Ettore Masina
IL FERRO E IL MIELE
romanzo
Rusconi
Parte I
IL LAZZARETTO GALLEGGIANTE
Il numero di tanti legni cos piccioli come grossi posti intorno a Lazzaretto aveva sembianza darmata che assediasse una citt di mare Sul far della sera si sentiva una armonia mirabile di diverse voci di coloro che al suono dellAve Maria lodavano Dio
(Francesco Sansovino, Venetia citt mobilissima et singolar, descritta in XIII libri, Venetia, 1580, libro V)
1
Mi scoprii appestato, a Venezia, la
notte fra 1'11 e il 12 maggio 1576. Non piansi, non mi disperai: io stavo gi
morendo, d'amore. Che a finirmi fosse un dardo di Dio, offeso - come dicevano -
dai peccati di una citt proterva anzich le tante frecce con cui Cupido mi
aveva crudelmente trafitto, mi sembr cosa di poco conto: come, mi vergogno
a ripensarlo, di poco conto mi era sembrato, sino a quel momento, l'orribile
morbo che faceva strage intorno a me. Qualcuno, del resto, per intercessione
della Vergine e dei santi, dalla peste guarisce; dall'amore infelice, invece,
non si guarisce mai: se non muori diventi un altro, non sei pi lo stesso,
irreparabilmente. E cominci a sentirti morire subito perch la tua
infelicit ti chiude la vista e il cuore, come un altissimo muro, cosicch i
tuoi simili non esistono pi, per te, o soltanto come esistono gli animali pi
piccoli, di cui talvolta intendi i suoni ma senza curarti di sapere se sono
espressioni di allegria o di lutto. Forse il passero che si posa per un attimo
sul tuo davanzale pieno di dolore, ma che te ne importa?
Quella notte, avevo sognato
Fransisca. L'avevo vista su una gondola che fendeva le acque d'un canale, senza
rematore, come per prodigio. Tutte le luci delle case e delle strade erano
spente, le acque sembravano di nera pietra, di quando in quando imbiancata
dalla luna. Da chiss quanto tempo, inseguendo la gondola, io correvo
sull'orlo lastricato del canale. Sentivo soltanto il rumore dei miei piedi
sul selciato e il mio ansimare, sempre pi affannoso. Fransisca teneva una mano
nell'acqua, quasi in cerca di refrigerio; con l'altra stringeva al petto un
uccello meraviglioso dal lungo collo e dalle lunghe zampe, morto. Le
sembianze erano d'airone ma i colori assai diversi: rosso (o tinto di sangue)
il piumaggio del petto, nere le ali e le penne della coda. Fransisca sorrideva
estatica, la testa un po' riversa all'indietro. Vedevo i suoi occhi risplendere
alla luce della luna e la sua destra carezzare le ali della bestia, raccogliere
le gocce di sangue che uscivano dal becco, portarle alle guance come un
belletto.
Improvvisamente Fransisca si levava
in piedi con un movimento aggraziato e sicuro e cominciava a danzare sulla
gondola, che s'era fermata. Contemplavo il suo corpo esile, nudo, il corpo che
amavo con dolorosa passione e mi sembrava quello di Salom; e sapevo che
anche Fransisca, come la fanciulla del vangelo, danzava un trionfo. Ora
che qualche re sanguinario o qualche grande cacciatore le aveva donato quella
stupenda preda, non per lui ella danzava ma per ci che aveva ricevuto, spento
nel sangue.
Facendo tremare lievemente la
gondola, Fransisca si curv a raccogliere l'uccello, lo strinse ancora una
volta al proprio petto, poi lo lev in alto, come per un rito sacrificale.
Infine, lo lasci cadere nella
laguna. Acque nere, limacciose, fetide mi inghiottirono, lentamente
affondai senza riuscire a morire...
M'ero svegliato di soprassalto,
madido di sudore bench la notte fosse fredda e la sera innanzi mi fossi
lasciato cadere quasi nudo sul mio giaciglio. Ancora una volta, uncinato
dalla mia follia amorosa, mi ero ritrovato a ricordare quel giorno di
ottobre dell'anno prima in cui, per mia terribile disgrazia, avevo conosciuto
Fransisca Barbarano.
Quel giorno m'ero recato da suo
padre, notaio, per la stipula di un contratto. Avevo portato a Venezia, da
Breno di Valcamonica, un grande carico di legname e un altro di utensili di
ferro, in un viaggio avventuroso, durato tre mesi, fra pericoli di ogni genere:
banditi e strade franose e paludi malariche. Era il primo importante negozio
della mia vita, a ventiquattro anni appena compiuti; e vi avevo investito,
con il riluttante assenso di mio padre e dei miei fratelli, buona parte
dei beni della famiglia.
Mentre ci accostavamo all'uscio del
notaio, in una piazzetta di Cannaregio, il veneziano che avrebbe acquistato il
mio legname mi aveva detto sorridendo: Guardate, sul laig... . Sul che
cosa? avevo domandato, sorridendo a mia volta per l'incomprensibilit di quella
parola. Sul laig: il belvedere aveva spiegato. E l, su un terrazzo
schermato da una ringhiera di ferro battuto cui si avviluppavano fiori e
foglie, avevo visto per la prima volta Franssca.
Attirata forse dal rumore dei nostri
passi che riecheggiavano sul selciato, si era sporta verso di noi. Nel
volto pallido gli occhi aprivano due spazi di luce che mi sembrarono
raccogliere tutta la luce del cielo. Un manto di capelli neri, lisci, con
riflessi cangianti, ricadeva sulle sue spalle aggraziate. Quando i nostri
sguardi si incrociarono, si ritir in fretta, dopo aver fatto un cenno di
saluto e un sorriso al mio accompagnatore. Poi la sentii correre per il
terrazzo, chiamando un nome di donna.
M'ero arrestato di colpo, quasi
impietrito da un interno tremore. Pi d'uno dei vecchi del paese mi aveva
detto scherzando, quando ero partito: Gurdati dalle veneziane. Avevo
riso con aria da uomo vissuto, come fanno i giovani se qualcosa li imbarazza.
Ma da quando, sette giorni prima, ero arrivato a Venezia, la citt che avevo
tanto spesso sognata, m'era sembrato davvero di essere approdato alla
patria dell'amore. C'era in me, mentre mi aggiravo per la laguna e non finivo
di contemplare l'incanto del Canal Grande e di piazza San Marco, un presagio
dolcissimo e sconcertante. Con tutto il vigore della mia giovinezza sentivo
che quella citt era la magica regione in cui la mia virilit avrebbe
trovato il suo premio, dopo le dure prove del viaggio. Io che, al mio paese,
non avrei mai osato farlo, qui guardavo sfrontatamente ogni giovane donna; e
molte ne avevo notate di desiderabili. Nessuna, tuttavia, mi aveva toccato
l'anima come quella che avevo appena intravista e m'era sembrata una gemma
incastonata nel verde del giardino pensile e nell'azzurro del cielo. Non
dico che me ne innamorai subito: al contrario, mi sembr irraggiungibile.
Sentii per che qualcosa di misterioso e di definitivo mi era accaduto.
Anni prima, al mio paese, un mercante
giudeo, pressato dall'odio del popolino, dagli inciampi che le autorit
ponevano al suo misero commercio e dalle lusinghe dell'Arciprete (o,
forse, dico male: folgorato, invece, dalla Grazia), aveva deciso di convertirsi
alla nostra santa religione. Il giorno del suo battesimo, le campane di
tutta la Valle avevano suonato a festa. Il Vescovo di Brescia aveva inviato,
per l'occasione, un suo legato, scelto fra i canonici di maggior lustro; i
nobili erano usciti con le loro scorte dai ruderi fastosi degli antichi
castelli o dai nuovi palazzi cui il grigio del granito e il cilestrino della
pietra simona conferivano forza e grazia; e uno di essi, il conte Federici, si
era degnato di offrirsi come padrino del nuovo cristiano. La chiesa di San
Maurizio era inondata di luce come solo avviene per il Triduo dei Morti. Su quell'ometto
esile e calvo, dal grande naso adunco e dagli zigomi sporgenti, vedevamo
perpetuarsi il trionfo del Cristo, come sugli antichi barbari nostri
progenitori, sui re feroci trascinati in ginocchio, sulle altezzose regine
trasformate in piissime ancelle della Santa Chiesa.
Avevano guidato l'Ebreo, pallido e
tremante, su verso 1'altar maggiore. L'enorme mano del conte Federici era
posata fermamente sulla spalla sinistra di lui, sopra la veste candida, in
segno di protezione e di possesso. Il coro aveva intonato 1' Exultet ; e
l'Arciprete aveva parlato a lungo della straordinariet dell'avvenimento cui
eravamo chiamati ad assistere, di questa isola di Antico Testamento che, sino
allora ribelle, era stata espugnata dal vero Messia. Mentre, attorniato da uno
stuolo di sacerdoti, il Giudeo riceveva sul capo l'acqua lustrale, per un
istante ero rimasto affascinato dalla irreparabilit dell'evento. Quella
conversione mi sembrava segnare la sconfitta definitiva di un vecchio Dio e
l'avvento di un Dio nuovo; non soltanto qualcosa che mutava la condizione
sociale di un individuo o il destino della sua anima, ma qualcosa che aveva
ripercussioni nei Cieli, una bufera che sconvolgeva le nubi dell'Olimpo,
ne scuoteva i crinali, ne mutava i confini, gli echi, i misteri.
Cos fu per me l'apparizione di
Fransisca Barbarano. Pensai: io sono perduto.
2
Le donne di Venezia appaiono ben
diverse da quelle della mia Valle, che sono forti e coraggiose e non hanno
timore a misurarsi con gli uomini nel lavoro dei campi e nei mercati, ma se un
estraneo entra nelle loro case per visitare il padre o il marito se ne stanno
in disparte, quasi sdegnose. Qui, in questa citt al cui porto approdano ogni
giorno cento navi straniere e in cui senti parlare cento diverse lingue (capaci,
tuttavia, di confluire in una sola quando si tratta di mercanteggiare), le
donne sono morbide e altere, sfrontate e misteriose, impudche e distanti; e
gli uomini non hanno ritegno a coinvolgerle nei loro affari; anzi, se belle,
invece di custodirle gelosamente, sembrano esibirle come segno della propria
fortuna.
Cos, concluso il contratto,
evidentemente lieto per il suo lauto onorario e reso benigno nei miei confronti
dalle lusinghiere lettere di presentazione che alcuni suoi concittadini
residenti in Valcamonica mi avevano fornito, il notaio aveva chiamato la figlia
a servirci non so quale rinfresco.
La necessit di seguire attentamente
la stesura del documento mi aveva costretto ad uscire dalla condizione
stuporosa in cui mi aveva gettato la contemplazione di Fransisca. Fu dunque un
giovane mercante, vigoroso e non brutto (debbo ammetterlo!), vestito dei suoi
abiti migliori e trattato con rispettosa affabilit da suo padre, quello che la
giovane vide entrando nello studio che subito a me parve trasformato in un
giardino.
Mentre il padre me la presentava con
tenerezza ( La mia sola ragione di vita dacch mia moglie morta, dieci anni
fa), Fransisca mi guardava, con sorridente interesse. Serv le bevande con
grazia, scambiando qualche cordiale parola con il mio cliente, che era di casa.
Io contemplavo in estasi l'ovale perfetto del suo volto, la bocca piccina e
carnosa, il seno fiorente sulla vita sottile; e mi dicevo: non ho mai visto una
donna cos bella.
Invitata dal genitore, sedette
tranquilla e silenziosa in un angolo mentre il notaio mi interrogava
bonariamente sul mio viaggio, la mia famiglia, il mio paese. Cercai di rispondere
come meglio potevo, senza guardare Fransisca, per non balbettare; sentivo
tuttavia il suo sguardo posato su di me, come una mano che cercasse, nel buio,
la mia.
La conversazione dur pochi minuti:
ma un tempo sufficiente per farmi sentire saggio e importante, un povero
bambino sperduto, un uomo ormai avviato al successo, un paesano rozzo ed
incolto...; per introdurmi in aspettative dolcissime, per abbattermi in una
cupa impotenza. Ma, a mia delizia, sentito che mi sarei trattenuto in Venezia
per alcune settimane (dovevo acquistare lana per le tessiture di panno della
mia Valle), benevolmente il notaio mi esort a tornare nella sua casa. Trovai
allora il coraggio di guardare Fransisca, con aria supplice. Lei accenn
col capo che s, l'invito era anche suo. Sorrideva; ed io naufragai in quel
sorriso.
