Il Nostro Irak
Le voci della società civile irakena raccolte a margine di un seminario sulla nonviolenza
di Maurizio Cucci

SOMMARIO

La Premessa di un Anonimo

Introduzione

Hussain Z. Al-Qaisy

Jamil H. Atia

Intiha'a M. Khalaf

Fadhel A. Abdul-Aziz

Abdulla Jabbar Mushaigi Al-Maliky

Ahmed H. Al-Samrai

Akram Mhmad Abood

Suliman Y. Abaas

Majid Th. E. Al Zohaire

Ruweena Diaa Saker

Amera H. Abdulla

Khudhair J. Kadhum

Ibrahim M. Metlak


La premessa di un anonimo

Da uno studio sulla storia della violenza in Irak, risulta che la violenza è uno strumento dell’oppressione. Il Professore di archeologia, Sig. Dabbad, insegna che la violenza in Mesopotamia è un riflesso della violenza della natura che proviene dalle innondazioni del Tigri e dell’Eufrate, innondazioni che non erano in sintonia con i bisogni dei contadini e che, quindi, divennero sinonimi di violenza e distruzione. Dunque, in Mesopotamia, la civiltà è stata caratterizzata dalla violenza, dalla tensione e dal cambiamento indotti dal fiume Tigri e dal fiume Eufrate che, oltre alle innondazioni, hanno conosciuto le conquiste e le invasioni straniere. L’apparizione ripetuta delle dittature nel mondo antico, così come, in seguito, la distruzione delle rovine delle città scomparse e del patrimonio storico e artistico del paese, sommati a secoli di oppressione imposta ai popoli della Mesopotamia, chiamata da Karl Marx l’oppressione orientale, hanno dato luogo ad un cambiamento delle caratteristiche dell’individuo irakeno, concretizzando sempre di più un determinato spirito delle genti di Mesopotamia.

Questa storia di violenze ha influenzato negativamente la società irakena, in modo che, oggi, alcuni hanno offerto legittimità ad un regime di oppressione perché potesse ingerire negli affari interni del nostro stato.


Introduzione
Relazione integrata con gli appunti, sui temi trattati durante il training, di Martì Olivella e Carla Biavati.

Lasciamo una Palestina piena di muri e di nuovi insediamenti.
Il check point di Kalandia, per entrare a Ramallah, è diventato una fortezza di cemento armato con camminamenti video sorvegliati che conducono a terminali dove si arriva, tutti ammassati, davanti ad una serie di cancelli girevoli fatti con grosse sbarre di metallo e forniti di semaforo: verde apre, rosso chiuso.
Una sensazione disdicevole.
Lasciamo una Palestina piena di muri, a Betlemme attraversano i cimiteri, escludono gli uliveti e spezzano la via maestra che arriva da Gerusalemme, dove i muri si arrampicano sulle colline tagliando fuori le Moschee e complicando l’accesso all’Università.
Lasciamo una Palestina piena di muri che attraversano i campi profughi complicandone l’esistenza fino all’inverosimile.

In Giordania ci accoglie un Re che riafferma l’idea della pratica nonviolenta contenuta nel messaggio originale delle tre religioni monoteiste. Ne leggiamo in un articolo comparso su una “special edition” di fine anno del settimanale Newsweek, scritto dal Re Hascemita Abdullah II Bin Al Hussein; impegnato nella “riaffermazione” dei principi originari dell’Islam e della loro fonte comune alle tre religioni monoteiste della Terra Santa. In dura opposizione al tentativo, definito aberrante, perseguito dai terroristi di “riformulare” l’Islam. Rimarcando che questi non sono che un infima parte della società mussulmana. E sostenendo che questa decisa “riaffermazione” dei principi dell’Islam è la migliore arma per combattere l’estremismo ed insegnare ai giovani che coloro che cercano di reclutarli al fondamentalismo radicale offrono solo false promesse derivanti da ideologie aberranti. E prosegue appellandosi a tutte le risorse, morali e intellettuali, a disposizione dell’intera umanità per vedere, finalmente, gli estremisti sopraffatti su tutti i fronti da coloro che amano il loro prossimo come se stessi e auspicano i valori universali della buona volontà, della pace, della libertà e della giustizia.

Ad Amman ci attende un training nonviolento dedicato a rappresentanti della società civile irakena, sostenuto finanziariamente dall’Agenzia Catalana per lo Sviluppo e la Cooperazione. L’idea, per la verità, era stata proposta da Carla Biavati ad una precedente conferenza “Per una Cultura di Pace” tenutasi nel Castello di Figueres in Catalogna. Il training, invece, è stato deciso due mesi dopo al World Social Forum di Porto Allegre del gennaio 2005, durante un workshop sulla nonviolenza dove Martì Olivella, organizzatore della conferenza catalana, ha colto l’occasione per proporlo e perfezionarlo insieme a Jean Marie Muller, Martina Pignatti Morano, Muhammed Tarik, Saif Abukeshek e agli altri presenti al workshop.

Dopo una vigilia di incertezza a causa del sovraffollamento sui voli in uscita da Baghdad, per il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca, i ventiquattro amici irakeni sono arrivati puntuali. Vengono da Baghdad, Kerbala, Nejaf, Kirkuk, Mosul, Samarra, Suleimania, Bassora, Nassiria, Falluja, ecc…
Non manca l’emozione dell’incontro, nella sala dell’Hotel Al Manar, seduti attorno ad un tavolo, con le traduzioni dall’arabo al francese e viceversa e l’attesa e l’interesse per le presentazioni.
La maggioranza sono avvocati interessati ai diritti umani e alle pratiche della nonviolenza attiva, ci sono due giornalisti, due rappresentanti del Partito Islamico Irakeno, il funzionario per le relazioni esterne dell’Assemblea Nazionale del Lavoro, il Vice Presidente della Conferenza Nazionale Irakena, un rappresentante del Consiglio Nazionale per il Dialogo in Irak, il Presidente della Summa degli Uleima, una Signora Cattolico Caldea che lavora al Ministero del petrolio, tre donne rappresentano le donne Kurde, le donne di Bassora e le donne Mussulmane, ci sono alcuni seguaci di Al Sadr, i più giovani, uno di loro è direttore al dipartimento di informatica dell’Università di Baghdad. Ci sono anche rappresentanti del Consiglio per le Minoranze in Irak, c’é un fuoriuscito da Abu Graib che si occupa delle vittime delle prigioni americane in Irak e porta su di se i segni delle torture subite in carcere. A loro si sono aggiunti, Ambra Abu-Ayyash del Centro per i Diritti Umani di Amman e, come appoggio al progetto, i due film makers Flavio Signore y Aitor Echevarria del Centro Culturale Gandhiji, un solo interprete, Akram El Neis, di Media Senza Frontiere che verrà aiutato da due dei trainers, Ziad e Jean, poi Stefano Ellero e Balsam di Un Ponte Per… che hanno puntualmente organizzato la logistica. Poi Marti Olivella, il geniale mediatore dell’intera impresa, e Belem Vicens di NOVA che hanno trovato i finanziamenti e coordinato il progetto insieme all’instancabile Martina Pignatti Morano e Simone D’Alessandro del Centro Gandhi di Pisa. Jean Marie Muller del Movimento per un’Alternativa Nonviolenta era il trainer principale che ha condotto la sessione insieme al libanese Jean Daoud, attore impegnato nella nonviolenza e a due palestinesi, Ziad Medoukh dell’Università di Gaza e Saif Abukeshek dell’International Solidarity Movement. Maurizio Cucci e Carla Biavati erano semplici osservatori dei Berretti Bianchi.

Jean Marie apre i lavori manifestando la volontà di capire la loro esperienza della violenza e il loro rifiuto della violenza. Riaffermando inoltre l’inadeguatezza della violenza e l’impossibilità di essere adottata come metodo per la risoluzione dei conflitti. Segue l’introduzione di Martì Olivella che presenta il movimento nonviolento in Spagna e Catalogna, le lotte per l’obiezione di coscienza e i Corpi Civili di Pace. Quindi uno alla volta tutti i partecipanti si sono presentati ed hanno espresso le loro motivazioni e le loro aspettative, facilitati da Ismaeel M. Dawood che insieme a Muhammed Tarik hanno coordinato i partecipanti irakeni.

Nel pomeriggio si é ridiscusso il programma secondo i suggerimenti dei partecipanti, tra l’altro:
- Definire la violenza e la sua legittimazione
- Come agire una limitazione della violenza
- Concetto di rivoluzione sociale come strumento legittimo per le lotte di liberazione
- Costituire un reseau, una commissione, una rete, un network di formazione alla nonviolenza, partendo dall’educazione ai diritti umani. Un’agenzia che permetta alla società civile irakena di implementare la nonviolenza, anche e soprattutto per agirla nella società femminile.
- Cercare di partecipare i principi della nonviolenza alla realtà della vita quotidiana
- Ruolo della nonviolenza nell’Islam
- Attenzione alla dignità umana e alle minoranze religiose
- Trovare e coivolgere ONG internazionali e locali per promuovere una strategia nonviolenta comune e attiva capace di raggiungere l’intera popolazione irakena
- Preparazione come trainers nonviolenti

La discussione é appassionata, ma é in arabo (sig), anche se c’é la traduzione in francese, non è facile mantenere il filo degli interventi. Comunque gli spunti sono profondi e serrati.

Dopo una breve introduzione alla nonviolenza di Jean Marie Muller, si riuniscono i quattro gruppi di lavoro per consentire lo scambio delle idee più importanti. Quando inizia il lavoro comune si produce una grande euforia, per la prima volta persone tanto diverse, per fede, provenienza e ideologia, si rendevano conto che potevano conseguire un risultato comune.

Queste le frasi sulla nonviolenza acettate all’unanimità:
Gruppo 1
- Il “no” di nonviolenza, non deve essere interpretato come una negazione ma come un’affermazione.
- La Pace non può essere uno stato assoluto dell’esistenza se non è accompagnato dalla dignità e dalla libertà.
- Allo scopo di creare una società nonviolenta dobbiamo proteggere la dignità degli esseri umani. Ogni atto di violenza è una violazione della dignità e della personalità degli altri esseri umani.
Gruppo 2
- Usiamo la nonviolenza per rendere impossibile la violenza.
- L’obbiettivo più importante è di costruire ponti fra le culture e non di costruire muri.
- Demoliremo la legittimità dei pricipi della violenza se sapremo riconoscere i diritti degli altri.
Gruppo 3
- La bontà si trova in tutte le cose. La violenza si presenta come reazione, il potere si trova nella nonviolenza.
- La forza si trova nel confronto e non nella violenza.
- Fare il bene al prossimo è un buon inizio per ottenere un dialogo equilibrato.
- Essere autoriflessivo nel trattare con gli altri.
- E’ stupido costruire muri, è meglio costruire ponti fra le culture (tra l’est e l’ovest).
Gruppo 4
- La nonviolenza non è codardia, ma un metodo per evitare la violenza.
- Per aderire al cammino della nonviolenza dobbiamo conoscere i nostri diritti, quelli degli altri e rispettarli.
- Dobbiamo comprendere bene la terminologia linguistica che sta per; forza, aggressione, conflitto, resistenza …
- Come eliminare la cultura della violenza dalla nostra società mediante lo sviluppo della cultura della nonviolenza?
- Come influenzare la mentalità della gente con la cultura della nonviolenza?

