva contemplare con orrore le guerre: le tecnologicamente ferocissime, come quella del Golfo, e le piu' ancestralmente selvagge, come quelle balcaniche di cui intravvide i primi lividi bagliori. Soltanto la detestazione per la disseminazione di dolori, per la stupidita', per la follia, per la teratologia di tutte le guerre, qualunque etichetta esse portassero, fece progettare a Balducci, alla fine del 1990, per un istante, un viaggio geograficamente lungo e politicamente rischioso: penso' di accompagnarsi a Raniero La Valle nella missione a Baghdad intesa ad annunziare allo spietato rais iracheno la grandezza della pace e a fargli rilasciare gli ostaggi occidentali che egli aveva sequestrato. * Ma non e' nemmeno di questi viaggi al di la' del nostro Paese che io voglio parlare, e' di quelli per i quali si puo' dire che Balducci aro' l'Italia cristiana (e forse soprattutto quella non-cristiana) con il vomere della sua fede, irruente e insieme mai dimentica delle esigenze dell'intelletto ("la mia profezia ragionevole" la definiva); e semino' ovunque l'evangelo che gli bruciava nel cuore. Voglio dire qualcosa del Balducci viaggiatore nella cosiddetta periferia, e cioe' non soltanto a Roma ma anche nei luoghi lontani dalle metropoli o dalle citta' di cultura prestigiosa come Firenze. A ben pensarci, gia' l'apparato ecclesiastico aveva piu' volte deciso di collocare Balducci, per cosi' dire, in periferia, fuori porta: a Frascati e non a Roma; poi non nel centro di Roma ma nella parrocchia periferica di San Francesco a Monte Mario, poi a Fiesole e non a Firenze. Compromessi miserandi, puntigli clericali che oggi ci appaiono ridicoli - o peggio. La Badia Fiesolana non fu certo luogo d'esilio; aveva anzi, soprattutto agli inizi, molte possibilita' di diventare, com'e' successo del resto in altre avventure di sacerdoti cui fu data disponibilita' di grandi case, devoto buen retiro, o, peggio ancora, istituzione paralizzante. Il Balducci "abate" non si rinserro' nel suo chiostro. Con quasi temeraria generosita', per tutti gli anni della sua vita, aderi' alle richieste che gli venivano incessantemente rivolte da gruppi e comunita' che con lui volevano rileggere il vangelo e i segni dei tempi. La sua ruvida dedizione non ebbe limiti al riguardo. Oggi che e' diventato abituale per tanti intellettuali (qualche sacerdote fra essi) muoversi soltanto dopo avere ricevuto ampie assicurazioni sulle dimensioni numeriche e qualitative del pubblico e sull'entita' del cosiddetto "gettone di presenza", appare ancora piu' toccante la disponibilita' di Balducci a donarsi gratuitamente, sino all'esaurimento delle forze. Perche' non della fatica sui libri, non di una malattia, non di un impazzimento delle cellule e' morto il nostro amico, ma della sua fatica di evangelizzatore. Se si pubblicasse l'agenda dei suoi viaggi, apparirebbero chiare - e sorprendenti - le dimensioni per cosi' dire geografiche della sua dedicazione alla costruzione di una Chiesa che sapesse immergersi nel futuro per accogliere le sfide della liberazione dell'uomo; e della sua convinzione che questa Chiesa non potesse nascere senza radici che si allungassero nell'humus di quella che appunto abbiamo chiamato periferia perche' molto di buono puo' venire dalla galilee di tutti i tempi e di tutte le nazioni. Balducci e' morto su una strada, viandante come gli apostoli, alla sequela del Cristo. Quando guardiamo al suo ingegno sfolgorante, a quelle sue prontezza ed eleganza di eloquio, ai suoi libri, alla sua santita' (uso con convinzione questa parola forte per dire della sua intensita' di preghiera, della delicata tenerezza che egli seppe donare ai dolenti che gli si presentarono o che egli ando' a trovare, per esempio nelle carceri), quando ricordiamo tutto questo, non dobbiamo dimenticare come e perche' Balducci e' morto: in itinere. * A me e' toccato, nei mesi seguenti la sua fine terrena, l'onore (e lo strazio) di andare a concludere alcuni dei cicli di conferenze che egli aveva iniziato: a Frascati, a Fabriano, a Cesena, a Senigallia, in tanti centri apparentemente piccoli ma per lui egualmente importanti. E la cosa che piu' mi ha colpito, nei racconti di chi gli si era stretto accanto in quei luoghi e' stata la "pastoralita'" dei suoi viaggi. Ovunque si recasse c'era molta gente ad ascoltarlo, venuta anche da lontano (da questo punto di vista Balducci fu forse l'ultimo epigono degli "uomini della penitenza", i grandi predicatori medievali), ma c'erano anche creature doloranti che attendevano da lui una parola o un gesto che restituisse loro una ragione di vita: vecchie signore che si sentivano inutili, emarginate e che egli portava a casa con la sua auto, ridando loro autostima e un po' di prestigio sociale, donne e uomini smarriti in qualche pena psichica, cui egli affidava piccole mansioni che li facevano sentire suoi collaboratori; atei conclamati e detestati per la loro irruenza cui Balducci mostrava le braccia spalancate del crocefisso; e questi episodi di tenerezza - mi testimoniavano i gruppi -erano andati crescendo in numero e qualita' negli ultimi anni, cosicche' in molti e molte e' rimasta l'immagine di un Balducci non soltanto intellettualmente grande ma anche, e soprattutto, buono, amabile. * La seconda caratteristica dell'incontro di Balducci con i