Tornai, difatti, pi volte. Era una
casa ospitale, sempre affollata di persone interessanti. C'erano ricchi
signori tedeschi e ungheresi, diplomatici spagnoli e vaticani, capitani di
navi dalmate, mercanti della citt; e pisani e genovesi... E fu un
genovese, una sera, a raccontarci una terribile storia che la sua famiglia
si tramandava da due secoli.
Due secoli prima, un antenato di chi
ora narrava abitava a Kaffa, una colonia della Superba, in Crimea. Guidati
dal Khan Gianisbergo, i Tartari avevano, a lungo e inutilmente, assediato
la citt. Risultata vana la forza delle armi, per vincere a qualunque costo
avevano fatto ricorso a uno stratagemma diabolico. C'erano fra loro alcuni
appestati; i cadaveri furono posti sulle catapulte e lanciati nel campo
genovese. Chi si avvicin per indagare, per rimuovere gli orribili proiettili
umani e dar loro se non cristiana almeno caritatevole sepoltura, subito rimase
contagiato.
All'apparire del morbo, i genovesi
decisero di fuggire. Salirono sulle loro galee e salparono, abbandonando la
citt nelle mani dei barbari infedeli. Ma la peste si imbarc con loro.
Durante il viaggio si pales fra le
ciurme e le decim. Le navi fecero scalo a Costantinopoli, poi a Messina, a Reggio
Calabria, a Pisa. Ad ogni attracco la morte scese dalle navi, come un marinaio
in franchigia, lasci negli angiporti le sue velenose monete, torn ad
imbarcarsi. Quando le galee approdarono a Genova, la peste devastava ormai le
coste italiane. Non si arrest nella Citt Superba, ricominci il suo
viaggio, questa volta per via di terra.
Cos si era diffusa la Peste Nera, la
terribile epidemia che per due anni aveva flagellato l'intera cristianit.
Tutti ne avevamo sentito parlare dai nostri vecchi: sette generazioni se
n'erano trasmesse l'orribile ricordo, perch la peste era poi tornata pi
volte, anche se, grazie a Dio, con assai minore virulenza. Qualcuno ne aveva
letto antiche cronache e quella sera ne rievoc gli orrori: la Peste Nera
aveva falcidiato la popolazione di molte citt, altre citt le aveva
completamente svuotate di vita. I primi a morire erano i bambini: per mesi, in
intere regioni, non si era pi sentito il vagito di un neonato, per anni lo
strepito di giochi infantili. Nessun medico sapeva curare la terribile
malattia. Per limitare il contagio, i governanti avevano ammassato e rinchiuso
gli ammalati in recinti chiamati lazzaretti, circondati di guardie,
talvolta da un fossato come le fortezze. Era meglio morire subito che finire in
quei macabri magazzini d'agone in cui la morte era preceduta da orrendi
spettacoli. Ma anche i superstiti, dopo la tragedia, sembravano aver
perso l'anima: erano come alberi
devastati dalla siccit, senza pi foglie, nude le radici, fuor della terra
tramutata in arida sabbia.
Rievocammo queste tristissime storie,
quella sera, perch a Venezia si erano scoperti, come gi dieci anni
prima, alcuni casi di peste. Ne avevo avuto notizia anch'io ma, tutto preso dal
mio amore, m'era sembrata cosa di poco conto, una sciagura che toccasse
soltanto, come spesso avviene, i pi poveri. Cos, mentre il genovese
parlava, ero attento pi alla terribile grandiosit del racconto che alle sue
possibili similitudini con un nostro personale futuro.
Quella sera eravamo saliti sul laig
perch la primavera si annunziava con improvviso tepore. Alle inferriate
erano appesi palloncini di carta colorata entro cui ardevano lumini; ma gli
angoli del terrazzo rimanevano in penombra e in un angolo io stavo con
Fransisca che mi teneva per mano e con un dito sfiorava la mia destra callosa,
le cicatrici dei tagli, sospirando con sorridente desolazione: Guarda com'
conciato questo mio tagliaboschi! .
Mentre parlavamo, il gioco di
Fransisca si interruppe, la sua mano strinse sempre pi fortemente la mia,
divent gelida. Infine, Fransisca si lev impetuosamente, disse brusca:
Mi vorrete scusare e corse via, senza che io riuscissi a trattenerla.
Lasci tutti costernati per la sua
scortesia. Ma io sorridevo. La mia Fransisca poteva parere agli altri una
bambina capricciosa: ma io sapevo bene che dietro quel comportamento
infantile si celava una donna appassionata.
3
Gi quel giorno, infatti, in cui per
la prima volta ero entrato nella sua casa, mentre, congedatomi dal notaio, discendevo
la scala e mi avviavo alla porta, una piccola morbida mano si era
impossessata della mia e mi aveva attirato nel buio mentre la voce di Fransisca
sussurrava imperiosa: Baciami, subito, senza parlare! . Attonito, mi ero
ritrovato fra le braccia quel corpo esile e sodo. Indossavo una casacca
leggera e, avvertendo i seni di lei contro il mio torace, mi ero di colpo
infiammato. Ma Fransisca si era sottratta all'abbraccio, aveva spalancato
la porta, diceva sorridendo: Adesso vattene, vattene . Torner!
avevo detto, temendo di nuovo il divieto di farlo. Oh s che tornerai!
aveva riso, chiudendo il battente alle mie spalle.
Da quella sera, infatti, ero tornato
pi volte, quasi una falena sulla fiamma che le brucia lentamente le ali. La
volont di Fransisca e la tolleranza del padre mi avevano spalancato le
porte di un tormentoso paradiso. Avevo dimenticato i miei affari,
l'inquietudine dei miei genitori, lasciati senza notizie. Avrei dovuto
proseguire il mio viaggio per il Friuli e la Carinzia per vendere le zappe e i
badili portati con noi, prodotti dai fabbri di Bienno, famosi dovunque.
Anche quel viaggio l'avevo sognato, che mi avrebbe spinto in lontane regioni,
per montagne pi alte delle mie, fra genti straniere. Adesso convinsi i miei
compagni ad andare da soli. Il mondo per me si chiamava Fransisca, e
io stesso mi chiamavo Fransisca perch senza di lei non esistevo pi.
Anche se mi imponevo di non rendere
troppo frequenti le mie visite (temevo che il notaio potesse trovare eccessivo
il mio attaccamento alla sua casa e mettermi alla porta) ogni mio cammino mi
riportava inevitabilmente sotto il laig. Quando la ragione vinceva sugli
istinti, tornavo sui miei passi; ma mi aggiravo intorno alla casa, per ore.
Fransisca stessa, una volta, esclam: Ali dicono che sei sempre qui in
giro, Bresciano, come uno di quegli uccelli cui hanno scortato le ali e non
riescono pi ad andare lontano dalla gabbia. La definizione era crudele ma non
mi fer perch niente che fosse detto da Fransisca mi sembrava meno che
amabile.
Ero ormai stregato. I giochi d'amore
di Fransisca mi inebriavano e mi sfinivano. Il suo corpo non mi era concesso,
alle mie iniziative era imposto un rigido galateo, quasi un noviziato. Solo lei
poteva fare ci che il suo capriccio le suggeriva. Il mio grosso corpo si
torceva sotto le sue carezze, talvolta una rabbia feroce mi spingeva a desiderare
di mordere quelle dita sapienti, crudeli e soavi. Lei lo capiva e rideva:
Buono, Bresciano, buono! Avrai tanto tempo, dopo... . In quel dopo io mi
perdevo, arrendendomi, facendomi schiavo.
Dopo l'avrei portata via con me,
fra i miei monti. Avremmo conosciuto l'amore, quello vero, in cui l'uno e
l'altra si donano e si possiedono. Avrei fatto di lei una regina
valligiana: avrei chiesto a mio padre di darmi subito ci che mi spettava in
eredit; e avrei costruito una casa di granito e pietra simona, come quelle dei
nobili. Fransisca non avrebbe pi avuto intorno a s l'incanto di Venezia
ma avrebbe imparato a conoscere quello dei castagneti e delle abetaie, la
maestosit dell'Oglio che trascina con s, in primavera, enormi massi, la
solenne malinconia del lago d'Iseo, il rumoreggiare dei torrenti che corrono
fra profondissime gole rocciose e all'improvviso si inarcano in rombanti
cascate. Le avrei insegnato a tirare con la balestra corta, a cacciare con il
falcone, l'avrei portata con me ad ammirare le pernici di monte mutate
dall'inverno in can dide colombe, i colori iridati del gallo cedrone, pi
splendenti, ai miei occhi, di quelli dei pavoni. Le avrei additato gli
arcobaleni che da noi sembrano scaturire da un monte ed aggrapparsi a un altro
per offrire una passerella al vagare delle fate, ai balzi giocosi degli elfi.
Le avrei insegnato a cavalcare e saremmo saliti al Passo del Tonale a contemplare
le nevi perenni dell'Adamello: senza fermarci, la notte, perch di notte il
Tonale luogo di raduno delle streghe...
Dai miei viaggi (avrei lavorato pi
duramente, dopo , e con sempre maggiore successo) le avrei portato i
tessuti pi belli, gli ornamenti pi preziosi, i profumi che lei amava. Le
avrei riempito la casa di serventi e avrei dato in suo onore grandi feste:
certamente anche le mogli dei nobili sarebbero venute a imparare da lei grazia
di portamento, eleganza.
Fransisca mi ascoltava, talvolta con
interesse; talvolta, invece, rideva dei miei sogni: Ma tu mi vedi tra i
tagliaboschi, tra i pecorai? . Alle mie indignate proteste che nella
Valle non mancavano persone civilissime, tornava a ridere e ridere, poi mi
diceva impaziente: Adesso basta, vieni qui.
4
Non solo il corpo di
Fransisca m'era negato ma anche l'intimit del suo cuore.
I nostri discorsi
erano poco pi che; parole tenere e giocose. Fransisca non rispondeva mai se
non con sorrisi alle mie domande sulla sua vita. Sembrava non avere
passato. Pensavo: Non vuole parlare di sua madre, del dolore per la morte di
lei.
Senza vergognarmene,
avevo pagato le sue serventi per sapere se avesse avuto altri amori, quali
giovani frequentasse, quali amiche. Le risposte erano state nette e tutte
eguali: Fransisca non vedeva che gli amici del padre, usciva raramente e sempre
con lui. No, non aveva mai parlato di matrimonio n confidato simpatie per
qualche giovane: ne incontrava pochissimi, del resto, e, pi che a Venezia,
nella villa sul Brenta che il notaio possedeva e in cui padre e figlia si
recavano, come molti ricchi veneziani, ogni estate. Fransisca mi aveva parlato
spesso di quella casa: un paradiso. Vedrai, Bresciano, vedrai che prati,
che alberi; e la corrente del fiume che ha i colori delle foglie appena
sbocciate... .
Ma neanche futuro
sembrava avere, Fransisca, poich neppure di questo voleva parlare. Viveva il
presente come in una bolla di sapone che la isolasse dal mondo: solo pi tardi
compresi quanto temesse che la sfera iridescente in cui abitava potesse, d'un
tratto, infrangersi, e lei ritrovarsi indifesa in una realt che le faceva
paura.
Aveva diciassette
anni, sapeva leggere e scrivere; ma leggeva? Scriveva? E pregava? Quando i
campanili delle cento chiese di Venezia suonavano l'Angelus e tutti devotamente
ci segnavamo, le sue mani rimanevano inerti e lei evitava il nostro sguardo,
come imbarazzata. Anche oggi, dopo tanti anni, mi domando se ci. fosse un dio,
e quale, nella sua anima; in che cosa credesse; chi e che cosa veramente
amasse.
L'avevo vista pi
volte sgridare una domestica con tale asprezza e parole cos crudeli da farla
singhiozzare; e lei stessa, allora, sembrava singhiozzare per l'ira. Poi correva
ad abbracciare l'infelice, la baciava, le faceva mille moine come fanno i
bambini pi piccoli ai genitori dopo essere stati cattivi, per evitare il
castigo. Talvolta il suo sguardo si perdeva in lontananza; che cosa vedeva?
Avevo imparato che, in quei momenti, ogni parola le era sgradita e, pi ancora,
ogni tentativo di tenerezza. Si ritraeva di scatto, mi guardava con cattiveria,
diceva: Non sei capace di lasciarmi stare un po'? ; e se ne fuggiva nelle sue
stanze.
Un giorno le
domandai cosa facesse nelle ore che trascorreva da sola. Rispose
sorridendo che una padrona di casa ha mille incombenze, non lo sapevo? E poi
aggiunse suono il liuto, ricamo, gioco con le bambole.