Le sessioni del seminario e i lavori di gruppo sono intervallate da stages di Jean Daoud sull’affinità e il Teatro dell’Oppresso. Una delle sessioni inizia con un minuto di silenzio dedicato a tutte le vittime dellIrak.

Jean Marie Muller espone le dieci tappe per l’attuazione di una strategia nonviolenta:
1) Analizzare la situazione di ingiustizia
2) Trovare un’obbiettivo chiaro e preciso che si possa realizzare
3) Creare un’organizzazione adeguata all’obbiettivo
4) Tentare un primo negoziato
5) Appellarsi all’opinione pubblica nazionale e mondiale con azioni di sensibilizzazione che trovino l’appoggio dei media
6) Invio di un ultimatum
7) Lancio di un’azione diretta di non cooperazione
8) Iniziare un programma costruttivo e alternativo
9) Prepararsi ad accettare una repressione di tipo violento
10) Negoziazione finale mantenendo l’azione diretta di non cooperazione ad oltranza, fino al raggiungimento dell’obbiettivo

Nella sessione seguente per gruppi, vengono adottati alcuni temi sui quali proporre startegie d’azione, questi i quattro temi principali:
Sradicare la violenza
Agire la nonviolenza
Strategie da mettere in atto con la società civile
Strategie per coinvolgere l’ONU

I gruppi si alternano alla discussione e agli stages di Jean Daoud, Carla ha partecipato ad uno dei suoi stages :- Nella sala della conferenza liberata dai tavoli e messa in penombra lo stage inizia con il riscaldamento e il rilassamento per poter meglio esprimere il proprio se profondo, i propri sentimenti. Alcuni hanno gridato Allah è grande e misericordioso, altri vogliamo libero il nostro paese, vogliamo la pace, io mi sono inginocchiata chiedendo perdono per la guerra perché credo nella pace ma non siamo stati capaci di crederci al punto da impedire la guerra. Jean mi ha poi chiesto di ripetere la mia intenzione a qualcuno personalmente, allora mi sono avvicinata al giovane sciita, che prima, nell’esprimere i propri sentimenti aveva pianto. Così ognuno si è avvicinato al suo prossimo esprimendo i propri sentimenti. L’esercizio è poi proseguito per oltre un’ora.
Nella seconda parte dello stage Jean ha messo in scena esercizi del Teatro dell’Oppresso dividendo i partecipanti in quattro o cinque gruppi che replicavano episodi di violenza e sopruso cercando di modificarli con la difesa civile e la risposta nonviolenta. Lo stage si è poi trasformato in un esercizio di liberazione, quando tutti hanno cominciato a cantare canzoni tradizionali irakene continuando anche dopo la fine dello stage! Tra abbracci e un forte senso di fratellanza un signore mi ha ringraziato esprimendomi un grande rispetto, che io ho inteso più ampio e allargato alla figura femminile che è parte integrante della società civile. Questo suo gesto di stima ha illuminato quella zona d’ombra che vela il rapporto dell’Islam con la donna. -

Un pomeriggio vengono proiettati i DVD contenuti nella pubblicazione “A force more powerfull” (Una forza più potente), tutti scrupolosamente tradotti in arabo dall’organizzazione.
Si tratta di quattro esempi storici di rivoluzioni nonviolente che hanno raggiunto i propri obiettivi; la rivoluzione di Gandhi che conquistò l’indipendenza dell’India, scacciando gli occupanti inglesi. Delle lotte per i diritti civili guidate da Martin Luther King negli Stati Uniti e dall’African National Congress in Sud Africa. E, infine, delle lotte di Solidarnosc e degli operai dei cantieri di Danzika, in Polonia.

Purtroppo Jean Marie Muller non ha permesso che si vedessero i film dell’International Solidarity Movement, dispiace per due ragioni: perché le due occupazioni sono simili e vicine, e poi perche’, ancora una volta, i palestinesi non hanno trovato cittadinanza.
D’altra parte i principi di Jean Marie sono inviolabili, egli sostiene che, se un’azione diretta è al 95% nonviolenta e al 5% violenta, allora quella non è un’azione nonviolenta ma, al contrario, è un’azione contaminata dalla violenza e i media proporranno all’opinione pubblica solo quel 5% dell’azione che si è rivelata violenta, ignorando completamente il restante 95% di azione nonviolenta.

Se e’ vero però che non si può utilizzare l’esperienza palestinese come modello perché la rivoluzione nonviolenta ha diverse forme e non si ripete con gli stessi schemi, è vero altresi che non la si può semplicemente escludere, perché la lotta del popolo palestinese resta un esempio storico. Ziad e Saif presentano alcune strategie nonviolente che si attuano nella striscia di Gaza e nella West Bank. Descrivono l’interposizione come metodo di azione diretta nonviolenta, anche partecipata da internazionali. E ne spiegano l’organizzazione e l’attuazione.
Uno dei temi della sessione è l’approfondimento di alcuni concetti, perché generalmente si crea un malinteso tra azioni senza violenza e azioni nonviolente. La nonviolenza è incompatibile con la violenza. Mentre l’azione senza violenza è compatibile con la violenza. La nonviolenza è un atto, un’azione, una strategia cosciente, che può ottenere un esito positivo alla sola condizione che si dissoci dalla violenza, perché la violenza è controproducente per la strategia nonviolenta.

E così via, procede il dibattito, si approfondiscono le conoscenze reciproche. Il venerdì e’ giorno di preghiera per gli amici mussulmani e i lavori sono limitati alla mattinata, inoltre è anche la festa del riposo che coincide con i cinque giorni di pellegrinaggio alla Mecca. Gli irakeni hanno potuto camminare per le strade di Amman liberamente, andare alla Moschea, al ristorante e nei negozi, a fare tutte quelle cose che si fanno durante le feste.

Il lunedì, l’ultimo giorno, i partecipanti lavorano in gruppi per disegnare strategie nonviolente per poter concretizzare iniziative organizzative che diano continuità al processo di promozione della nonviolenza in Irak.
La plenaria propone tredici temi sui quali elaborare una strategia nonviolenta di azione, ma i partecipanti si aggregano solo su sei proposte:
1) Liberare l’Irak dall’occupazione americana (sei persone)
2) Costruire un sistema giudiziario indipendente (tre persone)
3) Rischio di arresti collettivi (tre persone)
4) La religione usata per giustificare la violenza (tre persone)
5) Unire i differenti gruppi della società irakena (tre persone)
6) La disoccupazione (cinque persone)

Più tardi, nel pomeriggio, i gruppi affrontano le problematiche per dare continuità al processo di promozione della cultura nonviolenta:
1) Organizzare una Conferenza per la creazione di una rete nonviolenta in Irak
2) Creare un sito web sulla nonviolenza
3) Stabilire un piano di educazione alla nonviolenza
4) Creare un centro di studio e formazione alla nonviolenza

L’insicurezza di certe zone dell’Irak sarà determinante per verificare la fattibilità di queste iniziative.

Certamente l’esperienza è risultata positiva e rimarchevole per tutti, in particolare per gli iraqeni, molti dei quali, sono usciti per la prima volta dal loro paese. Una dozzina di loro hanno prolungato la loro presenza per poter partecipare ad un nuovo training presso il Centro per i Diritti Umani di Amman.

Infine non si può non rilevare l’urgenza della domanda di metodologie nonviolente e di educazione ai diritti umani per poter cambiare la società contemporanea. Una tendenza della società civile che si rivela ogni giorno più transnazionale non meno che transreligiosa e che tenta timidamente di implementare la Carta dei Diritti dell’Uomo, che appartiene a tutti i popoli dell’umanità.


Hussain Z. Al-Qaisy

Io sono un fabbro, ma sono impegnato a livello volontario per l’organizzazione delle vittime delle prigioni americane in Iraak, insieme cerchiamo di restituire la fiducia, la confidenza e ogni altro tipo di sostegno di cui le vittime delle prigioni americane possano avere bisogno una volta scarcerati. Studiando le loro pratiche e le ragioni degli arresti abbiamo riscontrato che la grande maggioranza degli arrestati non sono colpevoli di alcun reato, non hanno fatto niente. Manteniamo molti contatti e abbiamo molte attività in corso, scriviamo molte lettere con richieste di aiuto, ma anche per far comprendere il nostro punto di vista di ex prigionieri, e le violazioni dei diritti dell’uomo di cui portiamo i segni sulla nostra pelle. Il nostro impegno è di mostrare le violazioni americane dei diritti dell’uomo in Irak. Ma sfortunatamente ci sono molte persone che credono che i diritti umani siano stati portati dagli americani e che sostengono così l’occupazione del nostro paese, ma è solo perché non hanno il coraggio di dire la verità. Invece a mio avviso bisogna mostrare a tutto il mondo le violazioni americane dei diritti dell’uomo in Irak.

Durante i primi giorni di agosto, mentre le forze americane occupavano l’Irak, alcuni veicoli militari si sono fermati davanti alla mia casa, un soldato è sceso e si è diretto verso il mio figlio minore che, ai tempi, aveva sei anni, e li stava gurdando dalla soglia di casa. Il soldato ci avvicinò e gli offrì una tavoletta di cioccolto, mio figlio la prese, nel frattempo eravamo usciti per vedere cosa stava succedendo, mio figlio guardò me e poi suo fratello di sedici anni, quindi guardò la barretta di cioccolato e la gettò verso il soldato che, senza dire una parola risalì sul suo veicolo e ripartì.

