Breve Bio - Bibliografia tratta da La Nonviolenza è in Cammino
Rebecca Solnit Biography From Wikipedia, the free encyclopedia
Make room for Rebecca Solnit, California's newest cultural historian
By Heidi Benson




Storia del camminare
di Rebecca Solnit

prefazione di Franco La Cecla,
traduzione di Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini.


Bruno Mondadori, Milano, 2002
(ed. originale: Wanderlust. A History of Walking, 2000)


Tratto da www.tecalibri.it

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Introduzione. Ripercorrere un promontorio
Da dove si comincia? I muscoli si tendono. Una gamba e' il pilastro che sostiene il corpo eretto tra cielo e terra. L'altra, un pendolo che oscilla da dietro. Il tallone tocca terra. Tutto il peso del corpo rolla in avanti sull'avampiede. L'alluce prende il largo, ed ecco, il peso del corpo, in delicato equilibrio, si sposta di nuovo. Le gambe si danno il cambio. Si parte con un passo, poi un altro e un altro ancora che, sommandosi come lievi colpi su un tamburo, formano un ritmo: il ritmo del camminare. La cosa piu' ovvia e piu' oscura del mondo e' questo camminare, che si smarrisce cosi' facilmente nella religione, la filosofia, il paesaggio, la politica urbana, l'anatomia, l'allegoria e il crepacuore.
La storia del camminare e' una storia non scritta, segreta, i cui frammenti si possono rintracciare con parole semplici in migliaia di passi di libri come anche di canzoni, nelle strade e in quasi tutte le avventure di ciascuno di noi. La storia corporea del camminare e' quella dell'evoluzione del bipedismo e dell'anatomia umana. Per la maggior parte del tempo camminare e' un atto puramente pratico, il mezzo locomotorio inconsapevole tra due luoghi. Trasformarlo in un'indagine, un rituale, una meditazione, e' farne un particolare sottoinsieme del camminare, fisiologicamente simile, ma filosoficamente dissimile, al modo in cui il postino porta la posta e l'impiegato prende il treno. Il che vuol dire che la materia del camminare riguarda, in un certo senso, il modo in cui attribuiamo significati particolari ad atti universali. Come il mangiare o il respirare, cosi' il camminare puo' essere investito di significati culturali completamente diversi, da quelli erotici a quelli spirituali, da quelli sovversivi a quelli artistici. E' qui che questa sua storia comincia a fare parte della storia dell'immaginazione e della cultura, e della storia dei generi di piacere, di liberta' e di significato che vengono perseguiti in tempi diversi da differenti tipi di camminate e di camminatori. L'immaginazione ha modellato gli spazi che attraversa, e da questi e' stata a sua volta modellata. Il camminare ha creato sentieri, strade, rotte commerciali; ha generato concezioni di spazio locali e transcontinentali; ha conformato citta', parchi; prodotto mappe, guide, attrezzature e, ancora, una vasta biblioteca di racconti e di poemi che ci parlano di camminate, pellegrinaggi, spedizioni alpinistiche, vagabondaggi, e anche di picnic estivi. I paesaggi, urbani e rurali, sono gestatori di racconti, e i racconti ci riportano ai luoghi di questa storia.
Questa storia del camminare e' una storia amatoriale, proprio come un atto amatoriale e' andare a piedi. Per usare una sua metafora, essa invade e percorre campi altrui - l'anatomia, l'antropologia, l'architettura, il giardinaggio, la geografia, la storia politica e culturale, la letteratura, la sessualita', gli studi religiosi - e nel suo lungo tragitto non si arresta in alcuno di essi. Perche', se un campo di competenza puo' essere immaginato come un terreno reale - un confine esattamente rettangolare dissodato con cura e producente un determinato raccolto - allora la materia del camminare assomiglia al camminare stesso nella sua mancanza di confini. E sebbene la storia del camminare, in quanto appartenente a tutti questi campi e all'esperienza di ciascuno di noi, sia virtualmente infinita, la mia storia del camminare puo' essere solo parziale, un cammino idiosincratico tracciato attraverso tutti questi campi da un viandante che si guarda attorno e ritorna piu' volte sui propri passi. Nelle pagine che seguono ho cercato di ricalcare i cammini che hanno condotto la maggior parte di noi nel mio paese, gli Stati Uniti, nel momento attuale; e' una storia composta in larga misura su fonti europee, riflessa e sovvertita dalla scala immensamente varia dello spazio americano, dai secoli di adattamento e di mutazione in questo paese, e dalle altre tradizioni che in tempi recenti si sono incontrate con questi cammini, in modo rilevante le tradizioni asiatiche. La storia del camminare e' la storia di ciascuno di noi, e ogni sua versione scritta puo' solo sperare di indicare alcuni dei sentieri piu' calpestati nelle vicinanze di chi la scrive, vale a dire che i sentieri che ho tracciato non sono gli unici cammini.