Non la sentii mai
suonare il liuto, nonostante mille insistenze, non la vidi mai ricamare; avevo
invece contemplato (una sola volta; poi lo straordinario spettacolo mi fu
per sempre vietato) la moltitudine delle sue bambole. Era avvenuto la seconda
volta che ero entrato nella sua casa. Ritrovandoci a due giorni dal nostro
furtivo abbraccio, eravamo (o, almeno, io ero) in preda all'imbarazzo.
Non ero abituato ad avventure amorose n avevo mai conosciuto ragazze cos
ricche e cos libere. Sentivo di non poter essere giudice: ci che in una
giovane del mio paese avrei ritenuto impudicizia o follia, in Fransisca m'era
sembrato espressione di un mondo diversissimo dal mio: un mondo nel quale
desideravo
disperatamente entrare ma che ora, nel momento in cui mi ammetteva nella sua
regione di confine, mi faceva tremare, sentire tutta la mia inadeguatezza.
La mia timidezza e la mia goffaggine di paesano mi sembravano pari alla
smaniante voglia di far mia quella donna stupenda, cos diversa da me.
Ma anche Fransisca,
quel giorno, era pallida, nervosa: mi sembr, anzi, che avesse pianto. Mi aveva
accolto quasi freddamente, tuttavia mi aveva fatto sedere accanto a s, mi
aveva preso le mani fra le mani. Tacevamo. D'un tratto, lei s'era alzata, mi
aveva domandato gravemente, quasi si trattasse di affare di grande importanza:
Vuoi vedere le mie bambine?. Sorpreso, avevo risposto di s. Allora mi aveva
guidato in una grande sala, illuminata, come una cappella, da decine e
decine di candele; e l, sparsa su divani o allineata su lunghe scanse, vidi
una folla di bambole, i cui occhi sembravano vivi nel tremolo delle fiammelle.
Orgogliosamente
Fransisca me le aveva mostrate una dopo l'altra. A ognuna aveva dato un nome,
indecifrabile, come tratto da una lingua misteriosa. Erano di tutte le dimensioni:
alte un dito o grandi come bambini; di legno, di creta, di gesso, di stoppa, di
osso, di altre materie che non conoscevo; alcune rozze, quasi scolpite da
contadini per i giochi di piccole cenciose; altre con volti incantevoli che
parevano di marmo o di alabastro. Ce n'erano di ignude e di sfarzosamente
vestite: adorne di fili d'oro, di piccole gemme, di straordinarie piume di
uccelli mai visti. Erano, in prevalenza, bambole italiane e tedesche; ma non
giungevano da
lontanissimi paesi dell'Oriente e persino dalle Americhe; e alcune custodivano
in cavit nel petto ampolle di preziosi profumi; e altre avevano arti
flessibili sicch Fransisca poteva metterle in ginocchio davanti a me o fingere
che volessero abbracciarmi. C'era una grande bambola di Norimberga con un
meccanismo a orologeria che le faceva muovere una mano sulle corde d'un'arpa da
cui sembrava trarre per prodigio le note d'una musica da ballo; e c'erano
infine due piccoli Mori che Fransisca mi addit dicendo: Ecco Abdull e
Berimel, i miei schiavi ; e mi mostr che aveva fatto applicare ai loro polsi e
alle caviglie delle catene: Ma d'oro... disse, quasi per scusarsi.
Tutti i mercanti
veneziani mi spieg sanno di questa mia passione; e sanno che il signor
notaio Barbarano disposto a pagare qualunque somma per la gioia della sua
bambina matta.
Adesso sorrideva
felice. Mi aveva baciato. Per un attimo, prima di abbandonarmi al mio
sangue, m'ero sentito turbato dalla presenza di tutti quei minuscoli volti
intorno
a noi; soprattutto
dalla bambola dai grandi occhi e dai capelli neri che se ne stava sola in
un angolo, su una piccola sedia. Poco prima, mostrandomela, Fransisca le aveva
alzato le braccine in modo che le mani le coprissero il viso e mi aveva
detto: Questa la piccola Fransisca che piange perch ha paura di morire.
5
Nei giorni che seguirono la
conversazione sulla Peste Nera, Fransisca rifiut di vedere qualunque estraneo,
e me pure. Il padre e le domestiche rispondevano che stava poco bene, non era
propriamente malata ma triste, molto triste; e mi chiedeva di pazientare.
Per sei giorni le mandai grandi mazzi
di fiori. Il sesto giorno erano rose di serra, tuttavia piene di spine: Le ho
scelte scrissi in un biglietto perch tu ti renda conto di quanto bisogna
soffrire per cogliere un fiore bello come te. Alla fine, mi lasciarono
entrare. Fransisca sedeva, pallidissima, quasi irrigidita dall'emozione,
nello studio del padre, accanto a lui. Questa accoglienza dapprima mi sconcert,
poi mi fece nascere in cuore una meravigliosa speranza: che Fransisca
avesse ritenuto giunto il momento di mettere il padre al corrente dei nostri
progetti, di decidere il giorno delle nozze. Perci sorrisi, intento a
preparare dentro di me, da buon mercante, gli argomenti per convincere il
notaio.
Parl lui per primo: Messer
Guerino, mia figlia ha voluto che fossi io ad affrontare una delicata
questione. Fransisca dice che voi siete persona di nobile sentire e che la
amate. Del primo fatto sono convinto anch'io, dopo avervi conosciuto a
sufficienza; il secondo e accenn a un sorriso lo avevo ormai intuito
dalla vostra frequenza in questa casa. Cercai di interromperlo ma mi ferm
con un gesto pacato della mano.
Continu: Fransisca dice anche che
voi siete impulsivo e pensa che, addirittura, possiate diventare violento
L'accusa mi inchiod alla sedia,
muto, stupefatto pi che offeso. Che Fransisca potesse descrivermi a questo
modo mi sembr impossibile: quante volte, accanto a lei, mi ero sentito senza
pi forze, ormai soltanto una delle sue bambole...
Perci riprese il vecchio mia
figlia mi ha chiesto di parlarvi a suo nome. Ed io lo faccio con grande pena,
appellandomi alla vostra maturit.
Vedete, messer Guerino, nonostante
il governo tenti di tenerlo nascosto, ormai la peste dilaga in tutta Venezia, i
morti sono centinaia e centinaia, diventeranno migliaia.
Fransisca sconvolta dal terrore del
contagio. Si pu capirla: giovane, bella, non vuole morire. Perci
domattina partiremo per la nostra villa di Stra.
Osai dire: Verr con voi... .
La mano del notaio mi ferm di nuovo:
No, messer Guerino. La necessit di questa brusca partenza ha dato modo a mia
figlia di ripensare ai vostri rapporti. Vi ringrazia della vostra
devozione ma ha concluso che non siete fatti l'una per l'altro.
Questa volta nessun gesto riusc a
fermarmi. Balzai in piedi e mi rivolsi a Fransisca, con voce strozzata: Non
possibile, perch? .
Sedeva eretta, bella come sempre: ma
diventata una statua. Due piccole rughe agli angoli delle labbra le tiravano
la bocca in una smorfia dura, impietosa. Mi guard, disse soltanto: cos.
Le lacrime che mancavano nei suoi
occhi colmarono i miei. Mi ritrovai in ginocchio, tendendo le mani, supplicando
di nuovo: Ma perch? Dimmi perch! .
Lei si ritrasse, appoggiandosi
all'alto schienale. Rigida come una regina sul trono, parl con voce aspra:
Alzati, Bresciano. Un uomo in ginocchio mi fa orrore se non sta pregando il
suo Dio.
Fu come uno schiaffo, anzi pi che
uno schiaffo; mi calm di colpo. Ritrovai un po' di dignit, dissi: Devi spiegarmelo,
il perch. Ne ho il diritto. Sino all'altro giorno tu mi amavi... .
Il colore torn sulle sue guance
mentre mi rispondeva quasi gridando: No, Bresciano, no, io non amavo te. Io
amo la vita. Se un uomo parte della vita, se mi d pi vita, se difende la
mia vita, allora posso anche accettarlo; godere con lui, persino volergli bene.
Quando ti ho visto la prima volta, cos grande e grosso, all'apparenza cos sicuro,
ho pensato: "Ecco quello che fa per me! ". Ma in questi giorni e
notti di terrore ho capito tante cose. C' la peste intorno a noi, Guerino, e
tu hai mostrato di non accorgertene neppure. Sei soltanto un ragazzo. C'
la peste e, per salvarsi, bisogna fuggire; e per fuggire bisogna essere ricchi,
avere una villa, lontano da Venezia. Dov' la tua villa, Bresciano? .
Singhiozzava disperatamente, adesso.
Promisi: Ne avremo una, un giorno, te
lo giuro, amore mio... .
Un giorno? La morte oggi, Guerino,
non "un giorno"! Io non voglio aspettare, non posso aspettare. Io ho
bisogno di vita subito...
Potresti venire con me a Breno...
Dal pianto pass al riso, uno
stridulo riso che pareva di strega: Non hai ancora capito, Bresciano? Io non
ho mai pensato veramente di venire nella tua Valle di mandriani e di
fabbri, a diventare un po' alla volta nera come il carbone, a vivere senza
musica, senza mare, a far figli uno dopo l'altro, tra beghine che mi
controllerebbero minuto per minuto. Se qualche volta, stupida come sono,
ho concluso di poterti sposare, ho sempre pensato che ti avrei tenuto con me a
Venezia, a Venezia, a Venezia. Sbianc in viso, torn a singhiozzare:
Vattene, Guerino! Vattene che sei povero! .
Il notaio fece tintinnare un
campanello, entrarono due giovani serve che si precipitarono su Fransisca,
coprendola di baci e di carezze. Il vecchio mi pose un braccio intorno alle
spalle, dolcemente ma con fermezza mi spinse verso la porta: Hai sentito,
figlio mio? Devi andartene. Dove andrai? . Non lo sapevo, non riuscivo neppure
a pensare. Mormorai: Torner in Valcamonica disse lui tristemente Ǐ
arrivata la peste.
Il portoncino si chiuse dietro di me,
senza rumore.
6
Da quella sera andai allo sbando.
Cento volte decisi di inseguire Fransisca, cento volte l'istinto mi ripet che
quello di mendicare il suo amore era il modo pi certo per perderla
definitivamente. Decisi di restare a Venezia: la peste sarebbe passata, la mia
donna sarebbe tornata ed io avrei saputo ridestare in lei la passione che ci
aveva legati. Bisognava saper attendere...
Ma attendere non sapevo. Passavo da
un'osteria all'altra, mi accompagnai a innumerevoli prostitute. Le possedevo
con brutalit quasi volessi reagire alla passivit cui mi aveva ridotto
Fransisca. Qualcuna parve lusingata dalla mia furia, che le sembr
apprezzamento; qualcuna se ne impaur (allora si affacciava alla stanzuccia un
uomo che mi guardava con occhi gelidi tenendo un coltello fra le mani) ;
ma la pi parte ebbe compassione di me. Consumato l'amplesso, ricevuto il
compenso pattuito, l'amante senza domani si trasformava per qualche minuto in
madre, mi raccomandava di mangiare, di ripulirmi, di darmi pace del tormento
che visibilmente mi divorava.
Vagavo per la citt senza guardarmi
intorno, senza parlare con alcuno. Mi accorgevo appena che il volto della citt
era mutato, che nonostante il cielo andasse facendosi pi luminoso e il sole
pi caldo, le calli erano quasi deserte e spento il chiacchiericcio delle donne
che tante volte mi era sembrato fluire come il getto delle fontanelle.
Camminando ora quasi furiosamente,
ora lentamente come un malato, finivo per ritrovarmi dinanzi alla casa di
Fransisca che aveva porte e finestre sbarrate. Allora mi sfuggiva dalla gola un
suono sordo - singhiozzo o ruggito; imprecavo contro me stesso, giuravo che
avrei scelto un altro sestiere per il mio vagabondare. Ma, come una folaga che,
colpita a un'ala da un balestriere inesperto e caduta al suolo, cercando di
riprendere il volo con l'ala indenne, rema penosamente la terra e compie un
cerchio senza fine, cos scoprivo poco dopo di essere tornato sotto il laig
delle mie delizie da cui mi pareva che adesso un'invisibile scolta rovesciasse
olio bollente sulle mie spalle d'inerme assediante.
Alla fine, ogni forza mi abbandon.