Il giorno seguente ritornarono, io non ero in casa, erano quattro veicoli blindati e un carroarmato, attaccarono la mia casa, quella di mio fratello e quella di mio zio. Entrarono nelle case e iniziarono a mettere tutto a soqquadro, poi dissero che eravamo terroristi, ma noi non avevamo mai avuto alcuna relazione con i terroristi. Ma questo non fu sufficiente a fermarli. Trovarono un compressore in casa mia, chiesero dov’ero e mio figlio rispose che non lo sapeva, poi dissero che il compressore serviva a comunicare via radio con i terroristi. Poi videro un mio dipinto appeso alla parete, che rappresentava l’invasione in termini simbolici, la pittura è solo un hobby per me. Chiesero ancora a mio figlio che lavoro facessi e lui rispose che ero fabbro. Allora chiesero chi aveva fatto quel quadro e quando mio figlio rispose che ero stato io, loro dissero che un fabbro non è un pittore e che lui stava mentendo. Poi trocarono della trementina per pulire i penneli e dissero che serviva a fabbricare esplosivo. Uno di loro uscì con la lattina di trementina poi rientrò con u ufficiale che restò a guadare il quadre per oltre mezz’ora. Alla fine caricarono sui loro veicoli mio figlio di sedici anni e mio fratello. Mio figlio è uscito da poco, mentre mio fratello è ancora in prigione.

Io vivo la nonviolenza attraverso le conferenze, i dibattiti con le altre persone, con gli amici, nell’impegno politico. Ho scritto molti articoli contro l’imperialismo, l’estremismo, contro i crimini di guerra. Sono per il dialogo e per un Irak riunificato. Collaboro intensamente con l’Associazione Irakena per i Diritii dell’Uomo, insieme abbiamo partecipato a molte manifestazioni contro l’occupazione, anche molto coraggiose. Abbiamo marciato insieme contro la violazione dei diritti dell’uomo in Irak e contro le prigioni americane. Abbiamo marciato per la riunificazione dell’Irak e abbiamo imparato molte cose, mentre altre ancora dobbiamo impararne, ed è per questo che siamo interessati alla nonviolenza attiva e che intendiamo praticarla.

Mi auguro di poter vivere un giorno in un Irak veramente democratico, senza razzismo, senza problemi, senza esplosioni, senza un governo filoamericano e senza l’esercito americano che occupa il nostro paese. Desidero sono la felicità per tutti gli irakeni.


Jamil H. Atia

Oggi noi dobbiamo insistere sul fatto che siamo attivi in materia di diritti umani.
Abbiamo circa duemila persone che sono state arrestate il giorno della preghiera del venerdì per aver protestato contro il governo.
Le forze americane insieme alla polizia e all’esercito irakeno si sono presentate entrando in almeno quaranta moschee nelle regioni di Schiugiaria e Chaschat. Hanno aggredito gli Imam facendoli sdraiare a terra e perquotendoli sul capo, ma non sono stati gli americani bensì gli irakeni ad umiliare gli Imam in questo modo il giorno della preghiera del venerdì. E i fedeli sono stati obbligati a guardare e non avevano neppure il diritto di fare domande. Questa tensione è durata per due mesi e le persone sono state soggette a trattamenti molto umilianti e hanno subito gravi lesioni.

Sfortunatamente io posso testimoniarvi qui, di fatti atroci, riportati dai detenuti che li hanno vissuti in prima persona. Il responsabile del penitenziario venne di notte con altre persone ubriache, portavano un’audiocassetta della cantante Basrie, in auge durante il vecchio regime, registrata durante una serata di festa. Accendono questa cassetta durante gli interrogatori facendoci ascoltare bene le parole che recitavano così; Saddam cos’hai fatto di noi … su questa strofa fermavano la cassetta ed iniziava la tortura. Molte cose sono state mostrate dalle televisioni e queste trasmissioni hanno poi creato molte polemiche su ciò che succedeva nelle carceri americane in Irak, se avevano ucciso i prigionieri sotto tortura, se avevano fatto questa o quella cosa. Ma, purtroppo, coloro che sono stati riconosciuti come responsabili di queste atrocità, e che sono stati mostrati in televisione con le foto dei loro crimini, sono oggi liberi di vivere a casa loro. Per contro ci sono prove concrete che moltissimi di coloro che erano detenuti, erano degli innocenti. Ma comunque hanno dovuto sopportare tutte queste torture. Noi abbiamo potuto filmare le ferite di coloro che sono stati liberati, le abbiamo catalogate e inviate all’attenzione del sig. Elio Tamburi, responsabile dell’Ufficio dei diritti dell’uomo presso le Nazioni Unite, e alla sig.ra Helen Boss che è responsabile del programma per i diritti umani. Ma quando la sig.ra Boss è venuta a Baghdad per discutere di questi fatti con il nostro governo, essi sono stati completamente negati. Poi si è formata una commissione d’inchiesta congiunta, dell’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite e del Ministero dell’Interno Irakeno, e quando sono stati interrogati i detenuti che erano stati torturati, non è stato più possibile negare la verità, così la commissione ha dovuto riconoscere che nelle carceri era stata praticata la tortura. Quando la commissione ha riferito sui risultati dell’inchiesta si è saputo tutto ciò che avevano passato queste persone, un vero e proprio inferno. Alcuni di loro sono poi impazziti, una volta usciti dal carcere, dove avevano perduto le loro capacità morali. Abbiamo raccolto anche molti nomi di persone che hanno riportato degli handycap permanenti.

Noi siamo aperti a lavorare con tutti, e il nostro messaggio è che siamo contro la violenza e a favore della lotta nonviolenta.


Intiha'a M. Khalaf

La Sig.ra Intiha'a M. Khalaf, è vedova da quindici anni, ha tre figli, la piu’ grande è diplomata in ragioneria, il ragazzo è all’ultimo anno di informatica, mentre la piu’ giovane sta farequentando le scuole medie.

La signora Presiede l’organizzazione delle donne Mussulmane e ci tiene a dichiarare che la sua associazione non appartiene a nessun partito politico.
Questa associazione è una specie di network al quale aderiscono anche moltissime altre associazioni piu’ piccole e, tutte insieme, lottano in favore dei diritti umani. Tra le altre, aderiscono alla rete l’associazione degli uomini savii delle diverse fedi in Irak, ci sono anche associazioni professionali, di avvocati che si occupano di diritti umani nelle carceri, un’altra è quella dei saggi che formano il consiglio dei villaggi, infine le associazioni degli Imam e degli uomini religiosi.

Dall’inizio della guerra ci dedichiamo all’aiuto delle vedove, ai bambini, ci occupiamo anche delle famiglie che hanno uno o entrambi i genitori dispersi e delle donne in attesa che sono in difficoltà perché hanno il marito in carcere, di loro ci prendiamo cura prima durante e dopo il parto, e anche in seguito, procurando abitini, latte e quant’altro. Le donne si occupano anche degli orfani, del loro abbigliamento, della loro crescita e della loro educazione. Ci occupiamo dei giovani e dei minori che assistiamo nel trovare una strada nella vita, cerchiamo di restare vicino ai nostri giovani e di facilitare le loro esperienze di studio o di lavoro, specialmente nell’artigianato e in altre attività che li tengano lontani dal pensiero della guerra. Tutte le spese per gli orfani, le madri, le famiglie sfollate e quelle bisognose, provengono dalla carità e dai contributi di irakeni di buona volontà, a volte anche le istituzioni coprono alcune spese ma la maggior parte delle donazioni proviene dalla carità dei privati cittadini. Un altro tipo di contributo ci proviene da alcuni donatori che non sono in grado di aiutarci con offerte in denaro, sono artigiani del legno, della ceramica e altri ancora che ci regalano i loro manufatti che poi noi provvediamo ad esporre e a vendere per un prezzo simbolico, coprendo così altre spese per le famiglie in difficoltà.

Dalla caduta del vecchio regime, per tutta la guerra fino ad oggi, molti bambini hanno rinunciato alla scuola, anche perché nessuno si occupa di loro. Una delle nostre attività consiste nel raccogliere questi bambini e spiegar loro che dovrebbero davvero tornare a scuola, e cosi’ li aiutiamo a riprendere gli studi.

Di quando in quando organizziamo un incontro nazionale con tutte le donne che aderiscono alla nostra organizzazione, esse vengono da tutte le zone del paese, dall’est e dall’ovest, sono di religioni diverse e di diverse città. Spieghiamo loro che dobbiamo essere unite e che non devono esserci differenze tra noi, non importa se siamo cristiane o mussulmane, se veniamo dal nord kurdo o dal sud sciita. Siamo tutte uguali, tutte siamo contenute nella mano di Dio come un solo popolo, e dobbiamo far fronte alle esigenze dei nostri impegni verso la società civile in cui viviamo.
Prima delle elezioni abbiamo organizzato uno di questi raduni nazionali in cui abbiamo spiegato alle donne che avrebbero dovuto andare a votare da sole e che, anche la loro scelta doveva essere una scelta individuale, abbiamo cercato di preparare le donne a questo evento che è una novità nella vita delle donne irakene, e di far loro capire che se non andavano a votare allora la loro voce non veniva ascoltata.

Dalla caduta del vecchio regime fino ad oggi nell’Irak in cui vivo, manca la sicurezza, ogni giorno accadono gravi tragedie, ma la realtà non è per nulla simile a ciò che si vede in televisione. Quelle sono tutte esagerazioni. I prezzi dei beni di consumo sono saliti di molto durante la guerra; Cento dollari sono pari a 148.000 dinari, un litro di benzina che costava 30 dinari oggi ne costa 150-180, una bombola di gas per cucinare, che acquistavo con 300 dinari oggi me ne costa 10.000, un kilo di carne fresca che costava 500 dinari, oggi ne costa 12.000. L’Irak e’ un paese prevalentemente agricolo, ma purtroppo la frutta e la verdura migliori vengono esportate all’estero in Giordania, Turchia, Sirya e negli altri paesi confinanti. Le autostrade sono tutte danneggiate dal traffico dei carri armati americani. Prima avevamo bei mobili e case pulite, ma oggi le fabbriche sono chiuse e operai e impiegati sono a casa disoccupati. I salari sono cresciuti a causa dell’inflazione ma restano insufficienti per la gestione famigliare.
Vorrei un Irak unito, al di là delle religioni, delle fedi e dei costumi, come un solo popolo nella mano di Dio, uniti nell’aiuto reciproco, così da poter portare l’Irak fuori da questa orribile guerra. Per ricominciare da zero, perche’ tutte le famiglie fuoriuscite a causa della guerra possano ritornare nel paese e sentire nuovamente l’Irak come un posto sicuro e gli irakeni come un popolo amico con cui vivere e insieme ricostruire la sicurezza e la pace, e vedere di nuovo sventolare la nostra bandiera e ricostruire il nostro futuro.


Fadhel A. Abdul-Aziz

Sono un membro del Partito Islamico Irakeno e dunque ho partecipato a molte attività politiche in generale, una di queste consiste nel sostenere gli ex prigionieri, soprattutto nelle loro vicende legali.

