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La voce più bella
Quante vite in una vita sola, quanta forza in una persona sola, quante storie in una storia sola. Mahmoud Darwish era l'emblema della Palestina e la voce più bella del suo popolo. La sua grinta esprimeva e alimentava la forza di tutti i palestinesi e ora la sua morte, a lungo combattuta, esprime il graduale declino della rivoluzione e della sua generazione. Era uno degli ultimi capisaldi del movimento progressista non solo in Palestina, ma in tutta la regione. Da solo bastava a dimostrare che la sinistra è ancora viva e occupa ancora grandi spazi nella coscienza del mondo arabo, era l'ultima frontiera prima dell'eclissi, l'ultimo faro nella notte. La sua è una sintesi della nostra storia. E questa non è purtroppo retorica. «A 7 anni smisi di giocare e ricordo bene come e perché: in una notte d'estate (...) fui improvvisamente svegliato da mia madre e mi trovai a correre con centinaia di contadini nei boschi, inseguito dalle pallottole. Quella notte ha messo fine alla mia infanzia, non chiedevo più nulla, ero diventato improvvisamente adulto. dopo più di un anno mi dissero che saremmo tornati. Tornare a casa significava per me la fine della provocazione dei ragazzi libanesi che mi insultavano con l'epiteto umiliante di "profugo". dopo tanta fatica mi trovai in un certo villaggio. Che delusione! Non era il mio (...). Non capivo come avesse potuto essere distrutto un villaggio intero. Non capivo come fosse accaduto che il mio intero mondo fosse sparito, né chi fossero quelli che lo avevano annientato». Così il poeta racconta la sua infanzia e la delusione diventa il ritmo che ha scandito la sua vita e quella della nostra intera generazione. E con la distruzione del suo villaggio, Al Barweh, il luogo nella sua identità, come tutte le vittime della pulizia etnica, assume una dimensione simbolica espressa attraverso riferimenti oggettivi al mondo interiore, gli ulivi, il mare, il cavallo, la casa, il pozzo, la terra. Il ricordo, il ritorno sono il desiderio impellente, il sogno tormentato di tutti gli esiliati: «Torniamo a casa. Conosci la strada, figliolo? - sì padre. A Oriente del carrubo sullo stradone, un gelsomino che attornia un cancello, impronte di luce sulla scala di pietra, un girasole scruta quello che c'è dietro; nella corte un pozzo, un salice e un cavallo, e dietro il recinto un domani che sfoglia il nostro archivio. (...) porterò la nostalgia dal suo inizio e dal mio, percorrerò questo sentiero sino alla sua fine e alla mia». Nessuno prima di lui ha potuto gridare tutto il nostro dolore e la nostra nostalgia: «Ho nostalgia del pane di mia madre/ del caffè di mia madre/ delle sue carezze ho nostalgia. Cresce l'infanzia in me/ e m'innamoro della vita, mia vita/ che dovessi morire avrei vergogna/ del pianto di mia madre./ Prendimi/ dovessi ritornare, scialle per la tua frangia, copri le mie ossa con erba/ fatta pura dal tuo passo/ legami/ con una ciocca di capelli/ con un filo dell'orlo della veste/ che io diventi Dio. Divento Dio se tocco il tuo cuore. (...) Sono invecchiato rendimi le stelle dell'infanzia/ fammi tornare/ come tornano gli uccelli/ al nido della tua attesa». E quando Marcel Khalife riuscì a comporre in canzone queste sue parole, nessuno dei 10mila presenti nel teatro di Beirut poté trattenere le lacrime, ascoltando quello che diventerà un secondo inno nazionale per tutti gli esuli palestinesiin giro per il mondo. Era un inno nazionale per la vita, gridato da tutta una generazione. Ben diversa la situazione oggi, tempo in cui si glorifica la morte. E mi chiedo se senza amore per la vita si può esser degni di pensare il futuro. «Narrano nel mio paese. Narrano con tenerezza/ del mio amico che ha preso il via/ non ci ha detto ci vediamo domani/ non ha detto addio a sua madre/ non ha lasciato una lettera/ che ravvivi le tenebre della sua notte./ Ella si rivolgeva alla notte, alle stelle/ a Dio/ avete incrociato uno scomparso/ due stelle sono i suoi occhi, le mani due cesti di mirto/ il petto un guanciale per la luna/ il mio amico se n'era andato/ e tornato in un sudario». Altri protagonisti del suo tempo, come Edward Said, sono stati inghiottiti dall'esilio e non sono nemmeno tornati in un sudario. La Palestina è cambiata, non assomiglia più a se stessa, ce ne sarà solo la metà al suo funerale, la metà stanca, smarrita che non è più in grado di recuperare la propria storia, ma ha bisogno dei simboli di una volta e farà per lui un monumento a Ramallah, per decorare il proprio fallimento e tirare ancora un po' a campare. L'altra metà è figlia del degrado del nostro tempo, non si riconosce nella nostra storia, non ha più la nostra memoria. Con parole semplici Mahmoud Darwish aveva preso la distanza dalla guerra intestina che divide il suo popolo, e si vergognava. Cosa è rimasto di noi e delle nostre sensazioni? È stata per lui un'ennesima delusione quando gli ho raccontato della scomparsa della sinistra italiana dal Parlamento italiano, per la prima volta nella storia della Repubblica, di una sinistra che non sa chi è Mahmoud Darwish e non ha trovato il tempo per esprimere le sue condoglianze. Tempi duri ci attendono, sembra che il male non abbia fondo. Erano giuste le nostre intuizioni, ma non abbiamo avuto la forza, siamo inciampati nella nostra incoerenze e improvvisazioni, siamo scivolati su improbabili scorciatoie. «Orizzonte plumbeo sparso all'orizzonte/ strade di conchiglie rotanti in strade./ Dall'oceano all'inferno, dall'inferno al Golfo/ da destra a destra, al centro/ ho visto solo una forca/ una forca con una sola corda per due milioni di teste (...)». Ma la speranza è l'ultima a morire: pace, libertà e giustizia in nome della nostra storia rimangono la nostra meta.
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