Sedevo lunghe ore davanti alla casa che avevo affittato. Neppure pi la rabbia:
il tradimento di Fransisca sembrava avermi annacquato il sangue, e velato
gli occhi, e tappato le orecchie: un giorno la padrona di casa mi parl a
lungo, piangendo; io le mormorai qualche parola che voleva essere di consolazione
ma pi tardi mi accorsi che non avevo capito nulla di ci che mi aveva detto; e
lei non torn pi, neppure per riscuotere l'affitto. Senza darmene ragione,
senza nemmeno cercarla, una ragione, mi avvedevo che erano sparite persone
con cui avevo preso dimestichezza da che abitavo nel rione. Di tratto in tratto
mi rendevo conto che nessuno pi mi sorrideva, che, anzi, nelle botteghe in cui
mi recavo a comprare un po' di cibo mi guardavano con ostilit. Neanche di
ci mi importava. In mezzo a una immane tragedia, come dovevo scoprire pi
tardi, il mio dolore s'era trasformato in un egoismo gretto e feroce.
Poi vennero a salutarmi i compagni
che avevano fatto con me il viaggio dalla Valcamonica e che, tutto preso dal
mio amore, avevo disertato. Di ritorno dalla loro missione in Friuli e in
Carinzia, tentarono invano di parlarmi dei buoni affari, delle molte avventure.
Ma io non li ascoltavo n loro si ostinarono nei racconti: anche in Friuli
avevano trovato la peste; ed ora avevano fretta di tornare a casa per rivedere
i propri cari: le notizie giunte a Venezia e che io non m'ero curato di
raccogliere, parlavano dell' avanzata della peste verso il lago d'Iseo, dunque
verso i nostri paesi.
Tentarono inutilmente di convincermi
a partire con loro. Mi guardavano con piet mentre io inventavo maldestramente
affari mirabolanti che mi obbligavano a restare ancora per qualche tempo.
Mi domandarono se non ero malato. Pi
ruvidamente, il pi anziano, Bartolomo da Cemmo, al quale consegnai i soldi
della vendita del legname perch li riportasse a mio padre, mi ricord che io
avevo ben altri doveri nei confronti della mia famiglia: i soldi, dopo
tutto, sono sterco del diavolo, non sentivo la necessit di tornare per conoscere
la sorte dei miei cari? Mentii stancamente: Torner, torner; ma nel mio
cuore piangevo: Non torner mai. Aspetter Fransisca, la riprender con il mio
affetto, con la forza la riprender e vivr con lei, dove lei vorr... .
In qualche modo, tuttavia, l'affetto
dei miei amici, la loro stessa partenza che mi riduceva alla pietosa solitudine
di un uccello di stormo incapace di riprendere il volo quando i suoi compagni,
incalzati dal presagio dell'inverno, si alzano verso le invisibili rotte
fissate dall'istinto, riuscirono a scuotermi per qualche ora.
Vedevo che anche nei miei amici, come
in me, non c'era pi allegria, svanito ogni spirito d'avventura. Dov'erano
le canzoni che avevano animato il nostro viaggio mentre spingevamo i buoi con i
grandi carri gi per sentieri pencolanti su orridi abissi, mentre ci
arrestavamo esasperati in mezzo a strade di paese troppo anguste per il nostro
carico, mentre faticavamo in terre paludose, bestemmiando per le punture
avvelenate di feroci zanzare? I miei compagni sapevano che il viaggio che
stavano per iniziare sarebbe stato un lungo viaggio attraverso il dolore;
e dolore, probabilmente, sarebbe stata la loro meta. Non tornavano a casa per
salvarsi, lo facevano per affrontare il pericolo fra gente cara, per aiutare e
ricevere aiuto, per morire, se bisognava morire, accanto alle madri e alle
spose.
Io, invece, sarei morto da solo:
perch la morte, ormai, era vicina a tutti noi. Me ne resi conto solo
allora, dai discorsi dei miei compagni, per la prima volta da che il morbo
aveva preso a uccidere migliaia di persone, e anche il mio segreto amore.
Ascoltai terribili descrizioni
dell'abisso morale nel quale non soltanto Venezia ma tutta la cristianit
andava sprofondando. Coraggiosi reggitori della cosa pubblica deliberavano
saggiamente; eroici frati si contagiavano portando ai morenti gli estremi
conforti della fede; medici intrepidi, rischiando la vita, si chinavano
sui malati, cercando affannosamente di scoprire le cause della pestilenza e i
possibili rimedi mentre la loro antichissima scienza sembrava diventata
una bambina cieca. Ma la maggior parte dei nobili, anche quelli investiti
di pubbliche responsabilit, fuggiva lontano, come aveva fatto Fransisca;
e la maggior parte degli scienziati li seguiva quasi fosse delegata alla
cura soltanto di chi - per le sue stesse condizioni di vita - era meno esposto
al contagio. I monaci rimanevano chiusi nei loro conventi. Si sussurrava che
persone maledette spargessero il contagio, su istruzioni di Satana,
ungendo con veleni le maniglie e i battenti delle porte. Superstizioni e
simonia dilagavano.
Per ammassare nei lazzaretti i poveri
appestati, in mancanza di pubblici dipendenti si era dovuto far ricorso a gente
di malaffare, di quella che tiene la vita come un'avventura da affrontare
giorno per giorno, senza problemi e senza altri sentimenti che l'orgoglio della
propria forza fisica; a "tristi" venuti sin dal Friuli e dall'Austria;
e addirittura a banditi e galeotti, liberati dalle catene per una condanna
che sembrava a tutti, ma non a loro, pi terribile. Erano essi - i picegamorti
o pizzicamorti, come li chiamavano- che aggiungevano orrore ad orrore.
Allegramente, quasi per un carnevale fuori calendario, dilagavano per i
sestieri, facendo tinnire i campanelli di bronzo che portavano alle
caviglie: imponevano ad osti e trattori di servirli gratuitamente,
saccheggiavano le case degli ammorbati, si mescolavano alle centinaia di
prostitute che le autorit andavano rastrellando nei bordelli per
rinchiuderle nei lazzaretti a servire come donne di fatica. Erano essi che
portavano via dalle case veneziani e veneziane, talvolta urlanti povere
proteste e minacce, pi spesso vaneggianti o senza voce; essi, fuori e dentro
gli ospedali, a decidere chi fosse gi morto e chi ancor vivo, chi da gettare
su un letto, chi in una fossa, chi da bruciare. E di loro, i picegamorti, si
diceva che nessuna donna o ragazza avvenente, moribonda o gi morta, finisse
sepolta o abbruciata senza che essi vi avessero impresso il sozzo sigillo della
loro animalit.
Mi colpirono anche, terribilmente, i
racconti che i miei amici andavano facendo sui lazzaretti. Erano inferni in cui
migliaia di persone si trascinavano come larve o giacevano in tre o in quattro
in uno stesso letto, dal quale i morenti venivano gettati dai meno deboli, che
pure non ignoravano che anche a loro, e fra poco, sarebbe toccato quest'ultimo
spregio.
Un orrendo fetore si levava da quei
recinti. Cibo e medicamenti venivano distribuiti alla turba dei dannati da
pochi volonterosi, autentici santi. Ma i santi erano pochi e moltissimi i
dannati: e perci v'era chi moriva di fame o di sete prima ancora che di peste.
E se i giorni erano orribili, le notti erano anche peggiori: l'oscurit o
l'immensit del cielo stellato, che sembrava a taluno una coltre soffocante
gettata sul suo torace, o l'enorme cerchio della luna su cui altri credevano -
nell'improvvisa follia - di leggere i tratti di un teschio sogghignante,
favorivano lo scatenamento degli incubi; e v'erano malati che, con
subitanea energia, balzavano dai loro giacigli e urlando selvaggiamente si
gettavano nella laguna, quasi cercando di sfuggire alla, morte, o, almeno, a
quel modo di morire; oppure tentavano di evadere attraverso gli orti che
circondavano i lazzaretti e rimanevano trafitti dalle siepi di rovi innalzate
per recinzione.
Giurai a me stesso che mai sarei
diventato preda dei picegamorti, che mai sarei giunto vivo in uno di quegli
orrendi luoghi in cui la Creazione sembrava definitivamente sfigurata.
Se poi ricaddi nella mia tetra
abula, nonpertanto questi sentimenti rimasero vivi in me, in qualche recesso
della mia mente ottenebrata.
7
Dopo il sogno in cui Fransisca m'era
apparsa mentre danzava sulla gondola e dopo il penoso risveglio, ero ripiombato
in un sonno greve e agitato. Ancora una volta mi ero ritrovato davanti alla mia
donna e ancora una volta lei era tanto diversa da come l'avevo conosciuta. Nel
sogno, un mantello d'oro foderato d'azzurro le ricopriva il capo, scendeva in
grandi drappeggi su tutto il corpo, a celarne le forme. Fransisca stava eretta,
immobile su un altare ligneo dalle grandi volute. Guardava lontano, con un
lieve sorriso, e fra le braccia stringeva un bambino biondo, immobile,
dagli occhi spalancati. L'ambiente era buio, illuminato soltanto da qualche
candela. Io avanzavo verso di lei, trascinando le gambe che mi parevano
diventate di pietra, invase le orecchie dal battito convulso del mio cuore.
Non osavo neppure pronunziare il suo
nome; e mentre me ne stavo immobile, davanti a quella immagine straordinaria,
il silenzio che sino a quel momento aveva dominato il sogno veniva frantumato
da turpi grida. Due diavoli, dall'orrendo grugno di cinghiale, si precipitavano
su di me, urlando: la Madonna, non vedi? In ginocchio, sacrilego, tu
sei dannato! . Uno di essi mi uncinava le ascelle con i suoi artigli; l'altro,
con le sue zampe di capro, con gli zoccoli biforcuti, mi tempestava l'inguine
di calci.
Questa volta mi risvegliai gemendo,
con la sensazione di avere sfiorato un abisso mortale. Andai a cercare un po'
d'acqua, bevvi avidamente. Poi mi accorsi che il dolore alle ascelle e
all'inguine continuava. Alla luce di un lume le une e l'altro mi apparvero
tumefatti. Non potevo dubitarne: ero appestato.
L'ho gi detto: non piansi, non mi
disperai. Mi pareva di non voler pi vivere. Una sola cosa mi sembr importante,
il modo di morire.
La prima idea fu questa: raggiungere
la Terraferma, comprare (o, se necessario, rubare) un cavallo e poi, sin che il
morbo me lo consentisse, galoppare verso la villa di Fransisca. Mi sarei
lasciato cadere dinanzi ai cancelli: perch lei sapesse che, anche morendo, le
ero stato fedele... Ma, all'improvviso, mi parve che un velo mi cadesse dagli
occhi. Proprio ora che ero finito e che avrei dovuto cercare di rendere santa
la mia morte perdonando ai miei nemici, sentii che la mia passione si
trasformava in odio profondo, in furioso rancore. Pensai che non soltanto Fransisca
mi aveva negato il suo amore, ma anche mi aveva negato salvezza: se, per
lei, Venezia era la morte e la sua villa l'unica speranza, ebbene mi aveva
sbarrato le porte della speranza.
Dio abbia misericordia di me, per
quest'odio; e di Fransisca che, mentre in quell'alba la maledicevo, era gi
morta, raggiunta dal contagio l dove sperava d'essere salva: portata via
dalla peste come dal Brenta che fluisce lento con i suoi colori di foglia
appena sbocciata.
Il morbo non mi aveva ancora
indebolito, o forse traevo energie dal mio furore. Capivo che se mi avesse colto
la spossatezza non avrei potuto evitare i picegamorti;
e capivo che in una citt in cui
ormai ognuno diffidava del suo vicino sarebbe stato impossibile trovare un
rifugio in cui morire fuor dall'inferno dei lazzaretti. Bisognava fuggire
da Venezia, subito. Mi vestii, raccolsi il mio danaro, misi in una bisaccia un
po' di cibo e uscii nella notte che gi si incrinava.
Non sapevo dove andare; ma, raggiunta
una calle, vidi nell'oscurit una decina di barche all'ormeggio e una di esse
aveva sul fondo il suo lungo remo. Salii, sciolsi la fune che la legava a un
palo, misi il remo nello scalmo e cominciai a vogare. Ogni volta che il remo
scendeva nelle acque, ne accompagnavo il fendente con un'imprecazione contro la
donna che ora mi appariva soltanto una creatura perversa, crudele come un gatto
selvatico, ingannatrice come la neve che nasconde un crepaccio.