Tutti sanno che hanno assassinato El Azed, il portavoce del Partito Islamico Irakeno, lui diede vita alla nostra prima azione, organizzare un sit in davanti alla prigione di Abu Graib per sostenere i prigionieri che vi venivano torturati. Questo avvenne tra il 24 e il 29 di maggio del 2004.
Per prima cosa abbiamo parlato direttamente con gli americani, dai quali abbiamo ottenuto l’autorizzazione confermata anche da tutte le altre autorità irakene, gli americani però hanno puntualizzato che non sarebbero stati responsabili della nostra sicurezza durante il sit in.
Quindi siamo andati alla prigione ed abbiamo scelto uno spazio proprio di fronte all’entrata principale. La manifestazione si è svolta durante tre giorni, moltissimi mussulmani sono accorsi e si sono seduti in quell’area insieme a noi del partito islamico, infine il raduno è stato interrotto il venerdì per la preghiera, il terzo giorno, nonostante molti volessero prolungarlo.
Abbiamo comunque imparato molte cose da questo sit in, innazitutto che con l’insistenza si possono ottenere risultati, e poi che la stampa e le televisioni sono venute a filmarci e a intervistarci così che la nostra manifestazione ha fatto il giro del mondo attraverso i media. Anche le auto che passavano sulla strada che fiancheggia l’area in cui eravamo seduti, potevano vederci e si fermavano e chiedevano e alcuni si univano a noi.
Abbiamo anche iniziato delle trattative con gli americani e siamo riusciti ad entrare in delegazione all’interno del carcere. Infine abbiamo ottenuto una reazione positiva da parte dei prigionieri che ci hanno visto e che erano contenti del nostro sostegno. Noi gridavamo in coro e loro rispondevano.

Questa è stata la nostra prima azione diretta, ed è stata molto importante per sostenere i prigionieri. Anche gli ufficiali della guardia irakena hanno compreso che i prigionieri non sono degli animali. Durante i tre giorni del sit in hanno anche cambiato il loro atteggiamento ostile verso di noi, riponendo le armi al fianco e non tenendole in mano pronte all’uso, questa è una cosa positiva. Abbiamo così riaffermato il rispetto per l’essere umano.

In quei giorni abbiamo anche utilizzato una radio privata, c’era un programma dedicato al buongiorno alle famiglie che iniziò a parlare dei prigionieri e, attraverso la radio, abbiamo fatto passare le informazioni sui prigionieri. Nonostante le difficoltà questo programma è poi proseguito nel tempo e ancora parla dei prigionieri, ci sono molte persone che telefonano alla radio per avere notizie dei prigionieri. Credo che anche questo sia un successo ottenuto dall’iniziativa del sit in, il programma era iniziato trasmettendo per un’ora e oggi ha raddoppiato la durata delle trasmissioni.

Dopo il sit in abbiamo organizzato un nuova manifestazione; abbiamo invitato le associazioni per i diritti umani, le famiglie dei prigionieri, alcuni di loro hanno portato immagini dei prigionieri torturati e siamo andati davanti ad Abu Graib per la preghiera del venerdì. Là abbiamo deciso che il 29 luglio sarebbe stata la giornata nazionale per il sostegno dei prigionieri. Dopo la preghiera siamo andati davanti al Ministero per mostrare le foto e le nostre attività.

Abbiamo organizzato attività anche rispetto alla tragedia di Falluja, la gente del nostro partito è andata di casa in casa per distribuire un volantino che spiegava che le stragi di Falluja sono stragi di stato e che sono stati violati i diritti umani. Abbiamo chiesto alla gente di pregare per questi fratelli che hanno dovuto subire un attacco così devastante da parte delle forze straniere che occupano il nostro paese.

Ecco, nonostante tutto il suo impegno per aver organizzato le nostre attività, El Azed, il nostro portavoce è stato assassinato.


Abdulla Jabbar Mushaigi Al-Maliky

Vengo da Bassora e sono un lavoratore della compagnia petrolifera indipendente del sud Irak. L’occupazione dell’Irak fa strage di irakeni e questa tragedia copre ogni altro aspetto della vita nazionale.

La compagnia per cui lavoro è la più grande del medio oriente, io sono responsabile per la manutenzione degli impianti elettrici, ma ovviamente non è la compagnia per cui lavoro che mi ha inviato qui. Sono cofondatore dell’Unione Sindacale dei Lavoratori e il mio è un impegno personale, ed è attraverso il sindacato che si è trovato coinvolto nell’impegno per i diritti umani e nella cooperazione con le organizzazioni della socità civile che sono stato invitato a partecipare a questo seminario sulla nonviolenza.

Ciò che ho imparato in questo seminario non contraddice per nulla i metodi di lotta del sindacato a cui appartengo ne dei sindacati internazionali di cui il mio sindacato è membro. Per poter resistere all’occupazione è veramente importante costituire molte organizzazioni di base della socità civile che siano indipendenti e che seguano i metodi della nonviolenza. Il problema è che il sindacato non ha più accesso a nessun tipo di sostegno da parte del governo, non abbiamo legittimazione ne supporto legale che protegga le nostre rivendicazioni sindacali, ogni azione risulta essere un impegno messo in atto a titolo personale e come tale un rischio non tutelato dalla legge ne dall’autorità.

Il sindacato, in generale, lavora per proteggere i diritti dei lavoratori, ma oggi coloro che organizzano le dimostrazioni, lo fanno contro la distruzione e l’abbandono degli impianti della compagnia, che è una delle strategie principali per poter controllare la compagnia, spingendola nel settore privato che è dominato dagli interessi stranieri, essendo il petrolio uno dei settori più importanti dell’economia irakena. Quindi la nostra strategia di lotta è volta a contrastare la privatizzazione della compagnia. Oggi le esportazioni non superano il milione e mezzo/due milioni di barili al giorno, per questo stiamo lavorando a tutte le vecchie strutture per renderle operative e potere così aumentare la produzione. Continuamente chiediamo al governo e ad altre istituzioni di sostenerci in questo sforzo di ristrutturare gli impianti della compagnia, ma non otteniamo alcuna risposta. Così ci organizziamo da soli, cercando di migliorare il funzionamento degli impianti, ci organizziamo anche per la protezione degli stessi, continuando a ricostruire e ristrutturare la capacità di produzione degli impianti, facciamo questo anche in cooperazione con personale locale che non è direttamente coinvolto nella compagnia o con i sindacati. Percepiamo la compagnia come una nostra risorsa nazionale e facciamo di tutto per non lasciarla andare alla deriva in balia degli interessi stranieri in Irak.

La prima cosa che mi auguro per l’Irak è che sia finalmente libero dall’occupazione. Poi mi auguro che gli irakeni riescano a controllare la loro vita politica attraverso l’autodeterminazione. Mi auguro anche che ci possano essere relazioni pacifiche e costruttive di cooperazione tra l’Irak e le altre nazioni, specialmente con l’Europa. Infine mi auguro che le organizzazioni della società civile possano moltiplicarsi e possano avere un ruolo più costruttivo nel futuro dell’Irak.

Grazie per l’intervista.


Ahmed H. Al-Samrai

Il mio nome è Ahmed Al Samrai, sono il coordinatore del Centro Larsa per i diritti umani a Samarra, nel nord dell’Irak. Sono anche uno dei trainers irakeni dell’Associazione degli avvocati per i diritti umani, ho fatto con loro diversi training sul tema dei diritti umani. Siamo venuti ad Amman per partecipare a questo seminario sulla nonviolenza e credo che sia stata un’utile esperienza da cui trarrò benefici per il mio impegno in nel futuro prossimo.

In questo tempo, in Irak, sono tutti in attesa per il futuro, perchè il presente è sopraffatto dalla guerra, dai bombardamenti, dalle stragi e dai suicidi che si fanno saltare per aria. La gente è molto stanca e provata, c’è qualcosa di sbagliato in Irak, e nessuno ascolta il buon senso della gente comune. La gente vorrebbe fare qualcosa per riguadagnare la libertà e l’indipendenza dell’Irak, ma abbiamo bisogno di pace e di libertà, non si può fare niente in questo momento a causa della guerra che non trova neppure un giorno di tregua e continua a nutrire lo stillicidio di esplosioni di stragi quotidiane e distruzione. I terroristi vengono da fuori, dall’Iran, dalla Siria e da molti paesi intorno all’Irak, vengono per combattere l’esercito americano e intanto muoiono gli irakeni, la situazione sta diventando insostenibile.

Noi speriamo di poter fare qualcosa, speriamo di riuscire a parlare di pace agli irakeni, di spiegar loro come ci percepiscono i nostri vicini, credo che quando tornerò a Samarra dirò alla mia gente che ci sono molte persone nel mondo che vogliono sapere come viviamo, molti che piangono quando sentono delle stragi quotidiane e della distruzione del nostro paese.

Dopo ciò che ho appreso durante questo seminario, credo che possiamo e dobbiamo fare qualcosa per migliorare la nostra situazione.

Per il nostro futuro non ci auguriamo null’altro che la pace.


Akram Mhmad Abood

Io lavoro con i media di Nassirija, produco programmi per le televisioni irakene e scrivo sui giornali irakeni dell’Irak meridionale, scrivo anche per alcune testate su internet, vorrei riuscire a fare programmi in arabo anche per le televisioni internazionali.

In passato ho vissuto in Austria per tre anni, lavoravo in una radio libera di Vienna, un’esperienza che mi ha formato come giornalista e quando sono tornato in Irak ho potuto lavorare per le radio e le televisioni di Nassirija.

Oggi in Irak abbiamo la libertà di stampa, possiamo parlare di ogni cosa, non come durante il vecchio regime, e la situazione può ancora migliorare incrementando la nostra partecipazione a training, seminari e workshop all’estero, dove possiamo acquisire nuove tecniche e conoscere nuovi metodi per migliorare il nostro sistema mediatico e organizzativo. Il mese scorso ho partecipato ad un workshop organizzato dalle forze italiane a Roma, e ho avuto l’occasione di vedere le bellezze artistiche dell’antica città.

Durante il vecchio regime non c’era libertà di stampa, si poteva leggere un solo quotidiano, quello del regime, oggi ci sono trenta quotidiani. Prima potevamo vedere solo la televisione di stato, oggi a Nassirija abbiamo anche due reti private.

A Nassirija abbiamo ottimi contatti con le forze italiane e con le organizzazioni italiane che si occupano di progetti di cooperazione. Le forze italiane cooperano con la nostra municipalità, organizzano progetti e in generale cercano di aiutare a migliorare la vita della nostra gente.


Molti dei miei colleghi e amici vi hanno presentato le loro esperienze, le loro difficoltà e le loro sofferenze, io vorrei trasmettervi l’esperienza di persone che non soffrono per la colonizzazione. Vorrei dire che non ci sono forze coloniali nella città di Nassirija. Le Forze Italiane sono insediate lontano dalla città e per entrare in città devono prima dialogare con le forze politiche della municipalità. Io sono membro del Consiglio Municipale e ho partecipato ai negoziati per interdire l’ingresso delle Forze Italiane in città. Tuttavia anche a Nassirija soffriamo della violenza esercitata dalla politica di Bush che dice di essere venuto in Irak a portare la democrazia.