Un giorno di primavera mi sedetti a scrivere del camminare e poi mi rimisi in piedi, perche' la scrivania non e' un luogo in cui si possa pensare su vasta scala. In un promontorio subito a nord del Golden Gate Bridge, costellato di fortificazioni militari abbandonate, uscii a fare una passeggiata su per una valle e lungo un crinale, e poi giu' fino al Pacifico. La primavera era arrivata dopo un inverno insolitamente umido e le colline erano diventate di quel verde sfrenato ed esuberante che dimentico e riscopro ogni anno. Attraverso l'erba novella sporgeva quella dell'anno precedente, che la pioggia aveva scolorito dall'oro estivo al grigio cenere, uno spicchio della tavolozza piu' tenue del resto dell'anno. Henry David Thoreau, che cammino' piu' vigorosamente di me all'altro capo del continente, scriveva dei suoi dintorni: "Una prospettiva assolutamente nuova rappresenta una grande felicita', che puo' venire colta in un qualsiasi pomeriggio. Due o tre ore di camminata mi possono condurre nel luogo piu' straordinario che mi sia mai accaduto di ammirare. Una fattoria isolata, mai vista prima, puo' avere lo stesso fascino dei domini del Re del Dahomey. Ed effettivamente e' possibile scoprire una sorta di armonia tra le risorse di un paesaggio entro un raggio di dieci miglia, o i limiti di una passeggiata pomeridiana, e i settant'anni della vita umana. Ne' gli uni ne' gli altri vi diverranno mai troppo familiari".
Queste strade e questi sentieri congiunti formano un circuito di circa sei miglia, che cominciai a percorrere a piedi dieci anni fa per fare svaporare, camminando, l'ansia di un anno difficile. Continuavo a ripercorrere questo itinerario per concedere una tregua al lavoro, ma anche per alimentarlo, perche', in una cultura orientata alla produzione, pensare e' generalmente concepito come fare niente, e il fare niente e' difficile da fare. La via migliore per realizzarlo e' di mascherarlo nel "fare qualcosa", e cio' che piu' si avvicina al fare niente e' il camminare. Camminare in se' e' l'atto volontario piu' vicino ai ritmi involontari del corpo: il respiro e il battito del cuore. Stabilisce un delicato equilibrio tra il lavorare e l'oziare, tra il fare e l'essere. E' una fatica fisica che produce nient'altro che pensieri, esperienze, arrivi. Dopo tutti questi anni di camminate per elaborare altre cose, aveva un senso tornare a lavorare vicino a casa - il senso indicato da Thoreau - e li' riflettere sul camminare.
Camminare e', idealmente, uno stato in cui la mente, il corpo e il mondo sono allineati come se fossero tre personaggi che finiscono per dialogare tra loro, tre note che improvvisamente formano un accordo. Camminare ci permette di essere nel nostro corpo e nel mondo senza esserne sopraffatti. Ci lascia liberi di pensare senza perderci totalmente nei pensieri. Non sapevo con precisione se ero troppo in anticipo o troppo in ritardo per il lupino purpureo che in questi promontori puo' essere cosi' spettacolare, ma le milkmaids (o Stellarie holostee) crescevano sul lato in ombra della strada che portava al sentiero, e mi ricordavano i pendii della mia infanzia che fiorivano per primi ogni anno con un prodigo sbocciare di questi fiori bianchi. Nere farfalle mi svolazzavano attorno, sospinte dal vento e dal battito delle ali, e mi rimandavano a un'altra epoca del mio passato. Muoversi a piedi sembra rendere piu' facile muoversi nel tempo; la mente vaga dai progetti ai ricordi e alle osservazioni.
Il ritmo del passo genera una specie di ritmo del pensiero, e il tragitto attraverso un paesaggio echeggia o stimola il tragitto attraverso un corso di pensieri. Il che crea tra percorso interno e percorso esterno una strana consonanza che suggerisce come la mente sia essa stessa un paesaggio di generi e che il camminare sia un mezzo per attraversarlo. Un pensiero nuovo somiglia spesso a un aspetto del paesaggio sempre esistito, come se pensare fosse viaggiare invece che fare. Pertanto, un aspetto della storia del camminare e' la storia del pensare concretizzata, perche' i moti della mente non possono essere tracciati, mentre quelli dei piedi sono riconoscibili. Possiamo immaginare il camminare anche come un'attivita' visiva, ogni passeggiata un viaggio in cui ci concediamo sufficiente agio per vedere e per riflettere sulle vedute, per assimilare il nuovo al noto. E' da qui, forse, che nasce per i pensatori la peculiare utilita' del camminare. Le sorprese, gli affrancamenti e le chiarificazioni del viaggio possono talvolta essere spigolati facendo il giro dell'isolato come anche del mondo, viaggiando a piedi vicino e lontano. O forse il camminare dovrebbe essere chiamato movimento, non viaggio, perche' si puo' camminare in cerchio o viaggiare attraverso il mondo immobilizzati su una sedia, e una certa smania di vagabondaggio puo' essere lenita solo dagli atti del corpo in moto, non gia' dal movimento dell'automobile, della barca o dell'aeroplano. Potremmo dire che e' il movimento, come anche le vedute che scorrono davanti ai nostri occhi, a fare accadere le cose nella nostra mente, ed e' questo che rende il camminare ambiguo e infinitamente fertile: e' il mezzo e il fine, e' il viaggio e la meta.