Non mi curai di scegliere una
direzione: l'importante era andare lontano, raggiungere la costa, e poi la
Terraferma. E poi, sinch le forze me l'avrebbero concesso, marciare verso
Nord-Ovest, verso i miei monti, fra i quali, adesso, mi sembrava che la morte
sarebbe stata meno dolorosa. Remai a lungo. S'era fatto mattino ma una nebbia
fitta era scesa sulla laguna. Urtai contro gli spigoli di palazzi e di
imbarcaderi, intravidi archi di ponti, mi giunse sempre pi frequentemente il
tonfo soffocato di altri remi e, di quando in quando, il grido di avvertimento
di invisibili vogatori.
Poi, mentre il sole si impigliava
nella nebbia e la tramutava in un pulviscolo di luce, udii un canto
dolcissimo e solenne, cantato da cento e cento voci. Era il canto dell'Ora
di Prima, quello che dice:
Jam lucis orto sidere,
Deum precemur supplices...(1)
A quel canto, che mi ricordava
irresistibilmente le liturgie del mio paese, mia madre e le mie sorelle
raccolte in preghiera, e che giungeva sino a me da un paradiso cui sembrava
facile arrivare, mi lasciai cadere sul fondo della barca e piansi come un
bambino...
Poi la nebbia si lev e mi trovai a
contemplare uno spettacolo grandioso e incomprensibile. Alla mia destra ve devo
l'inferno di un lazzaretto con le macabre fumate dei roghi mortuari. Alla mia
sinistra, invece, cio da dove proveniva il canto, la laguna era fitta di
barche e barconi, quasi un'immensa flotta di pescatori avesse deciso di porre
assedio alla Serenissima; e nel mezzo di quella flotta, come pastori
in mezzo a un gregge di pecore, erano alla fonda tre galee. Dico galee , ma
l'incastellatura era diversissima da quella delle navi che avevo imparato a
conoscere nel mio soggiorno veneziano: al di l delle murate erano state erette
grandi baracche, a due e persino tre piani; ed altre pi piccole
(1) Ormai sorta la stella della luce, Ci rivolgiamo supplicanti a Dio...
vi erano state aggiunte, quasi per
proliferazione, al di sopra e ai lati, cosicch ciascuna di quelle navi
somigliava adesso a certe raffigurazioni affrescate delle antiche citt: in
cui, dentro la cerchia delle mura, le case sembrano costruite l'una
sull'altra, facendo insieme da basamento alle torri e alle roccheforti.
Sulle barche e alle finestre delle
baracche vedevo una moltitudine di persone. Erano gli uomini e le donne e i
bambini che avevano appena finito di cantare l'inno; ed ora i maschi
chiacchieravano allegramente mentre le mogli si affaccendavano ai fornelli
delle cambuse.
Contemplavo attonito quello
spettacolo di serena letizia, cos? incredibile sullo sfondo sulfureo del
lazzaretto, quando la mia barca, lasciata alla deriva, and a scontrarsi con il
fianco di una maona. Alzai gli occhi e inorridii: sull'imbarcazione sventolava
una grande bandiera gialla e si ergeva una forca; dalla forca pendeva un uomo,
nero in volto, la lingua oscenamente penzoloni; nudo il torso, le gambe
divaricate. Portai le mani al viso, per non vedere, ma in quel mentre sentii
una risata. Poi qualcuno dalla maona mi apostrof allegramente: Non ti
piacciono gli impiccati, neh? . Trovai il coraggio per rialzare lo sguardo. Un
vecchio calvo, dal viso arguto, gli occhi celesti e una barba bianca a collare,
mi sorrideva cordialmente, spenzolandosi dalla murata.
Benvenuto nel Paese di Cuccagna!
mi disse. Qua si mangia e si beve senza pagare e si lavora poco. Muoiono
impiccati soltanto quelli che non vogliono morire tranquillamente o si
provano ad essere pi furbi delle guardie. Sali, sali, non te ne pentirai!
8
Ero ancora ragazzo quando avevo
assistito all'impiccagione di un assassino sugli spalti del castello di
Breno; e giovanissimo quando, milite di una cernida (i corpi armati
della Valcamonica), avevo dovuto fare la guardia al corpo sfracellato del
bandito Sbaruft, trafitto da cento colpi di lancia, di bastone e di picca.
Avevo visto, pi tardi, la testa mozza del delinquente ricoperta di sale e di
foglie di lauro, spedita poi a Venezia perch il Consiglio dei Dieci, su questa
prova irrefutabile, pagasse la taglia promessa...
Voglio dire che avevo gi contemplato
- e non raramente: com' proprio, del resto, dei duri tempi in cui viviamo
- lo spettacolo della morte data per legge. Ma adesso che la morte falciava
interi popoli come i contadini falciano l'erbe dei campi e sembrava avere preso
sottobraccio anche me, mi pareva intollerabile che gli uomini si mettessero ad
aiutarla. Perci il cadavere di quell'impiccato mi faceva orrore; e per
niente al mondo sarei salito a bordo di quel galleggiante palco dei supplizi.
Il vecchio non insistette. Scese,
anzi, con l'agilit di un giovane, per la scaletta di corda che pendeva dalla
fiancata e venne a sedersi nella barca accanto a me. Portava una pagnotta
e una fiasca di vino. Aveva subito riconosciuto il mio accento: sei anni prima,
raccont, era stato nei nostri paesi quando, in occasione della guerra di
Cipro, la Valcamonica aveva donato a Venezia una grande quantit di ferro, poi
convertita in bombe nella fonderia di piazza del Duomo, a Brescia. Lui,
Zuanmaria Padoan, aveva fatto
parte della truppa inviata a
prelevare il metallo, controllare la fusione dei proiettili, scortarli infine
agli arsenali veneziani. Brava gente, voi Camuni! diceva, passandomi la
fiasca. E mi dispiace di vederne uno da queste parti. Ma va l che ce la
farai, com' successo a me. Bevi, bevi ch ti fa bene.
Seppi da Zuanmaria dove la
Provvidenza e il terrore mi avevano sospinto. Divenuti ormai insufficienti i
due lazzaretti (l'uno costruito all'epoca della grande pestilenza di due
secoli prima, l'altro approntato in gran fretta non appena il contagio
s'era rivelato tanto vasto), il Consiglio dei Dieci aveva deciso di allestirne
un terzo, utilizzando vecchie galee e altri vascelli in disarmo. Vi si
recavano, spontaneamente o forzatamente, centinaia di veneziani sospetti
di aver potuto contrarre il morbo e tuttavia immuni, per il momento, dalle sue
stimmate. Vi rimanevano tre settimane: se il male si manifestava, venivano
condotti ai due altri lazzaretti, altrimenti, muniti di una fede di sanit,
potevano tornare alle loro case.
Era una vera e propria citt
galleggiante, di migliaia di abitanti, con guardie armate e medici e preti e
scorte di viveri, vesti e medicine. Al tramonto, la laguna circostante
formicolava di imbarcazioni di parenti venuti dalla Dominante o dalla
Terraferma a chiedere e portare notizie. Il chiasso che ne risultava era
dominato piuttosto da grida allegre, scherzose, che da lamenti: il pianto ha
spesso voce pi fioca della letizia; chi sano, poi, crede di sollevare i
malati se mostra, con la sua rozza allegria, che, dopo tutto, la vita continua...
Una schiera di maone che inalberavano
bandiera gialla segnava il limite che nessuno poteva oltrepassare se non per
darsi nelle mani dei medici; e alla forca sotto la quale ora mi trovavo
venivano sbrigativamente appesi coloro che violassero la disciplina
dell'ospedale o che, scoperti malati, avessero tentato di evadere per non
essere trasportati ai lazzaretti.
Cerchiamo di passare il tempo nel
migliore dei modi , diceva Zuanmaria, trincando, sia noi guardie sia i
sospetti. Qui non ci sono picegamorti, si fa tutto con grazia.
I malati li portiamo via gentilmente
e quasi tutti sembrano gi preparati alla loro sorte. Gli altri pregano per chi
se ne va e, sotto sotto, sono convinti che la scamperanno. Quanto ai
medici e ai preti, sono brava gente e non rompono le scatole.
Chiacchieravamo placidamente (io
stesso, ormai, quasi dimentico della mia situazione) quando accanto a noi
comparve silenziosamente una scialuppa. Portava un signore con elmo e
corazza, quattro soldati e due rematori. Parl il signore, chiedendomi
perentoriamente che cosa facessi in quelle acque vietate...
Avevo dunque sbagliato a fermarmi a
discorrere col vecchio. Ma ora non avevo neppure pi voglia di fuggire. Se
dovevo morire entro pochi giorni, tanto valeva trascorrere serenamente le
mie ultime ore in questo ambiente che mi pareva cos tranquillo. Poi, al
momento in cui la mia malattia fosse stata scoperta, prima d'essere trasportato
al lazzaretto avrei trovato il modo di gettarmi in acqua. Non sapevo nuotare e
la mia morte sarebbe stata quasi istantanea.
Con questi sentimenti di
rassegnazione mi preparai a rispondere all'ufficiale.
Doveva essere abituato alla
confusione di chi giungeva all'ospedale galleggiante perch, non appena io ebbi
mormorato confusamente che abitavo presso una famiglia colpita dal
contagio, mi risparmi lo sforzo di inventare altre notizie. Disse: Va bene,
va bene, il resto lo vedranno i medici, adesso seguitemi. Feci un cenno di
saluto a Zuanmaria, poi vogai dietro la scialuppa sino alla fiancata d'una
galea.
Accanto ad essa, su una grande
zattera, erano ammassate una cinquantina di persone. Salite! intim
l'uffcia le. La vostra barca dtela per persa. Se finirete al lazzaretto,
difficilmente vi servir ancora. Se vi salverete, non farete fatica a trovarne
un'altra in qualche rio. C' tanta roba senza padrone, ormai, a Venezia!
Montai sulla zattera, guardato appena
dalla gente che gi vi si trovava. C'erano intere famiglie, con vecchi e bambini;
coppie giovani, o anziane che nel pericolo avevano ritrovato l'antica
tenerezza; e persone sole, che sembravano le pi tristi e inquiete: teme di pi
per la propria vita chi pensa che nessuno lo pianger...
Ben presto ricevemmo l'ordine di
salire a bordo. Avevamo appena cominciato ad avviarci silenziosamente su
per la scaletta appesa al fianco della galea quando improvvisamente le
murate della nave si ricoprirono di una folla festosa che applaudiva al
nostro arrivo e ci lanciava incitamenti e grida di benvenuti sulla nave
dei matti. Poi, attoniti, sentimmo che un'orchestrina aveva cominciato a
suonare.
9
Misi piede su un
assito solido ancorch ondeggiante, che faceva una specie di strada dinanzi
alle baracche costruite su tutta la nave. Venimmo ammassati in uno slargo,
in attesa, pensai, di essere alloggiati. Sui visi smorti dei miei compagni era
tornato il colore mentre riconoscevano nella folla chiassosa parenti, amici o
semplici conoscenti che per, in quel momento, sembravano loro, evidentemente,
fratelli ritrovati all'improvviso.
Dietro il cordone
delle guardie, i veterani dell'ospedale galleggiante reiteravano le loro
grida di incoraggiamento: Qui si sta bene, qui ci si diverte, qui non si
muore! . Intanto, da un palco appoggiato alla maggiore fra le baracche, i
musicanti - uomini e donne - vestiti a festa, continuavano il loro allegro
concerto.
Pareva una sagra
paesana. E scoprii che anch'io stavo sorridendo, senza che ne avessi voglia n,
tanto meno, ragione.
Poi la festa,
subitamente, cess. La folla ammutol, i musicanti interruppero nel bel mezzo
una lieta marcetta e rientrarono a testa bassa nella baracca, quasi vergognosi
della propria esuberanza. Sembr che il cielo stesso si fosse rannuvolato
mentre, circondata da gendarmi, si approssimava al nostro gruppo una
spaventosa figura.
Mi parve dapprima un
mostruoso uccello grande come un uomo: aveva occhi di vetro, un lungo becco
ricurvo, il portamento rigido dei fenicotteri quando zampettano negli stagni.
Ma come si avvicin, nel silenzio improvvisamente disceso sulla folla, potei
vedere che si trattava di un uomo mascherato. Il collo, le braccia, il corpo
intero, sino ai piedi, erano rivestiti di grossa tela cerata. Sulle mani
portava guanti, pure di tela; e nella destra teneva un bastoncino bianco, lungo
una trentina di centimetri.
Tra i miei compagni
corse un mormorio eccitato: Il medico, il medico... . Mi sentii gelare: non
avevo supposto che la visita sanitaria sarebbe stata immediata, avevo sperato
in qualche giorno di serenit. Adesso scoprivo che ero fuggito inutilmente, che
da me solo m'ero, contro ogni mia volont, consegnato agli orrori del
lazzaretto.