Dopo la caduta del vecchio regime alcuni hanno imbracciato i fucili e hanno saccheggiato dei magazzini alimentari a Nassirija, i propietari sono stati imprigionati, abbiamo le immagini che documentano irakeni che si scontrano con altri irakeni e li torturano orribilmente. A quell’epoca ero un giornalista militante e cercavo, con il mio impegno, di far fronte ad ogni aspetto della violenza, così, insieme ai miei colleghi, dopo aver raccolto immagini e testimonianze di questo brutto episodio di violenza, abbiamo optato per la divulgazione di tutta la documentazione raccolta sulle pagine del nostro quotidiano Al Mada, abbiamo così pubblicato una dura condanna di queste forze violente irakene che avevano torturato i propietari dei magazzini alimentari. A causa di ciò siamo stati minacciati, e siamo anche stati interrogati dalla polizia, ma dopo aver spiegato le nostre motivazioni ci hanno presentato le loro scuse ma ci hanno anche chiesto di fermare la campagna mediatica che aveva montato lo scandalo, ed era stata ripresa anche da altri giornali del paese ottenendo molta attenzione presso i lettori. Abbiamo quindi fermato la nostra campagna di informazione e i propietrai dei magazzini hanno ripreso il loro lavoro.

Ci fu anche una campagna per bruciare le sedi dei partiti politici in Irak come, ad esempio, quella del Partito Comunista Irakeno, che è avversato da tutti i partiti politici irakeni così come da tutte le forze nazionalistiche. Io non ho mai fatto parte di alcun partito politico, ma ho avuto modo di divulgare le informazioni su ciò che stava accadendo, anche su internet e presso tutti i media stranieri, e così le forze di polizia si sono finalmente mosse per fermare il saccheggio delle sedi dei partiti politici.

Agli avvocati qui presenti dico che vogliamo una polizia che protegga la legge e rispetti i cittadini, non che bruci le sedi dei partiti perché qualcuno ha perso un seggio al Parlamento e non può più beneficiarne.

Dopo aver partecipato a queste esperienze credo che i media siano lo strumento migliore per divulgare la protesta ottenendo risultati apprezzabili. Sono molto felice di aver potuto partecipare a questo training, anche perché ho avuto l’occasione di parlare della mia città Nassirija.

La città di Nassirija era un tempo l’antica città di Uhr che vide i natali di Abramo. E’ una città molto importante dal punto di vista storico, inoltre il fiume Eufrate che l’attraversa la rende bellissima. Per il futuro mi auguro che in un Irak libero e pacificato molti visitatori possano venire a Nassirija ad ammirare la nostra bella città.


Suliman Y. Abaas

Sono un avvocato impegnato con la società civile su base volontaria. Dopo l’occupazione dell’Irak mi sono concentrato maggiormente sulle istanze pubbliche della gente comune e nel settore dei diritti umani e civili.

Così ho cominciato a pensare quale potesse essere la via migliore per far sentire la mia voce e quella della gente comune al mondo intero. Ho scelto l’uso di internet come veicolo per far giungere al mondo la voce degli irakeni, poi ho preparato una strategia e un programma per raggiungere gli obbiettivi che mi ero prefisso. Desideravo, per prima cosa, di narrare la storia e le tradizioni della mia città natale, perché ogni essere umano è il prodotto dell’ambiente che lo circonda. La mia città è Mosul nell’Irak settentrionale, e vorrei parlarvi della storia e delle tradizioni dei suoi nomadi che affondano le loro radici in seimila anni di storia di diverse culture. Il Re assiro Bannibar fondò a Mosul la più grande biblioteca del mondo. In quel tempo l’Impero Assiro si estendeva dallo sheikkato del Bahrein, nel sud del Golfo, fino ai monti dell’anantolia, nell’odierna Turchia. Si può dividere la storia dell’Impero Assiro in tre parti; la prima, quella mediana e la terza, l’età dell’oro per gli assiri fu quella mediana. C’erano anche tre capitali; Mosul, Nambrut e Orsibad. Nella città di Mosul si praticano ancora molte anriche religioni, una di queste è l’ebraismo, ma si pratica anche il cristianesimo e, naturalmente, l’Islam. Tra i diversi credenti esiste comunque una pacifica coesistenza. Le storiche Siangoghe di Mosul sono frequentate liberamente ancora oggi, nonstante che, nel 1948, la maggioranza degli ebrei sia emigrata in Israele. Pacificamente e per libera scelta, nessuno li forzò ad andarsene, perché da sempre esiste questa pacifica tolleranza tra i fedeli delle tre religioni monoteiste. Oltre ad altre religioni praticate liberamente, esistono a Mosul altrettante etnie diverse, kurdi e turkomanni, arabi e assiri ecc … Spiegando la storia e le tradizioni della città di Mosul desidero offrire una visione d’insieme del popolo irakeno che è stato influenzato da moltissime tradizioni culturali diverse, che hanno fatto degli irakeni un popolo consapevole delle diverse ideologie, aperto alle modernità, moderato e capace di conoscere il mondo intorno e di interagirvi in modo politico.

Attraverso l’uso di internet ho iniziato a contattare anche diverse organizzazioni per divulgare le informazioni su come i diritti della nostra gente siano stati violati dalla barbarica occupazione americana che ha portato in Irak distruzione e morte, e anche per divulgare il significato delle brutali violazioni e degli scandali che hanno caratterizzato l’occupazione americana.

Ho scritto una lettera a George Bush, chiedendo che inviasse membri del congresso a vedere di persona e a indagare su come sono gestite le prigioni dai soldati americani, e di come, questi soldati, trattino la popolazione irakena in generale, dentro e fuori dalle prigioni. Inoltre ho invitato il Presidente degli Stati Uniti ad investigare sul Governo irakeno messo in piedi dalle forze degli occupanti. Ho anche scritto degli effetti di questa guerra violenta e brutale che si scatena anche sui bambini irakeni e di come l’assedio dell’Irak abbia causato sofferenze, tragedie e distruzione.

Prima di venire a questo seminario ero già impegnato nella pratica nonviolenta perché questa è la maniera in cui ho impostato la mia strategia di comunicazione attraverso interenet. Ho anche partecipato a forum di discussione elettronica, cercando di far crescere la consapevlezza delle sofferenze a cui è oggi sottoposto il popolo irakeno. In questo modo pacifico e nonviolento, basandomi sulle nostre antiche tradizioni, ho cercato di resistere all’occupazione e di attivare un dialogo interculturale con il mondo occidentale, perché credo che sia importante instaurare un dialogo comune per ricercare quelle risorse umane superiori che conducano alla conoscenza e alla tolleranza reciproca.

Dopo l’occupazione, una delle attività nonviolente che ho iniziato a praticare è di scrivere alle forze di occupazione. Durante i primi giorni dell’occupazione mi sono recato personalmente al comando delle forze americane, mettendo le mie mani irakene nelle loro mani americane e scambiando la bandiera irakena con quella americana.

Un giorno andai a presentare domanda per ricostruire la scuola dove mio figlio aveva studiato, che era stata completamente distrutta dall’invasione. Proposi al Comandante delle truppe per la zona di Mosul di creare un’associazione per incrementare l’amicizia irakeno americana, che potesse ottenere donazioni per ricostruire la scuola distrutta attrezzandola con computer nuovi e tutti quegli accessori che si trovano nelle scuole moderne. Ma egli rispose che se sarebbero andati da li ad un anno e che allora avrei potuto fare tutto ciò che avrei voluto.

Un altro giorno la resistenza irakena abbattè due aerei americani vicino Mosul, su uno di questi aerei c’erano diciotto soldati che stavano rientrando negli Stati Uniti alla fine del loro servizio. Uno degli aerei si schiantò sulla casa di mia sorella ma, nonstante ci fossero molte persone in casa in quel momento, grazie a Dio nessuno morì ne riportò alcuna ferita, mentre i giovani americani morirono tutti. Uno degli ufficiali del Comando Americano venne a fare un sopraluogo e io trasmisi a lui le mie condoglianze e quelle della mia famiglia per la morte dei suoi soldati.

La notte dell11 novembre 2003, i mussulmani ricevettero l’informazione che la resistenza avrebbe attaccato Mosul con lo scopo di annientare la polizia per poi invadere la città, saccheggiarla e prenderne il controllo. Così tutte le stazioni di polizia vennero attaccate dalla resistenza e per questo furono presto abbandonate, lasciando così la città senza nessuno che si occupasse della sicurezza cosicché chiunque poteva commettere ogni sorta di crimine senza correre alcun rischio. Così quella notte mi attaccai al telefono e allertai tutti i mussulmani di Mosul informandoli della minaccia che incombeva sulla nostra città, informai anche altre organizzazioni irakene e inglesi, sempre usando un soprannome per tutelare, in parte, la mia sicurezza. Fu così che la sensibilità e la mentalità della popolazione mussulmana di Mosul rese capace i miei concittadini di respingere la resistenza impedendogli di prendere il controllo della città, evitando inutili stragi e distruzioni e dimostrandosi capace di governare bene anche in assenza delle forze dell’ordine e della municipalità.

Per poter continuare la mia resistenza nonviolenta voglio rimanere fuori da ogni partito politico e non desidero neppure ottenere posizioni di governo, perché voglio rimanere libero e aperto a tutte le opzioni, disponibile al dialogo con tutte le etnie, per poter continuare ad esprimere liberamente, come un semplice essere umano, le mie opinioni a tutti coloro che desiderano ascoltarmi, senza chiusure o pregiudizi ideologici. Perché credo nel dialogo e credo che la via del dialogo sia la sola che conduca alla pace.

Auguro al mio Irak le stesse cose che anche voi augurate al vostro paese e ai vostri figli, pace e stabilità. Di convivere pacificamente in questo mondo alla pari con tutte le altre nazioni.

Non ci sono ragioni per fare la guerra, perché chi vince subisce comunque delle perdite, mentre chi perde perde sempre il doppio. Questa logica della guerra è semplicemente sbagliata.


Majid Th. E. Al Zohaire

Sono il direttore dell’Associazione Religiosa dei seguaci di Giovanni Battista. Sono anche cofondatore del Comitato per le Minoranze in Irak. Ho accettato l’invito di partecipare a questo seminario perché sono interessato a creare una organizzazione specializzata nelle tecniche della resistenza nonviolenta. Ne ho appena parlato con il sig. Jean Marie Muller per ottenere da lui suggerimenti basati sulla sua esperienza personale e lui mi ha consigliato di intitolare la nostra nuova organizzazione a Gandhi. Attraverso questa nuova organizzazione cercheremo di rafforzare la solidarietà verso le minoranze in Irak e di sostenere progetti e azioni caratterizzate dalla nonviolenza.