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Il moltiplicarsi delle tecnologie in nome dell'efficienza, consentendo di massimizzare il tempo e lo spazio della produzione e di minimizzare il tempo non strutturato del viaggio tra i due, sta di fatto sradicando il tempo libero. Nuove tecnologie salvatempo rendono piu' produttiva la gran parte dei lavoratori, ma non piu' libera in un mondo che sembra muoversi piu' veloce attorno a loro. Inoltre, la retorica dell'efficienza che circonda tali tecnologie suggerisce che tutto cio' che non puo' essere quantificato non puo' nemmeno essere valutato, che l'ampia gamma di piaceri che rientra nella categoria del far niente di particolare, del distrarsi, del fantasticare, del vagabondare e del guardare le vetrine, non e' che un vuoto da riempire con qualcosa di piu' definito, piu' produttivo o piu' veloce. Persino nell'itinerario su questo promontorio che non conduce in alcun luogo utile, su questo cammino che puo' essere percorso solo per diletto, la gente ha tracciato scorciatoie tra i tornanti, come se l'efficienza fosse un'abitudine di cui non ci si puo' liberare. L'indeterminatezza di un'escursione senza meta, in cui c'e' molto da scoprire, viene sostituita dalla distanza definita piu' breve da coprire alla maggiore velocita' possibile, e anche dalle trasmissioni elettroniche che restringono la necessita' del viaggio reale. Facendo parte della categoria dei lavoratori indipendenti, il cui tempo economizzato dalla tecnologia puo' essere colmato di vagabondaggi e di sogni a occhi aperti, so che queste cose hanno una loro utilita', e io stessa le utilizzo (un camioncino, un computer, un modem), ma temo al tempo stesso la loro falsa urgenza, il richiamo alla velocita', l'istanza che il viaggio sia meno importante dell'arrivo. A me piace camminare perche' e' lento, e sospetto che la mente, come i piedi, possa lavorare alla velocita' di circa tre miglia all'ora. Se cosi' fosse, allora la vita moderna si muove piu' rapidamente della velocita' del pensiero, o della riflessione.
Il camminare riguarda l'essere all'aperto, in un luogo pubblico, e anche nelle citta' piu' antiche lo spazio pubblico e' abbandonato ed eroso, eclissato dalle tecnologie e dai servizi che non ci chiedono di uscire di casa, e in molti luoghi e' oscurato dalla paura (i luoghi sconosciuti incutono sempre piu' timore di quelli noti, cosi' che, meno si vaga per la grande citta', piu' essa ci appare allarmante, e la' dove vi sono meno passanti, le vie diventano effettivamente piu' solitarie e pericolose). Intanto, in molte localita' recenti, lo spazio pubblico non e' nemmeno programmato: quello che un tempo era spazio pubblico ora e' destinato a dare accoglienza e protezione alle automobili, i centri commerciali sostituiscono le vie principali, le strade non hanno marciapiede; negli edifici si entra dal garage; i municipi non hanno una piazza; e ovunque muri, barriere, cancelli. La paura ha generato uno stile di architettura e di disegno urbano, specialmente nella California meridionale, dove essere un pedone in molte ripartizioni e "comunita'" cintate, vuol dire essere una persona sospetta. Contemporaneamente, il terreno rurale e le periferie un tempo invitanti delle piccole citta' sono stati inghiottiti da lottizzazioni destinate ai pendolari dell'automobile o altrimenti sequestrati. In alcuni luoghi non e' piu' possibile uscire in pubblico, una crisi sia delle epifanie private del passante solitario, sia delle funzioni democratiche dello spazio pubblico. Era a questa frammentazione di vite e di paesaggi che resistevamo tempo fa negli spazi dilatati del deserto che, per l'occasione, diventavano pubblici come piazze urbane.
E quando lo spazio pubblico scompare, altrettanto avviene del corpo visto, secondo la felice espressione di Sono, come mezzo adeguato per portarci in giro. Sono e io parlavamo della scoperta che i nostri dintorni - tra i piu' temuti della Bay Area - non sono poi cosi' ostili (anche se non tanto sicuri da farci dimenticare del tutto una certa prudenza). Sono stata minacciata e derubata per strada, tempo fa, ma migliaia di volte mi sono imbattuta in amici di passaggio, in una vetrina che esponeva un libro a lungo cercato, in complimenti e saluti dei miei loquaci vicini, in gioielli architettonici, in manifesti per eventi musicali e in ironici commenti politici scritti sui muri e sui pali del telefono, in indovini, nella luna che spuntava tra gli edifici, in brevi visioni di vite e di case altrui, e in alberi di strada chiassosi del cinguettio degli uccelli. L'aleatorio, il non riparato, ci permette di trovare quello che non si sa di cercare, e non si conosce un luogo finche' questo non ci sorprende. Muoversi a piedi e' un modo per conservare un baluardo contro questa erosione della mente, del corpo, del paesaggio e della citta', e ogni persona che cammina e' una guardia di pattuglia a protezione dell'ineffabile.
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La sorpresa ci venne allora dal serpente, un serpente giarrettiera, cosi' chiamato per le strisce giallognole che gli corrono lungo tutto il corpo nero, un animale minuscolo e affascinante che si contorceva ondeggiando attraverso il sentiero ed entrava poi nel terreno erboso al suo lato. Piu' che allarmarmi mi rese vigile. Improvvisamente mi scossi dai miei pensieri e notai quello che mi circondava: gli amenti dei salici, lo sciabordio dell'acqua, i disegni frondosi delle ombre sul sentiero. E poi me stessa, che camminavo con l'allineamento che viene solo dopo miglia, il ritmo diagonale sciolto delle braccia che oscillano in sincronia con le gambe in un corpo che si sente allungato e disteso, quasi altrettanto sinuoso quanto quello del serpente. Il mio circuito era quasi concluso, e al suo termine conoscevo il mio soggetto e il modo di affrontarlo che mi era ancora sconosciuto solo sei miglia prima. Vi ero arrivata non in un'improvvisa epifania, ma con graduale certezza, un senso di significato affine a un senso di luogo. Quando ci concediamo ai luoghi, essi ci restituiscono a noi stessi e, piu' arriviamo a conoscerli, piu' vi seminiamo l'invisibile messe delle memorie e delle associazioni che saranno li' ad aspettarci quando vi ritorneremo, mentre luoghi nuovi ci offriranno pensieri nuovi e nuove opportunita'. Esplorare il mondo e' uno dei modi migliori per indagare la mente, e il camminare percorre entrambi i terreni.