Tramortito dalla
paura, udii a stento qualcuno spiegare che quella strana mascheratura era
un costume adottato da alcuni dottori per evitare il contagio. Il lungo
naso ricurvo era imbottito di sostanze aromatiche per filtrare l'aria infetta;
gli occhiali proteggevano le congiuntive del medico, guanti ed abito
completavano l'apparato difensivo. Il bastoncino bianco, infine, serviva per
scostare le vesti o le coltri dei malati senza toccarle.
Era, dunque,
l'armatura di un combattente contro la peste, di un difensore della sanit
pubblica; e in quella corazza il dottore certamente sudava orribilmente,
soffrendo nello svolgimento della propria soccorrevole missione; ma mi domandai
quanti, gi indeboliti dal male, non morissero per lo spavento, vedendo a pi
del letto una figura tanto mostruosa.
A me, poi, in quel
momento, il medico non poteva apparire un samaritano: piuttosto un terribile
giudice che, con un suo gesto inappellabile, apriva le porte della speranza
o dannava all'inferno del lazzaretto.
Il dottore cominci
a esaminarci l, in pubblico. Uomini e donne, arrivando davanti a lui,
dovevano spogliarsi e lo facevano senza guardarsi intorno, pi impauriti che
vergognosi. Avvicinando la sua orribile maschera al corpo del paziente, il
dottore ne esaminava le ascelle e il collo, con la bacchetta scostava braghe e
gonne per ispezionare gli inguini e le cosce.
Diede via libera a una
ventina di persone che subito, sorridendo, andarono a raggiungere gli ospiti
della citt galleggiante; con un ordine soffocato dalla maschera scart,
invece, una coppia di anziani sposi: inebetiti dalla paura, incapaci di farsi
forza a vicenda, si lasciarono guidare dai gendarmi gi per il barcarizzo,
verso il loro destino.
Tremavo. Non
avvertivo pi alcun dolore alle ascelle n all'inguine ma i segni che vi avevo
visto nella notte non mi lasciavano dubbi: sarebbe stato impossibile che il
medico non li notasse. L'antico proposito di suicidio torn vivo in me;
convinto di essere giunto al punto estremo della mia vita, mi feci il segno
della croce. Subito dopo, dall'alto, una voce aspra e acuta grid: Ehi, quel
giovane! .
Levai lo sguardo e
mi trovai di fronte a un altro straordinario spettacolo.
10
Tutt'intorno agli
alberi della galea erano state costruite, come ho gi detto, baracche
grandi e piccole, le une sulle altre. Ponteggi, passerelle, scalette di legno o
di corda le univano fra loro. Vi si movevano, chi disinvoltamente chi con
estremo impaccio, centinaia di persone.
L'albero maestro
della nave, tuttavia, si alzava nudo in mezzo a quel termitaio umano. Alla sua
estremit superiore c'era una grande cesta di vimini su cui era posta una
tettoia di frasche. Sopra la tettoia, un grande disco solare di rame con il
monogramma di Ges protendeva nel cielo punte e raggi serpentiniformi; il sole,
quello vero, vi si riverberava traendone vividi barbagli.
Guardai meglio,
parandomi gli occhi con la mano; e l nel cesto vidi una tozza figura d'uomo
che indossava un saio nero e un nero cappuccio. Nelle mani teneva un lungo
bastone sormontato da una croce; ed ora bastone e croce erano puntati verso di
me, quasi un giavellotto pronto a trafiggermi.
La voce risuon
nuovamente, imperiosa: Vieni su, ti dico! . A gesti, poich non osavo gridare
n, del resto, terrorizzato com'ero, vi sarei riuscito, feci cenno al Monaco
Nero che mi era impossibile lasciare la fila in cui mi trovavo, il
tribunale a cielo aperto che mi avrebbe, di l a poco, condannato. Ma proprio
quello che pareva il pi autorevole fra i gendarmi mi disse: Ubbidisci e mi
indic come salire per il sartiame.
Il medico si volt
di scatto verso il militare, mugolando dietro la sua maschera; a quelle
che sicuramente erano proteste, il gendarme rispose con la rassegnata
umilt dei poveri invischiati nei giochi dei potenti: Voi sapete, signor
dottore, che non bene irritare il santo padre Utilperzio . Allora il
medico alz il pugno guantato verso la coffa, grugnendo furiosamente. Poi
scroll le spalle e riprese le visite, disinteressandosi di me.
Sottratto, almeno
per il momento, al mio giudice, cominciai a inerpicarmi per corde e
scalette. Mi sentivo agile e forte come un ragazzo; ora che il pericolo del
lazzaretto sembrava stornato, anche l'idea del contagio si era dissolta come un
incubo alle luci di un nuovo giorno.
Mentre salivo, udii
levarsi sopra di me un canto solenne che presto divenne ossessivo poich
le parole erano sempre eguali:
Alto Re
della gloria,
cazz
via 'sta moria,
vi
chiediamo perdono,
soffrendo
in agona.
A ogni ripetizione
della strofetta seguiva un rumore soffocato di colpi e di sferzate. A cantare
erano una ventina di uomini vestiti di lunghe tuniche bianche, con un cappuccio
che ricopriva interamente il loro viso. Erano appesi con cinghie sotto le
ascelle alle rande cui un tempo erano fissate le vele; e negli intervalli
del canto si frustavano crudelmente con corregge di cuoio. Poich i loro
convulsi movimenti facevano s che i corpi girassero su se stessi, vidi
che il dorso delle tuniche era striato di sangue...
Questi sono i veri
cristiani, i penitenti che salveranno Venezia e l'universo mondo disse ai
miei orecchi la voce aspra di padre Utilperzio. Mi accorsi cos che, senza
avvedermene, frastornato com'ero dallo spettacolo dei flagellanti, ero
giunto sino alla coffa: nella quale il Monaco mi fece segno d'entrare.
M'inerpicai a fatica
e mi trovai talmente vicino a lui che i nostri corpi quasi si toccavano.
Padre Utilperzio
doveva avere una cinquantina d'anni, era di bassa statura, e corpulento; aveva
un volto pallidissimo e grassoccio, con grandi lividure sotto occhi tanto
neri da parere invasi dalle pupille. Due rughe profondissime incidevano le
sue guance come morse di una tenaglia che comprimesse le tumide labbra. Il viso
era lucido di sudore; e umidicce le mani paffute.
Torn a parlare:
Io vivo quass da sei mesi, in preghiera e in digiuno, sotto il sole, la
pioggia, la neve, dormendo in piedi, in piedi defecando, incessantemente
istruendo i miei discepoli sulla santa penitenza che ci varr il perdono
dell'Altissimo. Ogni giorno noi offriamo a Dio sangue e dolore perch la sua
ira si plachi e Venezia e la cristianit intera siano salve. Noi ci sforziamo
di raggiungere nelle nostre carni quel prezzo di sofferenze che il Creatore
ha imposto all'umanit come ammenda per i peccati: gli anticipiamo per amore
ci che egli si prenderebbe per giustizia .
Babilonia, disse
con odio, additandomi la citt che si profilava incerta nella foschia del caldo
mezzod quella meretrice proterva formicola di peccatori come una cagna di
pulci e crede di poter fermare la collera dell'Eterno con i lazzaretti, i
medici, le medicine. Si rifiuta al dolore, insensatamente, quando tutta la
storia dell'uomo, a causa del peccato, non pu essere che dolore. Ben pochi
veneziani si offrono volontariamente alla sete di vendetta del Signore.
Preferiscono morire nell'ignominia; ma i fuochi dei lazzaretti non sono che
un'anticipazione di quelli dell'inferno.
Ti ho visto salire
su questa nave. Io vedo tutto e so tutto. Da sei mesi osservo queste turbe di
bifolchi arrivare qui con speranza e disperazione. Talvolta, da questa altezza,
stendo la mano e dico: "Tu e tu". Indico una donna, un uomo, e sento
con certezza che sono gi dannati e che inutile pregare per loro. Li vedo
passeggiare per qualche giorno fra le baracche, riempirsi il ventre, dare sfogo
alla loro immonda libidine, persino cantare e ballare: cantare e ballare -
pensa! - mentre Dio numera i loro minuti. Poi, un giorno, il medico gli trova
la peste e li spedisce ai lazzaretti. Piangono, si ribellano, o se ne
vanno inebetiti: camminano ancora ma sono gi morti, morti per l'eternit.
Mi pose le braccia intorno
al collo, la sua bocca sfior la mia: Ma tu, tu non sei come loro. Ti ho
visto segnarti devotamente con il segno della santa croce. Ho visto la tua
bellezza e mi sono detto: quel giovane conosce la Legge della sofferenza. Egli
vorr unirsi a noi.
Guardai gli uomini
vestiti di bianco che ruotavano su loro stessi e nella gran luce del sole mi
parvero gabbiani raminghi appollaiati sulla nave. Per non so quale contrasto mi
ricordai che i preti della mia Valle usavano raccontare che il funerale di Martin
Lutero era stato seguito da turbe di dannati in veste di corvi...
Rimarrai con me,
bambino? sussurr il Monaco Nero.
11
Durante il viaggio
dalla Valcamonica a Venezia, uno dei nostri, Samuele Rizzoni, mentre guidavamo
i carri in una zona paludosa, era caduto in una pozza di sabbie mobili.
Samuele era un giovane vigoroso e noi avevamo riso del suo disappunto, prima, e
poi del suo spavento, pensando che sarebbe uscito da solo da quello che a
noi pareva un innocuo acquitrino.
Ben presto, invece,
fu manifesta la terribile insidia: se Samuele rimaneva immobile, il fango lo
inghiottiva lentamente; se, invece, tentava di sottrarsi alla voracit di
quella bocca mostruosa, lo sprofondamento si faceva rapidissimo. Solo a stento
riuscimmo a salvarlo.
Adesso, in quella
mefitica cesta sospesa nel cielo, anch'io mi sentivo come Samuele. Se rimanevo,
per cos dire, immobile, cio se accettavo di farmi schiavo di padre
Utilperzio, mi sarei salvato dall'internamento nel lazzaretto. Ma per quanto,
se ero malato? L'idea, poi, di dover rimanere appeso a cardarmi la carne
per placare un dio irato che non era il mio Dio (oh, dolce Cristo che perdonavi
alle adultere e ai ladroni, insegnavi l'amore e piangevi sulla fine di
Gerusalemme! ), questa prospettiva mi faceva orrore. Ma non accettare
l'imposizione del Monaco che mi stringeva a s avrebbe certamente
significato provocare la sua collera, essere rimandato laggi dove il medico
continuava, come l'Eterno Giudice nella valle di Giosafat, a separare i dannati
dagli eletti.
Ma le preghiere di
mia madre mi seguivano. Prima ancora che io fossi costretto a prendere una
decisione, qual cuno da sotto grid a gran voce: La Dogaressa, padre!
Arriva la signora Dogaressa! .
A quel grido, il
Monaco mi lasci con un piccolo urlo di esultanza e si sporse a guardare in
basso, verso la laguna.
Una grande scialuppa
avanzava velocemente verso la nostra galea, sospinta da sei rematori. A prua
sventolava, in un trionfo di rosso e di oro, lo stendardo con il Leone di san
Marco. Drappi arabescati ricoprivano la cabina, a poppa, e scendevano
dalle fiancate sino a lambire le acque. Ora le guance di padre Utilperzio erano
arrossate per l'eccitazione: Ecco la mia candida colomba diceva pi a se
stesso che a me. Ecco la prediletta fra le mie figlie spirituali che
viene a purificare il suo cuore! Poi con voce imperiosa grid alla ciurma
della nave-ospedale: Calatemi! .
Soltanto allora mi
accorsi che la cesta in cui il Monaco viveva era assicurata a una grande
carrucola. Prestamente, con le sue mani grassocce, padre Utilperzio ne aveva
sbloccato il meccanismo ed ora un gruppo di marinai prese a far scendere,
con grande attenzione, l'abitacolo in cui ci trovavamo. Passando accanto
ai flagellanti, le cui voci erano ormai fioche, il frate disse loro
ruvidamente, e quasi, mi parve, con disprezzo: Potete scendere anche
voi, per oggi basta . Contorcendosi con penosi gemiti, essi si sganciarono
l'un l'altro le cinghie da cui pendevano e, dopo aver liberato i loro volti dai
cappucci, cominciarono lentamente a calarsi gi per il sartiame.