Le minoranze sono consapevoli dell’importanza della nonviolenza e ne conoscono il significato; innanzitutto perché le loro regole religiose e spirituali proibiscono l’uso della violenza, inoltre perché essendo minoranze, ovviamente, non avrebbero alcun modo di vincere un eventuale confronto violento con la maggioranza degli irakeni.

Il Comitato per le minoranze di cui sono direttore si occupa dei diritti umani e in particolare degli sfollati che sono stati obbligati ad abbandonare i loro villaggi natii per altre zone dell’Irak. Il Comitato si occupa anche di riunire le minoranze e di creare una più vasta consapevolezza nazionale sui problemi delle minoranze che oggi sono molto sparse e divise su tutto il territorio nazionale. Abbiamo già organizzato numerose conferenze sul problema delle minoranze, la prossima la faremo a Malmoo in Danimarca, poi ce ne sarà un’altra in Canada, queste conferenze sono sostenute e promosse dalle Nazioni Unite.

La maggioranza dei membri di queste minoranze sono nativi dell’Irak e devono attenersi alle leggi che li riguardano direttamente. Con il termine “nativi” si intendono le antiche etnie persiane e le altre etnie a cui noi stessi apparteniamo come seguaci di Giovanni Battista, e non al moderno ceppo arabo a cui appartengono la maggioranza degli irakeni contemporanei.

Sono molti gli ambiti della comunità politica e sociale irakena che sostengono il nostro lavoro per la conservazione delle minoranze, dei loro usi e dei loro costumi. Ciònonostante tutte le minoranze in Irak soffrono perché la moderna società irakena non riconosce le loro antiche tradizioni, ne le loro origini etniche. Molto spesso le minoranze hanno tradizioni che si rifanno alle loro origini ancestrali, ormai pressoché scomparse, e che sono totalmente difformi da quelle contemporanee degli irakeni di ceppo arabo, i quali non hanno nulla a che fare che le tradizioni delle origini.

A esempio; una cerimonia rituale che proviene da queste antiche tradizioni, prevede lo strangolamento della persona che si trova in punto di morte, per favorire l’uscita dello spirito dal corpo. Sulla base di queste antiche tradizioni essi vengono emarginati e discriminati all’interno della società irakena contemporanea. Prima, durante il vecchio regime tutte le minoranze subirono molte perdite a causa di queste discriminazioni, ma oggi la gente inizia ad avere la consapevolezza che esse sono semplicemente parte del contesto nazionale irakeno. Inoltre molte persone emarginate dal vecchio regime si sono rifugiate nei paesi confinanti come la Giordania, la Siria e altri paesi dove hanno cercato di sopravvivere conservando le loro tradizioni originarie. Naturalmente nelle costiituzioni di questi paesi non trovano alcun diritto che li tuteli e, in quanto minoranze, non sono neppure in grado da far valere i loro diritti acquisiti. Nell’Irak settentrionale i Kurdi discriminano i cristiani, così come altre minoranze etniche e religiose come gli Hasidim o gli Shabak, ma i seguaci di Giovanni Battista sono più discriminati degli altri perché vivono nell’Irak meridionale dove subiscono molte violazioni dei loro diritti.

Per esprimere un auspicio sul futuro dell’Irak, dovrei ritornare indietro alla mia infanzia, ma posso anche riassumere in questo modo; vorrei rivedere un Irak bello come allora e vivere di nuovo in un Irak stabile con la pace nelle strade come qui ad Amman. Auspico inoltre che tutti gli esseri umani possano vivere una nuova stagione di pace in un Irak senza occupazione, senza discriminazioni e senza interferenze nella vita privata delle famiglie, in modo che ognuno possa crescere i prpri filgi come preferisce.

Le minoranze sono uno dei contributi più importanti alla memoria della storia irakena perché esse rappresentano le altiche etnie e gli antichi padri del paese.


Ruweena Diaa Saker

Mi chiamo Ruina, lavoro nel campo della sicurezza degli impianti e delle strutture per la produzione del petrolio presso il Ministero dell’Energia Irakeno.

Sono una cristiana della Chiesa Caldea di Bassora, appartengo a quella che fino a ieri era una delle minoranze religiose più numerose in Irak, purtroppo a causa della guerra e delle discriminazioni, di cui i cristiani irakeni soffrono, moltissimi sono coloro che scelgono di emigrare all’estero e il loro numero è in continua crescita. Non bisogna però fraintendere sul termine “discriminazione” perché i mussulmani non ci sono nemici e noi cristiani caldei siamo comunque ben integrati nella società irakena. La ragione che stà alla base della scelta di molti di noi di emigrare è motivata dalla difficoltà del vivere, che diventa ogni giorno più pressante. Sono apparentemente piccole cose della vita quotidiana, ma per nulla irrilevanti, ad esempio, per ragioni di sicurezza, le donne non possono indossare i pantaloni ne andare per strada senza il velo, come in qualsiasi altro paese cristiano, o tollerante della cristianità, non siamo per nulla liberi di essere completamente noi stessi. Se a questo aggiungete i pericoli della guerra, le continue stragi e l’incertezza del domani, diventa più facile capire le ragioni che spingono molti di noi verso paesi stranieri.

Lavoro come volontaria presso la mia Chiesa, dove organizziamo diversi corsi di ogni tipo. Così ho pensato che sarebbe stato utile fare questa esperienza sulla nonviolenza e sono venuta a questo training per poi poterne organizzare altri per i giovani che frequentano la mia Chiesa, a cui trasmettere il significato di nonviolenza e come si la si possa applicare alla vita quotidiana.

Ho moltissimi desideri a proposito dell’Irak che vorrei e non saprei da dove cominciare, ma il mio augurio principale è che l’Irak ritorni presto ad essere un posto sicuro in cui vivere per tutti gli esseri umani.


Amera H. Abdulla

Sono cofondatrice dell’Unione delle donne del Kurdistan irakeno, dove rivesto l’incarico di rappresentante legale. La nostra associazione è attiva dal 1994 e si occupa in generale di aiutare le persone povere e bisognose. La nostra organizzazione non dipende da partiti politici ne dal governo ma è indipendente e pratica l’autofinanziamento. In partcolare lavoriamo con donne e bambini di famiglie povere, ci battiamo contro lo sfruttamento e siamo attivi anche nel campo economico. Ad esempio monitoriamo per un certo periodo un gruppo di donne che hanno capacità di produrre manufatti di tipo artigianale e artistico, poi organizziamo un gruppo e le mettiamo in grado di lavorare insieme e diventare produttive, e continuiamo a sostenere la loro produzione fino a quando non riescono a raggiungere l’indipendenza economica. Abbiamo maturato molta esperienza in questo tipo di progetti, e siamo riuscite anche ad addestrare e organizzare altre associazioni simili alla nostra. Abbiamo sedi a Kirkuk e Suleimania ma non ad Hirbil, nonostante siamo state invitate da una organizzazione internazionale, le autorità di Hirbil ci hanno impedito di aprire la nostra sede nella loro città preferendo a noi un'altra associazione kurda di tipo governativo. La nostra Presidentessa è stata richiesta dalle Nazioni Unite come trainer nel campo dei diritti umani.

Il territorio del kurdistan irakeno è diviso in due piccole regioni separate che rispondono a due diversi governi autonomi, uno con sede a Suleimania e l’altro con sede a Hirbil. Il leader del nostro governo di Suleimania era Jelal Talabani, l’attuale Presidente dell’Irak.

Dopo il fallimento della rivoluzione kurda, nel 1974, causato dalla cospirazione organizzata dal regime di Saddam Hussein, l’ex tiranno iniziò a cambiare il volto etnico della regione favorendo l’immigrazione di genti arabe provenienti dalle diverse zone dell’Irak. Costruendo per loro nuovi edifici nella zona di Kirkuk, dove i nuovi immigrati potevano vivere molto confortevolmente. Mentre i kurdi venivano obbligati ad allontanarsi dalle loro zone di origine.

Dovete sapere che l’area intorno a Kirkuk è ricca di petrolio. Dopo il 1991, il kurdistan venne boicottato dal vecchio regime, che proibiva gli scambi, il lavoro e in generale lo svolgersi corretto dell’economia. Inoltre, nonostante le forze angloamericane che pattugliavano i cieli del Kurdistan avessero interdetto l’accesso alle forze di Saddam Hussein, egli continuò ad espellere la maggioranza dei membri della comunità kurda di Kirkuk che si trova nella parte meridionale del Kurdistan irakeno. Proibendo ai kurdi di possedere propietà immobiliari, impedendo loro di trovare lavoro e maltrattandoli in ogni modo. Oltre a tutto questo, kurdi, cristiani, turkomanni e Hasidini, nativi e residenti a Kirkuk che, nonostante tutto, volessero restare a Kirkuk erano obbligati a cambiare etnia di appartenenza e a diventare arabi. Nello stesso anno Kirkuk insieme ad altre città vicine si separarono dal Kurdistan irakeno perché vennero considerate città arabe a tutti gli effetti.

In seguito il vecchio regime iniziò a boicottare il Kurdistan impedendo gli scambi economici con l’Irak. Tuttavia, nonostante le famiglie kurde fossero in grande difficoltà e potessero praticare scambi economici solo attraverso la frontiera con l’Iran, o con la Turchia, il popolo kurdo elesse i propri rappresentanti e mise in piedi un’amministrazione autonoma, anche se non riusciva neppure a pagare gli stipendi ai suoi dipendenti. Sapete che il Kurdistan è circondato da montagne coperte di foreste, in quegli anni, la popolazione dovette ricorrere alla deforestazione per poter provvedere al proprio riscaldamento. Quindi elessero un Parlamento indipendente ed un Governo locale che governava l’intera regione da Hirbil, vicino al confine Turco, che ne divenne la capitale, a Suleimania vicino al confine Iraniano. Ma ancora una volta Saddam riuscì ad infiltarare degli agenti provocatori che alimentarono un conflitto interno. Alla fine, nonostante l’interdizione ad entrare in Kurdistan Saddam riuscì ugualmente a separare in due parti il territorio kurdo, approfittando delle differenze politiche tra i due partiti principali che avevano fondato un unico Parlamento indipendente e che governavano il paese. Riuscì a mettere gli uni contro gli altri creando un problema militare fra le due parti che sfociò in un conflitto aperto che si risolse con la divisione del paese.