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La poetessa Marianne Moore ha coniato un'immagine felice: "rospi veri in giardini immaginari"; il labirinto ci offre la possibilita' di essere creature reali in uno spazio simbolico. Camminando pensavo a una fiaba infantile, e i libri per bambini che amavo di piu' erano pieni di personaggi che cadevano dentro i libri, di illustrazioni che diventavano vere, di passeggiate in giardini in cui le statue prendevano vita e la cosa piu' meravigliosa era che si poteva passare dall'altra parte dello specchio (e incontrare pezzi degli scacchi, fiori e animali vivi e capricciosi). Quei libri facevano pensare che la linea di demarcazione tra la realta' e la rappresentazione non sia netta e che la magia si manifesti quando si attraversa quella linea. In uno spazio come quello del labirinto la linea viene attraversata: si viaggia davvero, ma la destinazione e' puramente simbolica. E' un registro completamente diverso dal semplice pensiero di un viaggio che si vorrebbe fare o dall'osservazione delle immagini del posto in cui si vorrebbe andare. Perche', in questo contesto, la realta' e' solamente cio' che abitiamo con il corpo. Il labirinto e' un viaggio simbolico o una mappa della via della salvezza, ma poiche' si tratta di una mappa su cui si puo' camminare realmente, la differenza tra la mappa e il mondo sbiadisce. Se il corpo e' il registro della realta', leggere con i piedi e' reale in un modo in cui leggere solo con gli occhi non lo e'. E qualche volta la mappa e' il territorio.
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Come le stazioni della Croce, il labirinto e il dedalo offrono storie in cui possiamo camminare per dimorarvi con il corpo, storie che seguiamo con i piedi come con gli occhi. Si puo' vedere una somiglianza non solo tra queste due strutture simboliche, ma anche tra ogni percorso e ogni storia. Almeno in parte, la caratteristica che rende le strade, le piste e i sentieri unici in quanto strutture costruite e' che un osservatore sedentario non li puo' percepire immediatamente nella loro interezza. Essi si dipanano nel tempo a mano a mano che li si percorre, esattamente come una storia si dipana a mano a mano che la si ascolta o la si legge, e una curva secca corrisponde a uno scarto nella trama; una salita ripida alla costruzione della suspense fino al panorama che si apre in cima; un bivio all'introduzione di una nuova linea narrativa e l'arrivo alla fine del racconto. Come la scrittura consente la lettura delle parole di chi non c'e', le strade consentono di seguire l'itinerario di chi e' assente. Le strade sono racconti di coloro che le hanno percorse prima e seguirle significa seguire persone che non ci sono piu' (non piu' santi o dei, ma pastori, cacciatori, ingegneri, emigranti, contadini diretti al mercato o semplici pendolari). Strutture simboliche come i labirinti richiamano l'attenzione sulla natura di tutti i sentieri, di tutti i viaggi.
Questo e' cio' che si nasconde dietro il rapporto peculiare che lega il racconto al viaggio, ed e' forse per questo che la scrittura narrativa e' collegata cosi' strettamente con il camminare. Scrivere significa scavare nella fantasia un sentiero nuovo o indicare configurazioni nuove in un itinerario noto. Leggere vuol dire viaggiare su quello stesso terreno con la guida dell'autore, con il quale si puo' anche non essere sempre d'accordo o nel quale si puo' anche non avere fiducia, ma su cui si puo' contare almeno perche' ci porti da qualche parte. Ho spesso desiderato di scrivere le mie frasi su una sola riga che si perda nella distanza in modo che si capisse chiaramente che una frase somiglia a una strada e che leggere vuol dire viaggiare (una volta feci un po' di calcoli e scoprii che se il testo di uno dei miei libri, invece di essere impaginato, fosse stato composto in una sola riga formata da tutte le parole e arrotolato come un filo su un rocchetto, avrebbe coperto uno spazio di quattro miglia). Forse i rotoli cinesi, che bisogna srotolare per poterli leggere, conservano almeno in parte questo senso. Le linee di canto degli aborigeni australiani sono gli esempi piu' famosi di fusione di paesaggio e narrazione. Le linee di canto sono strumenti di navigazione nel deserto profondo, mentre il paesaggio e' un dispositivo mnemonico per ricordare le storie: in altre parole, la storia e' la mappa, il paesaggio la narrazione.