La grande cesta fu
fermata a circa un metro e mezzo dall'impiantito che reggeva le baracche, di
modo che ora Utilperzio dominava la folla come da un pulpito. Con impazienza
il Monaco si rivolse verso di me: Vattene, adesso. Ti cercher pi tardi. Mi
guardai intorno e vidi che il medico e il gruppetto di persone che ancora
rimanevano da esaminare s'erano spostati altrove. Saltai dalla cesta ma la
curiosit mi trattenne un attimo a contemplare l'incontro fra Utilperzio e la
moglie di Alvise Mocenigo, il condottiero della guerra di Cipro.
Dall'estremit del
barcarizzo che dava accesso alla nave sino alla tribuna del Monaco, i
gendarmi avevano aperto un varco tra la folla. In quel varco avanzarono solennemente,
come in una cerimonia, ma con lo sguardo umilmente chino, due giovani
gentildonne; dietro di loro venne la Dogaressa, avvolta in un velo nero che
nascondeva, a delusione della folla plaudente, i suoi lineamenti
notoriamente soavi. Loredana Mocenigo Marcello era alta, slanciata; e aveva
fama di donna coltissima, particolarmente esperta in botanica talch qualcuno
osava sostenere che si dilettasse nel produrre portentosi elisir d'amore.
Un piccolo moro in
turbante, zimarra e babbucce dalle punte rialzate la seguiva, reggendo
sussiegoso il lungo strascico del meraviglioso abito nero che doveva
essere costato mesi di lavoro alle merlettaie di Burano. E intanto padre
Utilperzio si profondeva in sorrisi, inchini, cenni di saluto e di benedizione.
Ma quando la nobildonna gli fu davanti, il Monaco si drizz in tutta la sua
statura e con aria maestosa le porse la mano. La Dogaressa baci
devotamente quelle dita morbide e lerce, poi si inginocchi. A quel gesto, che
confermava la santit e lo straordinario potere di padre Utilperzio, la folla
torn ad applaudire. Poi, mentre le due dame di compagnia arretravano, si fece
un grande silenzio. Cominciava il rito della Penitenza: la Dogaressa
bisbigliava i suoi peccati, il Monaco era chino su di lei, a braccia conserte,
il cappuccio calato sugli occhi, in modo che il suo volto rimanesse nell'ombra.
Mi aprii lentamente
un varco tra la folla, raggiunsi una botola che avevo gi notato
sull'impiantito, la aprii; inosservato discesi nelle profondit della nave.
12
Non cercavo soltanto
un nascondiglio per la mia libert. Cercavo anche un luogo che mi
custodisse mentre tentavo di ritrovare me stesso dopo i terribili avvenimenti
di quei mesi e le emozioni delle ultime ore.
Mi guardai intorno.
Alla poca luce che filtrava da qualche fessura nel fasciame, compresi dove
mi trovavo e ne ebbi orrore e piet. Ero nei recessi in cui, in un passato
sicuramente prossimo, centinaia di uomini disperati, frustati a sangue da
spietati aguzzini, avevano, con la forza dei propri muscoli, sospinto la galea
per mari lontani. Sotto lo stendardo con il Leone che regge il libro dell'Evangelo,
sotto i piedi di audaci marinai, intrepidi soldati, avventurosi mercanti, una
povera umanit aveva sofferto, giorno dopo giorno, per anni. Incatenati ai loro
remi, i galeotti non avevano mai conosciuto l'incanto del mare tranquillo
n l'emozione quasi afrodisiaca dell'approdo a porti sconosciuti n la gloria
delle prue irte di alabarde. Per loro, il mare era una sterminata prateria da
falciare incessantemente, con sudore e sfinimento. Avevano patito le
agone di tempeste e di battaglie, senza neppure forse averne sgomento,
solo una sofferenza fisica in pi. Ogni otto ore s'erano abbattuti nei
cunicoli laterali per dormire o riposare come bestie da soma mentre altri
compagni prendevano il loro posto. Che cosa avevano sognato su quei miseri
giacigli? Il delitto o la sventura che li aveva dannati? O qualche
immagine della vita perduta che poi, al risveglio, al confronto con la
terribile realt, doveva essergli sembrata non un ricordo ma puro
vaneggiamento?
Qua e l, sul legno
delle pareti erano incise lettere esitanti, parole volgari, nomi di donna.
Ciascuno di quegli stenti segni doveva essere intriso di lacrime di nostalgia o
di rabbia; e anche nel mio cuore si accavallavano ora eguali sentimenti. Nel
buio del ventre della nave, come Giona nel ventre del grande pesce, tesi le
braccia verso il mio passato. Rividi la piazza in cui avevo giocato nella
mia infanzia: vi si affacciava la mia casa, che aveva sopra l'architrave
del portone una grande meridiana, quasi a simbolo dell'importanza della
famiglia. Quando le campane della parrocchia suonavano il mezzogiorno, mio
padre usciva dal magazzino a controllarla. Invariabilmente scopriva che il
campanaro aveva anticipato il corso del sole e rideva della fretta di lui.
Mio padre non aveva mai dubitato che l'errore potesse essere della
meridiana, dell'inclinazione dell'asta, dei segni incisi sul quadrante.
Ciascuno di noi ama sentirsi certo delle verit che possiede...
Ma di che cosa ero
certo io, adesso? Figlio disperso, paesano sradicato, amante infelice, mercante
senza pi mercanzia n voglia di vendere, colpito da un morbo terribile,
potevo ancora chiamarmi con il nome che mi avevano dato il giorno del
battesimo? O, senza saperlo, ne portavo ormai un altro, incomprensibile e
fatale, come quelli che Fransisca imponeva alle sue bambole?
Fui travolto da un
senso di profonda piet per la mia sorte. Mi sembrava di essere un bambino
vittima di un'orribile congiura, tutto il mondo e Dio stesso in armi
contro di me. Forse anch'io, come pensava padre Utilperzio, avevo commesso,
senza saperlo, un orribile peccato e dovevo espiarlo? Mi risposi: s, hai
tradito tuo padre e tua madre, abbandonandoli, facendoli soffrire.
Nel buio fantasticai
ad occhi aperti. Ero tornato al paese, ma il paese era deserto. Avevo salito le
scale della mia casa, di corsa ma senza rumore. Avevo sospinto l'uscio della
grande cucina. Mia madre era l, sola. Nessun suono veniva dalle altre stanze.
Lei non aveva acceso il lume ed era spento anche il grande camino dal bel
frontale di pietra simona. Con le mani in grembo, quasi le fossero ormai inutili,
mia madre fissava il vuoto. A quale dei suoi figli pensava? A un ballo
della sua giovinezza o a un vecchio che aveva pietosamente composto sul letto
di morte? Non c'era sorriso sulle sue labbra n lacrime nei suoi occhi. Come di
pietra, era, o di povero legno tarlato.
Restavo sulla
soglia, incapace di chiamarla. Quella sua solitudine mi straziava. Avevo sempre
saputo che, un giorno, l'avrei abbandonata, almeno per sposarmi; e anche
lei lo aveva saputo. scritto nella Bibbia: Perci l'uomo lascer suo padre e
sua madre e si unir a sua moglie e i due saranno una carne sola. Ma adesso
ero capace di pensare soltanto: Con lei sono gi stato una carne sola. Io la
conoscevo prima di nascere, prima che io nascessi lei mi amava .
E tuttavia non
potevo rientrare nel suo seno per essere nuovamente suo, perch lei fosse
nuovamente mia. Lei era soltanto, ormai, una povera vecchia e il suo futuro era
come l'ombra che entrava dalla finestra, sempre pi cupa, portando il freddo
della sera.
Mi feci coraggio e
la chiamai, piano: Mamma! . Lei non si volt. La sensazione di averla perduta
per sempre fu cos amara che scoppiai in singhiozzi. Mentre piangevo, mi
addormentai e sognai.
Quando io ero
bambino, mio padre, orgoglioso del proprio successo economico, aveva chiesto a
un pittore bresciano venuto ad affrescare la chiesa di Sant'Antonio di fargli
il ritratto e di farlo a mia madre. In pochi giorni il pittore aveva
eseguito il primo quadro, permettendo a noi ragazzi di affacciarci
silenziosamente alla porta del fondaco trasformato in studio, per contemplare
il suo lavoro. Con sbigottimento, quasi con paura, avevamo visto comparire
sulla tela, un po' alla volta, nostro padre, vivo: con il suo volto severo, i
chiari occhi sottili vicinissimi alla radice del grande naso, il corpo reso pi
massiccio dal pesante mantello orlato di pelliccia, una mano posata
sull'elsa della spada, l'altra piegata intorno a una lettera su cui si leggeva
il suo nome.
Avevo odiato quel
quadro e l'odiavo tuttora. A vedere mio padre in carne ed ossa, soprattutto
quando, in certe sere, si addormentava con la testa sulle braccia, subito dopo
cena, riuscivo a credere che, come assicurava la nonna, anche lui era
stato bambino. Ma l'uomo emerso dalla tela, stagliato fra tenebre notturne come
l'Orco di certi sogni, definitivo nella sua immutabilit, quello era un
personaggio che mi faceva paura, che mi ricordava busse e punizioni, una
maschera su cui non si potevano supporre n sorriso n tenerezza. Il dipinto
era fatto per questo, dopo tutto: per ricordare a chi guardava (e dunque anche
a noi figli) che Bernardino Ronchi era un uomo da prendere sul serio...
Mia madre, lei si
era rifiutata di posare. Sapeva di non essere bella e alle nostre proteste
aveva replicato: Voi mi volete bene come sono, non vi accorgete neppure se
sono brutta o no. Ma se il pittore mi facesse il ritratto, il quadro rimarrebbe
in questa casa, per sempre. Vedrebbero il mio volto i figli dei vostri figli,
bambini che non avrei tenuto in braccio, che non avrei fatto giocare, che forse
non saprebbero neppure il mio nome. Lo vedrebbero le loro spose, lo
guarderebbero sorridendo con piet e dicendo: "Ma che brutta nonna!
". Forse le donne incinte torcerebbero lo sguardo, timorose che nei figli
potessero riemergere i miei lineamenti .
Mio padre s'era
infuriato, mia madre aveva pianto, il pittore aveva lamentato l'offesa al
proprio onore. Alla fine la donna e l'artista avevano trovato un accordo.
Adesso, nella nostra casa, mia madre sorride lievemente da una grande tela. Del
suo volto, il pittore ha riprodotto soltanto quel sorriso, gli occhi, la
fronte. Il resto nascosto da un ramo di melograno che mia madre sembra
porgere a chi guarda...
E l, nel baratro
dei galeotti, mentre sopra di me la citt galleggiante era ormai avvolta dal
tramonto, io sognai di vedere mia madre com'era in quel ritratto, con il volto
notissimo a met coperto dal ramo di melograno che ora ella levava non come
dono ma a difesa della propria segreta intimit. Sorridente e lontana, mi
guardava gentilmente, quasi fossi un estraneo. Fu un sogno breve come un'apparizione.
Svegliandomi, rimasi immobile, quasi per trattenere quell'immagine e
ripensarla.
Era la madre di cui
avevo conosciuto l'utero e le mammelle, che mi aveva dato il suo sangue e
la sua carne: ma era anche lei persona, voglio dire che esisteva a prescindere
da me, non mia madre soltanto ma Annetta Celeri, stata bambina e poi amante,
con suoi sogni segreti e baci non miei e non per me, che s'era persa in altri
occhi che quelli dei suoi figli, e aveva cantato altre canzoni che le ninnananne.
Non erano pensieri
nuovi. Ricordavo di averli oscuramente nutriti di desolazione, bambino
piccolissimo, quando mio padre, con quella che a me sembrava prepotenza da
punire con la morte, esigeva di spartire mia madre con me o addirittura di
portarmela via, nel segreto terribile della camera matrimoniale; e li
avevo pensati con selvaggio dolore quando erano nati altri figli, pi piccoli e
quindi pi amabili di me, tanto cattivo. Ma avevo sentito cos anche da
adolescente quando - malato o malinconico o sconfitto nelle prime
battaglie della vita - avrei voluto che mia madre fosse ancora onnipotente come
mi era sembrata all'epoca della mia infanzia, allorch una sua carezza
metteva in fuga - o rendeva dolcissima - ogni malattia, ogni paura; ma avevo
dovuto scoprire che il suo affetto non mi bastava pi.
Questa volta,
invece, pensai questi pensieri con dolcezza e quasi con solennit, come in
un estremo congedo. Pensai che anche le nostre solitudini, la sua e la mia,
erano vita; che un bambino non pu restare per sempre nel ventre della
madre n la madre tenervelo, a meno di morire entrambi.