Così siamo rimasti divisi dal 1996 fino al 2001, quando la pressione del popolo kurdo fu così forte da porre fine al conflitto armato che aveva portato alla divisione del paese. La gente fu molto coraggiosa e radicale nella propria convinzione di poter riunificare il paese, la stampa appoggiò la campagna nonviolenta del popolo kurdo, delegittimando sui giornali quei leaders che avrebbero voluto continuare ad alimentare il conflitto.

Subito dopo la caduta del vecchio regime dei Talebani in Afghanistan, molti estremisti islamici, terroristi e gruppi di sbandati respinti dall’offensiva americana si rifugiarono in Kurdistan, entrarono nella regione di Suleimania attraverso l’Iran e, insieme a milizie armate inviate da Saddam, presero il controllo del confine iraniano, aggravando ancora di più la situazione della popolazione che dipendeva per la sopravvivenza da quell’unica frontiera. Per tutto questo tempo il popolo kurdo è vissuto sotto le minacce permanenti provenienti dalla frontiera turca, da quella iraniana, dai terroristi afghani e dalla milizie di Saddam che li sostennero fino a poghi giorni prima della caduta del tiranno e del suo regime. Impedendo alla popolazione kurda di vivere una vita normale. Ma nonostante queste pressioni armate, il popolo kurdo cosciente della situazione oggettiva, delle proprie ragioni e delle proprie aspirazioni, è riuscito a resistere in modo nonviolento a tutti i suoi nemici e dopo la caduta di Saddam si sono costuituiti venticinque nuovi partiti politici che affiancano i due partiti principali e che oggi partecipano al governo della regione autonoma kurda.

Dopo la caduta del vecchio regime e l’arrivo delle forze americane è stata firmata un’alleanza con le forze americane e con il nuovo esercito irakeno. Quest’alleanza ha permesso di respingere i terroristi afghani che ancora controllavano le frontiere del kurdistan e che si rifugiarono nel sud dell’Irak. Oggi, dopo tanta sofferenza, tanta lotta e tantissime vittime abbiamo conquistato un poco di libertà riuscendo a liberarci dalle milizie straniere e possiamo dire che il popolo kurdo ha collaborato attivamente a far cadere il regime tirannico di Saddam Hussein ed è per questo che consideriamo gli americani come una forza di liberazione dell’Irak.

In seguito a questi eventi tumultuosi e ad una nuova forte pressione popolare si procedette a creare una nuova allenaza fra i due partiti che erano stati spinti al conflitto, per iniziare una riconciliazione come primo passo verso una riunificazione delle due piccole regioni del Kurdistan che facevano capo a Hirbil e Suleimania. Voi sapete che i kurdi hanno partecipato alle elezioni politiche irakene, ma nonostante le promesse fatte in campagna elettorale dai candidati dei due pricipali partiti kurdi, persistono ancora oggi due diverse amministrazioni del territorio kurdo.

Oggi il Presidente dell’Irak è Jalal Talabani, leader del partito kurdo che ha la maggiornaza a Suleimania, ed egli ha scelto il kurdistan per organizzare una conferenza nazionale per la riconciliazione tra tutte le comunità irakene. In effetti però egli ha agito dimenticando i problemi del suo popolo e occupandosi esclusivamente dell’Irak. Promuovendo la riconciliazione tra i diversi partiti irakeni salvo i partiti kurdi, accettando il punto di vista di altre forze politiche irakene, come gli arabi suniti irakeni che riconoscono il suo impegno, perché nonostante si siano rifiutati di partecipare alle elezioni politiche irakene hanno comunque ottenuto dei seggi al Parlamento grazie all’intervento del Presidente Talabani che voleva reintegrarli nella vita politica del paese. Purtroppo questa strategia del Presidente Talabani non è ben vista dal popolo kurdo che per tanti anni ha dovuto soffrire a causa degli arabi sunniti che sostenevano il vecchio regime e che hanno avuto un ruolo dominante nell’oppressione del popolo kurdo. Inoltre non bisogna dimenticare che Talabani, durante la caduta del vecchio regime, permise ai rappresentanti dell’opposizione in fuga da Saddam di rifugiarsi nella nostra regione.

Oggi il Presidente Talabani ha costruito due solide alleanze, una con gli americani che hanno liberato l’Irak e l’altra con gli sciiti che sono la maggioranza nel paese, ma sembra aver dimenticato la storia del suo popolo, offrendo seggi a questi sunniti. Inoltre persiste un problema tra tra kurdi sunniti e arabi sunniti, laddove i kurdi accusano gli arabi di aver sostenuto il vecchio regime e gli arabi accusano i kurdi di essersi alleati con gli sciiti. Noi ci siamo alleati con gli sciiti perché anche loro hanno subito la brutale prressione del vecchio regime.

Jelal talabani ha promosso la riconciliazione fra le comunità irakene, ma nonostante egli sia un laico e non sia seguace di alcuna religione, nel percorso per la scrittura della nuova costituzione ha scrificato alcuni diritti già acquisiti dal popolo kurdo, ad esempio i diritti delle donne. E’ vero che lo ha fatto per conciliare le esigenze delle altre forze costituenti, ma non bisogna dimenticare che il popolo irakeno è formato da molte comunità diverse e questa costituzione non piace a molti irakeni. Esiste anche la questione del sistema confederativo promosso da Talebani, al quale però gli arabi sunniti si oppongono a causa dei conflitti del passato. Noi kurdi siamo gli unici che abbiamo governato una regione autonoma in Irak, e nonostante ciò siamo stati capaci di realizzare un’alleanza con altre comunità irakene. La costituzione offere due scelte, l’autodeterminazione e l’autonomia regionale in un contesto confederativo, noi abbiamo scelto il sistema confederato, ma gli arabi sunniti ci accusano di voler dividere il paese. Non dimentichiamo che le nostre istituzioni sono già insediate e operative, abbiamo un Parlamento, dei Ministeri e un Consiglio dei Ministri. Abbiamo un progetto di riunificazione delle due amministrazioni e quindi restiamo in attesa di vedere che cosa offrirà in futuro la costituzione. Inoltre vogliamo verificare come saremo rappresentati nel nuovo Parlamento nazionale.

Mi auguro che l’occupazione dell’Irak possa aver termine al più presto e che possa nascere un governo federale che riunisca i governi delle diverse regioni dell’Irak, e che ci sia una vera alternanza al potere.


Khudhair J. Kadhum

Sono uno sciita seguace dell’Imam Ali Sadr.
Fino ad oggi, i miei figli sono sempre stati esposti alla violenza.
Sono laureato in informatica e sono responsabile di una delle scuole superiori di scienze economiche.

Non rappresento nessuna organizzazione ufficiale, appartengo al movimento dei seguaci dell’Imam Ali Sadr che è stato un grande religioso sciita. Mi considero un rappresentante della gente comune, quella che popola le strade irakene, che lavora e vive nell’anonimato.

Non ho esperienze precedenti in questo tipo di conferenze e di gruppi di lavoro ma ne sono entusiasta perché sono sempre stato attratto dall’umanità e dall’insegnamento nonviolento di Ali Sadr, di cui, nel tempo sono divenuto un seguace.

Nel 1981, mio padre si ammalò a causa delle medicine donategli dalle forze di sicurezza, ancora oggi soffre di una malattia cronica. All’inizio della dittatutra del vecchio regime, tre dei miei cugini furono arrestati in casa nostra, quindi passati per le armi. Io sono sempre stato a favore della nonviolenza perché vivevo immerso nel concetto di nonviolenza.

La nonviolenza e’ cominciata a Karbala, dopo l’assassinio di Ali Sadr, è per questo che sono cresciuto in una società nonviolenta, certo ci sono state diverse tappe nell’evoluzione del concetto di nonviolenza. La prima di queste è iniziata dopo la rivoluzione di Sharnania, la vita cambiò totalmente dopo questa rivoluzione e dopo l’ingiusta repressione delle persone, ho visto personalmente i cadaveri nelle moschee, voi non potete immaginare ciò che ho visto, bambini e donne straziati al suolo. Ed è stato in questa tappa durante il governo del vecchio regime che abbiamo perso la fiducia in Saddam, abbiamo visto i nostri martiri insieme all’Imam Ali Sadr donare la loro vita, non solo per gli sciiti ma per l’intera umanità. Il nostro Imam Ali Sadr, prima di morire, ci ha insegnato l’ideologia della nonviolenza.

Nel tempo abbiamo fatto molte marce, per esempio a Karbala manifestando per la situazione oggettiva ed abbiamo proseguito questo cammino nonostante ci accusassero di essere un partito politico. Ma fino ad allora io non facevo parte di nessuna formazione politica. Poi sono stato arrestato con il pretesto di avere insultato il Presidente della Repubblica. Nel 1985 mi hanno espulso dall’Università e, nello stesso anno, mi hanno espulso anche dalla biblioteca dell’Imam dell’Emiro, poi mi hanno arrestato di nuovo, è stato umiliante perché, come sapete, nelle prigioni perquotono e torturano i prigionieri.

All’inizio, durante i giorni della caduta del regime eravamo contenti, non per la colonizzazione ma per la scomparsa del regime che era divenuto intollerabile. Poi siamo venuti a vivere a Baghdad, perché al sud molti erano stati assassinati solo perché avevano perso i documenti d’identità, sono stati uccisi a migliaia, uomini e donne, a Samarra, una famiglia di sette persone è stata sterminata solo perché erano fuori di casa e vennero accusati di appartenere ad una “setta”.

Malgrado tutto questo il nostro metodo di lotta è rimasto fedele alla nonviolenza, ancora oggi procediamo per un cammino pacifico. Noi rifiutiamo le etichette legate alla nostra appartenenza religiosa. Il terrorismo nel quale vivono oggi tutti gli irakeni è stato conosciuto anche da altri paesi sia pure con modalità diverse a seconda delle situazioni. Non sono d’accordo con coloro che dicono che il terrorismo viene legittimato dall’esistenza delle forze della colonizzazione, credo che il clima in cui viviamo sia il frutto della violazione dei diritti umani a cui, naturalmente, si aggiunge la perdita dei benefici di coloro che si sono arricchiti all’ombra di Saddam Hussein, così come dei paesi stranieri che sono stati danneggiati nei loro interessi intrecciati con il vecchio regime.

A coloro che ci dicono di essere venuti per liberarci dalla dittatura, noi rispondiamo che non abbiamo bisogno di colonizzatori, perché siamo in grado di lavorare con la comunità internazionale in modo pacifico.