Le storie dunque sono viaggi e i viaggi sono storie. E' perche' immaginiamo la vita come un viaggio che queste camminate simboliche, e in realta' tutte le camminate, hanno tanta risonanza. E' difficile immaginare l'opera dell'intelletto e dello spirito, come e' difficile immaginare la natura del tempo; per questo tendiamo a metaforizzare tutti gli oggetti intangibili come oggetti fisici collocati nello spazio. In questo modo il nostro rapporto con essi diventa fisico e spaziale: ci muoviamo verso di essi o ci allontaniamo da essi. E se il tempo e' diventato spazio, lo scorrere del tempo che costituisce un'esistenza diventa anch'esso un viaggio, che ci si muova molto o poco attraverso lo spazio. Camminare e viaggiare sono diventati metafore cosi' centrali del pensiero e della parola che quasi non ce ne accorgiamo.
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Come l'intelletto e il tempo, la memoria e' inimmaginabile senza dimensioni fisiche; immaginarla come un luogo fisico vuol dire inserirla in un paesaggio in cui sono collocati i suoi contenuti, e cio' che ha una collocazione puo' essere avvicinato.
Questo significa che, se si immagina la memoria come uno spazio reale - una piazza, un teatro, una biblioteca - l'atto del ricordare viene immaginato come un atto reale, cioe' un atto fisico: come camminare. Gli studiosi sottolineano sempre in modo particolare il dispositivo del palazzo immaginario, in cui le informazioni sono collocate stanza per stanza, oggetto per oggetto, ma per recuperare le immagini immagazzinate bisognava camminare attraverso le stanze come quando si visita un museo, ricollocando gli oggetti nella coscienza. Ripercorrere lo stesso itinerario puo' voler dire ripensare gli stessi pensieri, come se in realta' pensieri e idee fossero oggetti collocati in un paesaggio che basta conoscere per poterci viaggiare. In questo modo camminare e' leggere, anche quando camminare e leggere sono immaginari, e il paesaggio della memoria diventa un testo stabile quanto quello che si trova in un giardino, in un labirinto o nelle stazioni della Croce. Ma se il libro, in quanto deposito di informazioni, ha messo in ombra il palazzo della memoria, ne ha pero' conservato in parte il modello. In altre parole, se ci sono passeggiate che somigliano a libri, ci sono anche libri che somigliano a passeggiate e utilizzano l'attivita' "leggente" del camminare per descrivere un mondo. L'esempio piu' alto e' la Divina commedia di Dante, in cui l'autore, guidato da Virgilio, esplora i tre regni dell'anima dopo la morte. E' il resoconto di un viaggio ultraterreno sui generis, che si muove diligentemente tra visioni e personaggi, conservando sempre l'andatura di un giro turistico. La sua geografia e' talmente particolareggiata che molte edizioni riportano cartine, tanto che Yates ha avanzato l'ipotesi che, in realta', il capolavoro fosse un palazzo della memoria sui generis. Come molte altre storie precedenti e successive, e' un racconto di viaggio in cui il movimento della narrazione e' riecheggiato dal movimento dei personaggi in un paesaggio immaginario.
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Come i labirinti e altre strutture edificate, le montagne svolgono la funzione di spazi metaforici e simbolici. Non esiste equivalente geografico piu' chiaro dell'idea dell'arrivo e del trionfo della vetta piu' alta oltre la quale non c'e' altro luogo in cui andare (anche se nell'Himalaya molti pellegrini girano intorno alle montagne perche' credono che salire in vetta sia sacrilego). Dopo avere conquistato il Cervino, Edward Whymper, uno scalatore vittoriano atleticamente molto dotato e mosso da una grande ambizione, disse: "Piu' in alto non c'e' nulla da vedere; sta tutto sotto", con un'efficace mistura di linguaggio letterale e figurato. "In un certo senso, la' in cima ci si trova nella condizione di chi ha realizzato tutti i desideri e non ha piu' nulla cui aspirare". Puo' darsi anche che il fascino delle ascensioni sulle vette montane sia dovuto a una serie di metafore linguistiche. L'inglese e varie altre lingue associano l'altitudine, l'ascesa e l'altezza al potere, alla virtu' e allo stato sociale. Percio' si dice essere sulla cima del mondo o nel punto piu' elevato nel proprio campo professionale, essere al culmine delle proprie capacita', essere in ascesa; si dice esperienza di punta e l'apice della carriera, ergersi nel mondo e avanzare verso l'alto, per non parlare di arrampicatori sociali, di mobilita' verso l'alto, di santi dotati di sentimenti elevati e di bassa plebaglia e, ovviamente, di classi alte e basse. Nella cosmologia cristiana il paradiso e' in alto e l'inferno in basso, e Dante rappresenta il Purgatorio come una montagna a forma di cono su cui il poeta si arrampica a fatica fondendo il viaggio spirituale con il viaggio geografico (e la scalata inizia attraverso un passaggio che oggi gli scalatori chiamerebbero camino: "Noi salivam per entro 'l sasso rotto, / e d'ogne lato ne stringea lo stremo, / e piedi e man volea il suol di sotto"). Una camminata in salita attraversa questi territori metafisici; una passeggiata senza meta per la stessa montagna si muove invece attraverso una metafisica del tutto diversa.