tanti gruppi al cui servizio egli pose il suo cuore e la sua intelligenza fu il profondo rispetto che egli porto' loro. Esistono molte trascrizioni dei suoi discorsi fatti in varie sedi, anche in giorni successivi; ed e' quasi incredibile vedere come ciascuno di essi sia diverso dagli altri se non nell'impianto almeno in molte significative notazioni. Egli avrebbe potuto calare dall'alto la propria cultura e la propria riflessione in un discorso ormai collaudato; invece risulta evidente dai confronti che ogni occasione fu preparata, costantemente arricchita dalla attualita', da quel dipanarsi della storia nella cronaca di cui Ernesto sapeva cogliere le implicazioni con mirabile prontezza. Ai suoi ascoltatori non elargiva mai della retorica ne' la accettava da loro. Il suo dire era solenne, fluiva in un discorso che sembrava scritto (mentre egli non aveva davanti a se' neppure una "scaletta") , ma all'infuori di questa eleganza egli non concedeva sconti, per cosi' dire. Citava autori come Freud e Jung, Habermas, Levinas e Levi Strauss, e non sempre usava parole facilissime; senza compiacimenti intellettuali, sapeva di avere una funzione magisteriale e chiedeva di fatto ai suoi ascoltatori di ampliare le proprie conoscenze. Nei dibattiti era paziente ma non celava la sua insofferenza per le spiritualita' evanescenti tipo new age, ne' per i settarismi o per i movimenti esclusivi, ancorche' graditi in Vaticano, dei quali detestava l'arroccamento isolazionista o la furia proselitistica. Non accettava volentieri di discutere di riforme della Chiesa, che non gli parevano di grande sostanza. Preferiva parlare con passione (una passione che e' rimasta nel ricordo di molti gruppi), di una Chiesa-comunita' che doveva accettare il rischio di mutare profondissimamente, giorno dopo giorno, secondo le sfide del futuro. Ma respingeva l'idea che con la Chiesa-istituzione si potesse (o addirittura si dovesse) rompere. Le tensioni potevano e dovevano essere portate, diceva, sino al limite di rottura e quel limite doveva essere coraggiosamente indagato, Ma non doveva essere varcato perche' la carita' doveva prevalere. Con qualche ruvidezza disse una volta a un acceso "progressista": "Non vogliamo una fede di sinistra, quello che vogliamo e' che la fede si liberi dagli involucri ideologici che vanificano il mistero dell'universalita' della Croce". * Ovunque semino' cultura e inquietudini ma soprattutto speranza. Ai tanti abituati, allora come adesso, a vedere il presente e il futuro prossimo come lacrimevole tragedia, Balducci insegno' a leggere l'eschaton, l'"oggi di Dio", come lui diceva, la storia che andava redenta dall'ingiustizia dell'uomo sull'uomo, del Nord sul Sud, dell'ideologia sulla profezia. Un eschaton che si poteva cogliere soltanto votandosi alla liberazione dei poveri, lasciandosi convocare dal grido degli oppressi. E a chi gli ripeteva, come ripete anche oggi, il lamento della sconfitta, egli additava speranze raccolte non soltanto nella Parola rivelata o almeno non soltanto in quella contenuta nei libri canonici. Mi ricordo un motorista di Cesena che, venuto alla commemorazione di Balducci, mi chiese: "Ma tu che cosa pensi di quel Levistro' di cui lui sempre parlava?". Quell'idea di Levi Strauss che anche nell'uomo banale e incerto che e' ciascuno di noi abiti un homo ineditus, un cumulo di energie positive che, ad un tratto, una condizione storica puo' far emergere, Balducci la esponeva con una convinzione che credo sia rimasta in non pochi, oggi piu' preziosa che mai. * Un giorno del 1990, in un convegno, a Rimini, della Rete Radie' Resch, un'associazione di solidarieta' internazionale, Ernesto rivelo' una delle ragioni che lo portavano a raggiungere cosi' frequentemente certi gruppi. Disse: "Ho bisogno di queste prefigurazioni di quella cittadinanza planetaria, senza la quale io cadrei per la vertigine, per la perdita totale del mio vivere quotidiano e del mio vivere storico". L'uomo al quale non era mancata la possibilita' di raggiungere le grandi folle virtuali dei mass-media, sentiva il bisogno di incontrare di persona, occhi negli occhi e mano nella mano quelle che Helder Camara chiamava "comunita' abramitiche". Balducci seppe dunque accettare cio' che risulta difficile a molti, e specialmente a molti intellettuali: il dare e il ricevere come eguale espressione di amore. E giacche' ho citato la Rete Radie' Resch, vorrei concludere con le parole che Ernesto scrisse nella prefazione a un libro che ne narra la storia trentennale. E' un testo che ci pervenne il giorno seguente alla sua morte e ci parve non soltanto un testamento spirituale ma anche un autoritratto: "Il "genio" della Rete e' nella sua totale immanenza ai rischi e agli imprevisti della liberta'. Una condizione che richiede, per non venir meno, una costante dinamica della fantasia creativa. Ma sono proprio queste le qualita' essenziali dell'uomo planetario: la totale apertura allo spazio e al tempo, senza schermi di autodifesa, in un atteggiamento di servizio in cui si attua il pronostico evangelico: solo chi e', in ogni momento, pronto a morire, porta frutto. Esser pronti a morire non e' morire, e' trasformare la morte da minaccia temibile in intima generosita' oblativa. E' a queste profondita' che nel seno del presente nasce il futuro". |