Il movimento di Ali Sadr è iniziato in modo molto semplice; voi forse non sapete che di solito l’Imam si siede su di uno scranno di legno intarsiato e decorato per fare la predica ai credenti dopo la preghiera del venerdì. Invece Ali Sadr iniziò le sue predicazioni sedendosi su di un sedile di legno grezzo molto semplice e senza decorazioni, questo fatto riuscì ad avvicinarlo ai fedeli che lo sentivano più vicino e simile a loro. In questo modo egli si guadagnò l’attenzione della gente attorno a lui, in qualche modo li accese, durante i venerdì di preghiera.

Se Gandhi iniziò ad illuminare la sua gente con la marcia del sale, si potrebbe dire che Ali Sadr iniziò ad illuminare i suoi fedeli con un grezzo sedile di legno. Egli era capace di entrare in sintonia con tutti i suoi fedeli, elevandoli ad un più alto livello spirituale, ed elevando così l’intera società in cui viveva ad un più profondo stato di coscienza. Nelle sue prediche, si concentrava principalmente sui problemi dei giovani e delle donne, perché cercava di construire un nuovo futuro per loro.

Uno degli insegnamenti che ho ricevuto da Ali Sadr, dice che ogni essere umano arde come una candela nell’intento di illuminare e accendere l’intera società, mescolando la propria personalità alla vita degli altri esserei umani che gli vivono intorno. Questo ardere per illuminare l’intera società è un dono dello Spirito che proviene esclusivamente dall’amore per Dio. Questo insegnamento religioso, questo flusso dello Spirito, questo movimento, è grande, e si occupa di molte attività umane, ma viene condotto solamente per contribuire alla ricerca del miglioramento della vita umana nella società. Nessuno trae dal prprio impegno nel movimento alcun vantaggio personale, materiale o mondano, perché è tutto basato sul volontariato. Ed è tutto esclusivamente lavoro onorabile. Molte persone hanno sacrificato se stesse come martiri per proteggere la libertà degli altri di continuare a credere e ad impegnarsi, e l’hanno fatto solo per l’amore di Dio. Non esistono registri che ricordino chi si impegna nelle numerose attività del movimento. Non esistono condizioni ne obblighi religiosi per appartenere a questo movimento e far parte del flusso di spiritualità che lo guida. Ho imparato da Ali Sadr che ogni cosa che fai la fai per l’amore che nutri per il tuo prossimo, non la fai mai per te stesso e questa è la motivazione che sta alla base di tutte le nostre azioni.

Ma questa grande grazia spirituale che influenzava così intensamente i suoi fedeli era al tempo stesso una grave minaccia per il tiranno Saddam Hussein, e fu a causa del crescente potere che esercitava sulla popolazione che venne assassinato per ordine del tiranno.

Il movimento dei seguaci di Ali Sadr e un movimento giovane, ma la tradizione da cui prende vita è molto antica, proviene direttamente dall’insegnamento del Profeta e procede da un Imam all’altro fino ai giorni nostri. Questo movimento è riconosciuto come l’unico movimento spirituale all’interno della società irakena, ma anche a livello internazionale è capace di riunificare grandi gruppi di credenti e anche etnie e ideologie politiche.

Purtroppo attualmente l’Irak è prostrato e la vita che vi si svolge è molto molto difficile, nonostante ciò il flusso delle predicazioni di Ali Sadr ha influenzato enormemente la vita dei giovani irakeni, egli è stato capace di cambiare in un solo anno le false ideologie che da cent’anni logoravano la società irakena. Egli è stato capace di interpretare ancor meglio la modernità, predicando ai giovani il flusso delle idee e delle virtù ispirate dallaspiritualità, convincendoli che queste idee e queste virtù li avrebbero condotti ad un Irak migliore. Nonstante la situazione del nostro paese non sia mai stata peggiore di oggi, le predicazioni di Ali Sadr offrono una speranza all’Irak di diventare un posto migliore. Perché i giovani sono tutt’ora influenzati dalla sua grande spiritualità e seguono le sue idee trovandovi quelle potenzialità che devono solo essere esercitate per migliorare la loro vita.

Io mi sento un’irakeno prima di essere parte di questo flusso spirituale, perché la nostra identità proviene prima dalle nostre radici e poi dalla nostra appartenenza religiosa, in qunato se non ci fosse l’Irak non ci potrebbe essere neppure questo movimento, perché esso è nato in Irak e ne fa parte a pieno tiutolo. Questo movimento è molto aperto e si sforza di affermare la libertà delle persone ed è tollerante verso le genti che appartengono ad altre religioni e sono queste ragioni che rendono questo movimento così speciale. Uno dei grandi sostenitori del movimento sciita di Ali sadr è la minoranza cristiana della Chiesa Caldea. Le faccio un esempio; A causa dell’attuale situazione di aggressività contro le minoranze cristiane e di altre religioni, perché purtroppo non esiste tolleranza oggi in Irak, i cristiani irakeni hanno la necessità di proteggere le loro chiese specialmente durante le funzioni di Pasqua e di Natale quando c’e’ un gran flusso di fedeli. Per risolvere questo problema di sicurezza, il Vescovo di una diocesi del sud ha preferito chiamare i seguaci di Ali Sadr per proteggere le chiese, piuttosto che la polizia di stato irakena. Dimostrando così di avere più fiducia nella buona volontà degli sciiti e nella loro onestà. Questo accade oggi in Irak, la gente di Ali Sadr protegge le chiese nel sud dell’Irak.

Mi auguro che il popolo irakeno ritorni presto all’umanità e le sue genti si riuniscano di nuovo come un unico popolo. Che possano trovare nuovamente il loro posto nel mondo, come un sol popolo riunito nella spiritualità e nell’amore di Dio grande e misericordioso.


Ibrahim M. Metlak

Vi racconterò un aneddoto, una persona voleva fare una petizione ad un “giusto”, ma non sappeva scrivere, così si rivolse ad un avvocato che la redigesse per suo conto. Così l’avvocato la scrisse e mentre la rileggeva, colui che voleva presentare la petizione iniziò a piangere perché non sapeva che gli fosse capitato tutto ciò che l’avvocato stava leggendo, ma le cose scritte così bene dall’avvocato erano vere e facevano piangere e anche il “giusto” pianse nell’ascoltarle.

Ma noi non lavoriamo su questa materia, non lavoriamo neppure con la società civile, ne lavoriamo con la nonviolenza, quest’ultima è una tappa che ci viene imposta, un’esperienza che dobbiamo fare, e grazie al buon Dio che ha permesso all’uomo di adattarsi all’ambiente in cui vive, malgrado le difficoltà.

C’è stata un’elite di persone che ha formato il Fronte del dialogo nazionale. E c’è un Fronte che ha fatto del suo meglio per radunare le diverse tendenze del popolo irakeno, questo Fronte è entrato nella vita politica attraverso il dialogo, promuovendo il dialogo nazionale. Si è costituita una commissione costituzionale che ha lavorato alla redazione della costituzione irakena. Ma la costituzione non può essere l’autrice delle speranze del popolo.

Il Fronte ha anche partecipato alle elezioni legislative e il risultato non è stato quello auspicato. Noi abbiamo partecipato a manifestazioni pacifiste, ai sit in contro la costituzione, così come a manifestazioni pacifiche contro i protagonisti del processo elettorale e abbiamo ottenuto una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite che indaghi sul processo costituente, sulla presentazione del sistema proporzionale e sulle liste dei candidati. Perché gli elettori non hanno il diritto di scegliere il nome di un candidato, ma sono obbligati a scegliere il numero di una lista di candidati, così che devono conoscere tutti gli iscritti nella lista per poter fare una scelta ponderata e non cieca.

Allora mi sono impegnato personalmente con uno studio approfondito di questi temi, per poter rimarcare che questi metodi e queste scelte non erano democratici, perché ogni elettore deve esercitare il diritto di scegliere il proprio candidato, non può scegliere un numero senza conoscere il nome del candidato, senza conoscere il suo potenziale politico e quant’altro definisca l’identità del candidato. Così ho completato questo studio e l’ho inviato ai rappresentanti attivi di ogni partito politico irakeno. Ho inviato il mio studio anche a degli amici che sono in relazione con il parlamento, spiegando loro che l’Alta Commissione per le Elezioni non riuscirà a svolgere il suo compito come dovrebbe.

Seppi che dopo la colonizzazione, le forze coloniali avevano cambiato gli accordi amministrativi nelle municipalità dei paesi, allora continuai gli studi, consultando uomini di diritto specializzati sull’Irak e facendo insieme a loro studi congiunti.

Un altro esempio di abuso è quando la coalizione ha formato una commissione per riformare la legislazione irakena, e questa commissione ha licenziato o rinviato a giudizio moltissimi casi giudiziari in Irak. Inoltre, centocinquanta giudici irakeni sono stati licenziati senza ragioni evidenti e legittime, ma non era legale farlo. Così ho contribuito a formare una commissione formata da quei giudici che erano stati licenziati dal loro incarico, e dopo aver verificato che le forze coloniali non potevano intervenire nella nostra legislazione e non potevano licenziare i giudici che erano in carica prima dell’inizio della colonizzazione, ci siamo appellati alle quattro convenzioni di Ginevra.

Mi sono anche impegnato a produrre un’approfondimento sulla prima stesura della costituzione, che fu pubblicato un mese e mezzo prima della versione finale. In questo studio, abbiamo preso in considerazione ogni articolo e ogni clausola, ne abbiamo realizzato una versione di base dimostrando che il regime federale, così chiamato dalla costituzione non è chiaro se sia in realtà una federazione, una confederazione o una semplice unione fra stati. Cioè non è chiara la sua forma giuridica, così noi, nella nostra versione di base, abbiamo utilizzato la forma giuridica della confederazione.

Inoltre ci sono persone che hanno rifiutato l’articolo 39, secondo il quale il codice di famiglia andrebbe rivisto in modo da raggiungere una ripartizione etnica. Queste sono cose che toccano da vicino la società civile irakena. Molti sono rimasti attoniti anche sulla questione della nazionalità irakena, perché l’Irak è sempre stato un paese che ha cercato di preservare la nazionalità dei suoi cittadini. Ma nella nuova costituzione risulta essere irakeno solo colui che ha genitori irakeni, in questo modo il costituzionalista ha tracciato un solco tra coloro che hanno la nazionalità per nascita e coloro che la acquisiscono, perché chiunque ha il diritto di cambiare la sua nazionalità.

Abbiamo pubblicato molti degli studi prodotti da me e dai miei colleghi del Fronte per il dialogo sul giornale Al Sabbah, così come sul Forum del Dialogo Moderno e anche presso la Commissione per i diritti umani. Attualmente lavoro insieme alle Nazioni Unite per rivedere tutte le leggi promulgate dopo il 1968 fino all’inizio della colonizzazione, per vedere dove emendare e dove risanare.

Io lavoro per poter condividere un paese che rispetti la legge.


FINE


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