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Esistevano altre organizzazioni alle quali i giovani potevano aderire: gruppi religiosi e il Movimento protestante giovanile e, dopo il 1909, una versione tedesca dei Boy Scout, mentre i giovani delle classi lavoratrici potevano entrare a far parte dei circoli giovanili comunisti e socialisti. I Boy Scout, come il Wandervogel e tanti altri aspetti della storia del camminare, sollevano un problema: quando camminare si trasforma in marciare? Quasi tutti i circoli escursionistici erano gruppi intesi a celebrare e proteggere l'esperienza individuale e privata; ma alcuni abbracciarono l'autoritarismo. Marciare subordina al gruppo e all'autorita' il ritmo proprio dei singoli corpi e ogni gruppo che marcia, marcia verso il militarismo, quando non ci e' gia' arrivato. Il movimento scout nacque dall'adattamento delle idee di sir Baden-Powell, veterano della guerra dei boeri, e di quelle che lo stesso Baden-Powell plagio' dall'anglo-canadese Ernest Thompson Seton. L'intento di Seton era di introdurre i giovani alla vita all'aria aperta, con un'accentuazione particolare sulle competenze e sui valori dei nativi americani, tanto che qualche volta e' stato accusato di avere invece dato vita a un revival pagano tra gli adulti. Baden-Powell conferi' all'idea della vita nei boschi una sensibilita' piu' militaresca e conservatrice. Ancora oggi sembra che ciascun gruppo scout abbia il proprio stile: alcuni insegnano tecniche di vita all'aria aperta, altri addestrano i ragazzi come soldatini. Dopo la prima guerra mondiale, il Wandervogel si frantumo', mentre i Boy Scout tedeschi, detti giovani esploratori, si ribellarono ai propri capi adulti e soppiantarono in larga misura il movimento originario.
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Ma altri individui hanno condotto battaglie per la conquista degli spazi: sebbene qui abbia parlato soprattutto di spazi selvaggi e rurali, e' molto interessante anche lo sviluppo dei parchi urbani quali per esempio il Central Park, un progetto democratico e romantico inteso a offrire le virtu' rurali ai cittadini che non dispongono delle risorse necessarie per uscire dalla citta'. Il corpo non impedito e' una questione piu' complessa. I primi tempi del Sierra Club, quando donne non accompagnate potevano dormire su giacigli di rami di pino e scalare montagne vestite di pantaloni alle caviglie o di gonnelline corte, inducono a ritenere che in California la liberazione della donna - o una forma moderata di essa - ne sia stato un sottoprodotto, dal momento che l'abbigliamento vittoriano imprigionava le donne nel decoro di respiri brevi, piccoli passi, equilibrio precario. Il nudismo delle prime associazioni naturistiche tedesche e austriache suggerisce che per qualcuno andare in collina facesse parte di un progetto piu' ampio di comunione con la natura, una natura che per definizione comprendeva pure l'erotismo, e anche per chi restava vestito, gli abiti consistevano in calzoncini informali che lasciavano scoperto il corpo. E lo stesso valeva anche per i lavoratori britannici: basta leggere La situazione delle classi lavoratrici in Inghilterra di Engels sugli orrori della vita e delle condizioni di lavoro che deformavano e facevano ammalare il corpo degli operai per capire perche' molti furono disposti a lottare per la liberta' di camminare a gran passi in spazi aperti e sotto cieli puliti. Il camminare nel paesaggio fu una risposta ai mutamenti della societa' che rendevano i corpi degli appartenenti alla classe media anacronismi rinserrati nelle case e negli uffici e i corpi degli operai pezzi di macchinari industriali.
Rousseau e Wordsworth, i poeti che stanno all'inizio di questa storia del camminare nel paesaggio, hanno ipotizzato un collegamento tra la liberazione sociale e la passione per la natura (benche', fortunatamente, nessuno dei due avrebbe mai potuto immaginare i Boy Scout, le industrie delle attrezzature per le attivita' all'aria aperta e altri effetti a lungo termine della cultura del camminare). Le associazioni escursionistiche hanno avvicinato molta gente qualunque all'immagine poetica del camminatore ideale che si muove liberamente nel paesaggio.
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Discendenti della stoa e del peripato greci, le strade porticate attenuano il confine tra dentro e fuori e pagano un tributo architettonico alla vita pedonale che vi si svolge. Rudofsky individua i famosi "portici" di Bologna, la via porticata lunga circa sei chilometri che dalla piazza centrale porta in campagna; la Galleria di Milano, che svolge funzioni meno strettamente commerciali dei centri commerciali esclusivi che l'hanno presa a modello e ne hanno assunto il nome; le stradine tortuose di Perugia; le vie pedonalizzate di Siena; e i portici pubblici sopraelevati di Brisighella. Tratta con appassionato entusiasmo della "passeggiata" serale degli italiani, per la quale molte citta' chiudono le strade principali al traffico motorizzato, e la contrappone all'ora del cocktail americana. Per gli italiani, scrive, la strada e' lo spazio sociale cardine per l'incontro, la discussione, il corteggiamento, l'acquisto e la vendita.
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Camminare dopo la mezzanotte: donne, sesso e spazio pubblico
Caroline Wyburgh, diciannove anni d'eta', "usci' a passeggiare" con un marinaio a Chatham, in Inghilterra. Era il 1870 e gia' da tempo il passeggio era una componente ufficiale del corteggiamento. Non costava nulla e dava agli innamorati uno spazio semiprivato dove farsi la corte, vuoi un parco, una piazza centrale, un viale cittadino, vuoi anche una strada fuori mano (e quegli aspetti di paesaggio rustico come i vicoli degli innamorati offrivano uno spazio privato in cui osare di piu'). Forse, nello stesso modo in cui la marcia collettiva afferma e genera la solidarieta' di gruppo, l'atto delicato di procedere al ritmo congiunto dei propri passi pone due persone sulla stessa linea in senso sia emotivo sia corporeo; forse, mentre si cammina insieme nella sera, nella strada, nel mondo, per la prima volta ci si sente una coppia. Passeggiare insieme, in quanto modo di fare quel qualcosa che piu' somiglia al non fare niente, permette di crogiolarsi l'uno nella presenza dell'altra, senza sentirsi obbligati a conversare continuamente o a compiere l'atto ben piu' impegnativo di evitare di parlarsi. E in Inghilterra l'espressione "uscire insieme" poteva assumere un'implicazione esplicitamente sessuale, ma piu' sovente rendeva manifesto che si era instaurata una relazione continuativa, qualcosa di simile al "fare coppia fissa" dei giorni nostri. Nel racconto di James Joyce I morti, il marito, avendo appreso che in gioventu' la moglie ha avuto un pretendente, le chiede se ami ancora quel ragazzo ormai morto e ne riceve questa devastante risposta: "Facevamo spesso delle passeggiate insieme".
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Sisifo aerobico e psiche suburbana
La liberta' di camminare vale ben poco se non si ha un luogo dove andare. Camminare ha avuto una sua eta' dell'oro che, iniziata nel tardo XVIII secolo, si spense, temo, qualche decennio fa. Fu un'eta' imperfetta, piu' aurea per alcuni che per altri, eppure eccezionale perche' ha creato luoghi appositi e dato valore alla camminata per diporto. Visse il suo apice attorno al giro di boa del XIX secolo, quando nordamericani ed europei si davano appuntamento per uscire insieme tanto per una passeggiata quanto per un aperitivo o un invito a cena; andare a piedi aveva spesso una sua sacralita', era anche uno svago di routine, e fiorivano le associazioni escursionistiche. A quei tempi, le innovazioni urbane del XIX secolo, come i marciapiedi e le fogne, rendevano piu' vivibile la citta' non ancora minacciata dalle accelerazioni del secolo successivo, e gli spazi e le attivita' extraurbane, come i parchi nazionali e l'alpinismo, erano in crescita e nel primo rigoglio. Poiche' la storia del camminare si dipana tra le grandi citta' e le campagne, con occasionali estensioni alle piccole citta' e a qualche montagna, questo libro ha fin qui indagato la vita pedonale negli spazi urbani e in quelli rurali. Ma se volessimo apporre una pietra tombale sull'eta' dell'oro del camminare, dovremmo forse incidervi la data del 1970, l'anno in cui l'ufficio del censimento degli Stati Uniti provo' che, per la prima volta nella vita di una nazione, la maggior parte degli abitanti era suburbana. I sobborghi residenziali sono deprivati delle glorie naturali e delle gioie civiche degli spazi abitativi di storia piu' antica, e la suburbanizzazione ha cambiato radicalmente la dimensione e il tessuto della vita quotidiana, quasi sempre in modi ostili al pedone. Questa trasformazione ha influenzato tanto l'ambiente quanto il pensiero. Di norma, oggi gli americani percepiscono, apprezzano e usano a tempo, lo spazio e il proprio corpo con modalita' affatto diverse da quelle del passato. La camminata copre ancora lo spazio tra i veicoli e gli edifici e la breve distanza che separa un edificio da un altro, ma e' sempre meno un'attivita' culturale, uno svago, un viaggio o un modo di muoversi; con il declino, viene anche a mancare il rapporto consolidato e profondo che si instaura tra il corpo, il mondo e l'immaginazione. Facendo ricorso a un termine ecologista, sarebbe forse piu' adeguato pensare al camminare come a una "specie indicatrice" che ha la funzione di tutelare la salute di un ecosistema, dal momento che la compromissione o il decremento delle specie possono rappresentare un segnale d'allarme tempestivo dell'insorgere di un problema sistemico. In tale contesto, il camminare e' una specie indicatrice di diversi tipi di liberta' e di piaceri: il tempo libero, uno spazio libero e allettante, un corpo non impedito.
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Camminare e' una delle costellazioni del cielo stellato della cultura umana, una costellazione formata da tre stelle: il corpo, la fantasia e il mondo aperto, e sebbene ciascuna di esse abbia un'esistenza indipendente, sono le linee tracciate tra di esse - tracciate dall'atto del camminare con scopi culturali - a farne una costellazione. Le costellazioni non sono fenomeni naturali, ma imposizioni culturali; le linee tracciate tra le stelle sono come sentieri consumati dall'immaginazione di coloro che li hanno calcati in precedenza. La costellazione chiamata "camminare" ha una storia, la storia percorsa da tutti quei poeti e quei filosofi e quei rivoluzionari, da pedoni distratti, da passeggiatrici, da pellegrini, turisti, escursionisti, alpinisti, ma il suo futuro dipende dal fatto che quei sentieri di collegamento vengano percorsi ancora.

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La Nonviolenza è in Cammino

Breve Bio - Bibliografia

Rebecca Solnit e' un'intellettuale, scrittrice e attivista pacifista americana, autrice di diverse opere che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti; vive a San Francisco e per il suo impegno culturale e politico e' considerata l'erede di Susan Sontag. Riportiamo anche la scheda biobibliografica in calce a un'intervista a cura di Marco D'Eramo apparsa sul quotidiano "Il manifesto" e ripresa in "Coi piedi per terra" n. 133 del 5 novembre 2008: "Rebecca Solnit ha studiato a Parigi, e' una collaboratrice regolare di "Harper's", ha vinto nel 2004 il National Book Critics Circle Award (il premio nazionale dei critici americani). Ha scritto finora tredici libri e oltre venti saggi in volumi collettivi. Il testo di cui si discute nell'intervista, Hope in the Dark, e' del 2004 ed e' stato tradotto in coreano, francese, giapponese, olandese, svedese, tedesco; in Italia e' uscito nel 2005 presso Fandango libri col titolo Speranza nel buio, in cui rischia di perdersi il gioco di parole inglese: "in the dark" significa anche "essere all'oscuro", l'oscurita' di cio' che e' ignoto. Tra i suoi altri volumi, Savage Dreams: A Journey into the Landscape Wars of the American West (Sogni selvaggi: un viaggio nelle guerre di paesaggio del West americano, Sierra Club Books 1994, riedito nel 1995 e 1999), su Yosemity Park e i test nucleari in Nevada; Wanderlust: A History of Walking (Viking/Penguin 2000), tradotto in italiano presso la Bruno Mondadori (Storia del camminare, 2005); Hollow City: The Siege of San Francisco and the Crisis of American Urbanism (Citta' vuota: l'assedio di San Francisco e la crisi dell'urbanismo americano, Verso 2001); As Eve Said to the Serpent. On Landscape, Gender and Art (Come Eva disse al serpente: su paesaggio, genere e arte, University of Georgia Press 2001), River of Shadows: Eadweard Muybridge and the Technological Wild West (Fiume di ombre: Eadweard Muybridge e il tecnologico selvaggio West, Viking 2003); Storming the Gates of Paradise: Landscapes for Politics (All'assalto del paradiso: paesaggi per la politica, UC Press 2007). Il suo testo piu' recente, cui si fa cenno anche nell'intervista, e' News from Nowhere: Iceland's polite dystopia, sull'Islanda, uscito nel numero di ottobre 2008 della rivista "Harper's"". Opere di Rebecca Solnit: Savage Dreams: A Journey Into the Landscape Wars of the American West (1994); Book of Migrations: Some Passages in Ireland (1998); (con Susan Schwartzenberg), Hollow City: The Siege of San Francisco and the Crisis of American Urbanism (2002); Wanderlust: A History of Walking (2002); River of Shadows: Eadweard Muybridge and the Technological Wild West (2003); As Eve Said to the Serpent: On Landscape, Gender, and Art (2003); Hope in the Dark: Untold Histories, Wild Possibilities (2006); (con Philip L. Fradkin, Mark Klett, Michael Lundgren), After the Ruins, 1906 and 2006: Rephotographing the San Francisco Earthquake and Fire (2006); A Field Guide to Getting Lost (2006); Storming the Gates of Paradise: Landscapes for Politics (2007). In italiano sono disponibili: Storia del camminare, Bruno Mondadori, Milano 2002, 2005; Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo, Fandango, 2005

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http://articles.sfgate.com
June 13, 2004

Make room for Rebecca Solnit, California's newest cultural historian
By Heidi Benson

With the dishes piling up in the sink of her Panhandle apartment, Rebecca Solnit sat down and wrote like a demon. She was possessed. At 42, she had already written seven books, but now the words came faster than ever before. In three days, she had finished the essay -- on which her book "Hope in the Dark" was based.

In 143 pages, she spoke directly to activists who felt the U.S. bombing of Iraq as a body blow. Worldwide, 30 million people from Amsterdam to Antarctica had risen up against impending war. In San Francisco, 2,000 had been arrested in a weekendlong demonstration that nearly shut the city down. When the bombs fell in March 2003, many despaired. They hadn't been able to stop the war.

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Rebecca Solnit Biography

From Wikipedia, the free encyclopedia

Rebecca Solnit (born 1961) is a writer who lives in San Francisco. She has written on a variety of subjects including the environment, politics, place, and art. [1]

She skipped high school altogether, enrolling in an alternative junior high in the public school system that took her through tenth grade, when she passed the GED exam. Thereafter she enrolled in junior college. When she was 17 she went to study in Paris. She ultimately returned to California and finished her college education at San Francisco State University when she was 20.[2] She then received a Masters in Journalism from the University of California, Berkeley[3] in 1984 and has been an independent writer since 1988. Prior to this she was a museum researcher and art critic.[4] She has worked on environmental and human rights campaigns since the 1980s, notably with the Western Shoshone Defense Project in the early 1990s, as described in her book Savage Dreams, and with antiwar activists throughout the Bush era.

Solnit has received many awards for her writing: a Guggenheim Fellowship, a Lannan literary fellowship, two NEA Fellowships for Literature, and a 2004 Wired Rave Award[5] for writing on the effects of technology on the arts and humanities.

Her writing has appeared in numerous publications in print and online, notably at the website Tomdispatch.com. She is the author of twelve books as well as essays in numerous museum catalogues and anthologies.

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