13
Fu una
scoperta terribile perch definitiva: la spada di fuoco dell'evidenza mi
cacciava per sempre dall'Eden di un'infanzia troppo a lungo protratta, mi
spingeva verso una terra ostile, a guadagnarmi con fatica e dolore il rispetto
di me stesso e una pi autentica libert. Non era la condanna per un
peccato: la vita, non Satana, a costringere ciascuno di noi a crescere, a
diventare simile a quegli dei di carne dal cui seme e dal cui utero siamo nati.
Compresi
allora che sino a quel momento avevo domandato a tutti di amarmi come se
fossi ancora un bambino. Anche l'insulto di Fransisca, quella sua accusa
di essermi comportato da ragazzo chiudendo gli occhi davanti al dramma di
folle innumerevoli, di essere fuggito dalla realt per saziarmi di carezze, non
mi parve pi soltanto cattiveria. Conteneva una dura verit: invece di amare
sinceramente Fransisca, di farmi responsabile della sua pena, di cercare
di crescere insieme con lei, avevo preferito rinchiudermi anch'io nella
sua bolla di sapone. Anche a Fransisca, in fondo, avevo chiesto di farmi
da madre, di addormentarmi nel piacere; e forse per questo, quella sera
sul laig, mentre la sua piccola mano andava raggelandosi per il terrore, non
ero stato capace d'intendere l'invocazione di aiuto che mi veniva dal suo
presagio di morte.
S, era cos: e quando lei mi aveva lasciato non avevo pianto la perdita
di una donna di cui avevo bisogno perch l'amavo, ma di una donna che amavo
perch ne avevo bisogno: come di una madre, appunto. E il vino ch'ero
andato bevendo d'osteria in osteria era stato ricerca di latte matemo, e i letti delle prostitute nostalgia d'un utero
che mi riparasse da ogni sofferenza; e la desolazione finale il lutto di un
bambino che, abbandonato dalla madre, non vuole pi vivere in un mondo
diventato improvvisamente senza tepore e senza luce.
Mi sembrava, adesso,
di vedermi nitidamente, come in uno specchio. Mi domandai se persino l'orrore
per il lazzaretto nascesse davvero soltanto dalla paura di morirvi nell'abiezione:
o non anche, e forse soprattutto, dal sapere oscuramente che una parte di me
era gi morta da tempo e il lazzaretto sarebbe stato l'occasione per far
prevalere quella morte sulla parte viva di me, come in certe incisioni in cui
si vede lo scheletro con la falce che trascina via, in catene, re e vescovi e
soldati e contadini e donne.
Scoprii, insomma,
che prima che il morbo assediasse Venezia e si iscrivesse nella mia carne,
c'era gi una peste dentro di me: prima che mi si tumefacessero ascelle ed inguine,
era tumefatto il mio modo di amare (o di non amare) e di voler essere
amato come se fossi il centro dell'universo mondo. E compresi che solo a
Dio potevo chiedere di amarmi cos, a lui che aveva mandato suo figlio per
salvare ciascuno di noi; ma senza pretenderlo neppure da lui. Bisognava
che imparassi ad accettare la solitudine, i miei limiti, il dolore; che
accettassi di perdermi; sta scritto anche nel vangelo: Solo chi perde la
propria vita la salva.
Dopo queste
riflessioni, non mi sentii meno sofferente; ma decisi che avrei affrontato
con maggiore serenit le prove che mi attendevano. Forse la peste fisica, la
paura, l'esperienza del dolore andavano guarendomi dall'altra peste in cui
vivendo morivo.
Ritrovai la botola
che portava sul plancito e uscii nel freddo della sera.
E tu chi sei? Un
bambino di circa dieci anni poneva la domanda, guardandomi con sorridente
curiosit. Lo teneva per mano un uomo giovane, dal volto affaticato ed
energico: suo padre, non potevo dubitarlo a causa della somiglianza.
Chi sei? torn a
domandare il bambino. Ma fu il padre a rispondere, e guardando me invece che il
figlio: Questo disse quel figlio di puttana che mi sfuggito stamani
con l'aiuto di quel grandissimo figlio di puttana che la Bestia Utilperzio.
Che voleva dire?
Poi, di colpo, compresi: quell'uomo era il medico che, la mattina, avevo visto
chiuso nel suo scafandro e cui ero riuscito a sottrarmi. Tutto avevo pensato,
allora, tranne che sotto l'orribile maschera potesse celarsi un uomo
giovane e, tanto meno, una persona capace di nutrire affetti e sentimenti...
Il dottore se ne
stava col suo bambino sulla soglia di una baracca che era evidentemente il suo
laboratorio e il cui interno era vividamente illuminato. Adesso mi avvert
puoi scegliere: o farti visitare buono buono o aspettare che io chiami i
gendarmi ; e me ne indic due che stavano nei pressi chiacchierando
placidamente, come tante altre persone fra baracca e baracca.
Al suo cenno, lo seguii
nella stanza, mi denudai, attesi con rassegnazione la mia inevitabile
condanna. Non venne. Quando il medico mi disse che potevo rivestirmi, rimasi a
lungo come inebetito, poi esaminai incredulo il mio corpo: le tumefazioni che
vi avevo visto la notte precedente erano scomparse...
Credo che impallidii
e poi arrossii violentemente perch il medico mi disse subito: Credevi di
essere malato, non vero? . Assentii mentre il cuore mi batteva forte. Beh,
per il momento ti sei sbagliato. Va' pure. Dove? domandai umilmente. Lui
guard in alto: lass sulla coffa, il Monaco, come un enorme calabrone, si
moveva intorno a una lanterna. Non vuoi raggiungere il tuo protettore?
domand il medico. Meglio la peste risposi. Gi disse lui rabbiosamente.
Meglio la peste. Perch la peste, un giorno, si riuscir a vincerla, mentre
la superstizione vivr sino alla fine del mondo. Solo Cristo, tornando, la
stroncher: quanti altari, allora, saranno rovesciati e quanti eretici
saliranno in cielo!
Sembrava parlare a
se stesso. Poi torn a guardarmi, questa volta con simpatia: Dunque, per te,
niente angeli con la frusta. E invece, magari, hai fame. Siedi, siedi: benvenuto
nella nostra casa.
14
Quella notte vegliai
a lungo con Zeno Sartirana, il medico. Non so quale impulso lo spinse a
confidarsi con me: forse il mio risoluto diniego a seguire padre Utilperzio o
forse il dolore di cui mi sentiva carico. Egli stesso soffriva, lo intuivo. Era
un uomo solo, reso tale - mi pareva - non da personale inclinazione ma dalla
propria professione che, in quel periodo, aveva assunto cos sinistra impronta.
La presenza accanto
a lui di un figlio bambino, ma non di una moglie, mi faceva pensare a qualche
dramma familiare sul quale non mi sembr lecito avanzare domande.
Mentre ogni brusio
si spegneva nella citt galleggiante, e il piccolo, Veniero, dormiva
accanto a noi, il medico volle che io gli raccontassi la mia storia. La ascolt
con rispetto, ma rise quando gli dichiarai che pensavo di avere ricevuto
un miracolo: Niente miracolo >> disse. C' chi, per sopravvivere, ha
bisogno di credere di essere malato, un po' come il mendicante che si finge
zoppo o cieco per impietosire la gente. Naturalmente il finto malato di cui
parlo non un truffatore, un uomo dabbene e magari un santo: solo che, senza
accorgersene, spera che, inscenando una bella malattia, otterr che la gente
gli voglia pi bene. E cos ecco uno con l'asma e l'altro con l'eczema e il
terzo, riverito signor mio, con una peste che non peste. Al momento del
dunque, poi, quando si tratta di soffrire davvero, qualcuno improvvisamente ci
ripensa, come hai fatto tu, e consente alla propria natura di togliersi la
maschera; qualcun altro, invece, non ci riesce perch il tristissimo gioco
durato troppo a lungo e sotto la maschera non c' pi un volto; o la gamba
mantenuta rigida si anchilosata. Laggi nel lazzaretto, io penso, devono
essere entrate decine e decine di persone che della peste avevano soltanto
un simulacro...
Tacque a lungo, movendo
fra le mani, pian piano, il bicchiere di vino al quale non aveva ancora posto
le labbra. Poi riprese, senza pi sorriso: Anche la superstizione fa tante
vittime. $ per questo che odio il frataccio che sta lass. Convincendo la gente
che il Signore vuole punirci tutti, Utilperzio e i suoi simili finiscono per
convincerla che peste eguale a volere di Dio, e dunque sanit e medicina sono
ribellioni al Sommo Giudice, bisogna pentirsi e non curarsi, e quasi cercare il
contagio...
Maledetti
cialtroni! Hai mai visto, su qualche spiaggia, uno di quegli insetti
chiamati coleotteri stercorar ? Sono una specie di scarabei che non
appena trovano un escremento lo trasformano in piccole sfere che poi
sospingono golosamente nelle proprie tane. Ecco: Utilperzio e tutti i frati e i
preti come lui tesaurizzano lo sterco morale del mondo, si ingrassano delle
paure, del bisogno di magia, dell'ignoranza della povera gente. Qualcuno di
loro lo fa per soldi, come quelli che vendono formule e medaglie miracolose;
qualcuno lo fa perch egli stesso schiavo della superstizione: lo sai che a
Venezia stanno distribuendo in questi giorni, con l'assenso dell'eminentissimo
Patriarca, l'acqua risanatrice di una fonte benedetta nientepopodimeno che
da san Sebastiano? Ma i pi, come Utilperzio, lo fanno per smania di potere. Se
essi possono davvero fermare, incanalare o distribuire l'ira del Cristo,
allora essi stessi sono dei piccoli cristi: e la gente, un po' per terrore
della peste, un po' per credulit e un po' perch non si sa mai, gli bacia le
mani e si piega al loro volere.
I nobili li
proteggono. Oh no, gli eccellentissimi non credono in altro che nel proprio
privilegio, ma chi proclama che la Terra una valle di lacrime abitua il
popolo a non ribellarsi alla propria sorte e quindi un loro naturale al
leato. E le pie mogli degli eccellentissimi (hai visto la Dogaressa?)
hanno bisogno dell'aiuto di sacerdoti di quella specie per conciliare il
diavolo e l'acqua santa: il lusso e l'adorazione della croce, la schiavit e la
legge dell'amore, la pigrizia mentale, il lassismo dei costumi e la speranza
che la loro ricchezza si prolunghi al di l della morte. In cambio di una
"fede di sanit" spirituale da esibire a san Pietro, rinforzano il
prestigio di quelle bestie tonsurate...
Ma neppure la
Scienza pi nobile continu amaramente. Prendi per esempio un grande
studioso veronese, Alessandro Canobbio, al quale molti domandano reverentemente
consiglio. Fuggendo nelle loro ville sul Brenta, senza tollerare di sottoporsi
ad alcun controllo, i nobili veneziani hanno portato la peste in tutta la marca
padovana. Le autorit della zona, e pi ancora i popolani, hanno
protestato vivacemente. Che ha detto, allora, e scritto, l'esimio Canobbio?
Che quelle accuse erano infami e sciocche. E sai perch? Perch, dice, i nobili
sono i padri dei poveri: e quando mai s' visto un padre fare del male ai
propri figli?
E leggi, leggi
quest'altro gran dottore! No, aspetta, lasciami divertire. Ascolta: "I
salassi della peste sono opera della natura la quale, a guisa del buon medico
che apre le vene a quei che sono troppo sanguigni, opera una benefica
purgatione in una citt dove ormai il popolo sopramodo cresciuto. La
volont divina ha permesso una simile moria affinch si liberi il mondo di
scellerati e se pure nella generale mortalit scompaiono anco de' buoni, questi
la bont d'Iddio leva dalle miserie del mondo per condurli a vita santa".
Dunque: viva la peste che depura la Dominante dall'eccesso di sangue
plebeo! E i poveri se ne stiano cheti nella loro miseria: qui hanno la
Serenissima che li salva dalla fame, quel tanto che basta perch lavorino; e di
l hanno il buon Dio!
Cos ragionano, o
fingono di ragionare, i nobili e i dotti! Puttane, amico mio, puttane. E
bestie. E vili. Pi della met dei miei colleghi sono fuggiti da Venezia; e, co
munque, a Venezia o in Terraferma, cercano la risposta al morbo sui vecchi
libri piuttosto che sull'osservazione del malato e dei modi con cui il contagio
si diffonde. Eppure dovrebbe essere chiaro che non nei libri dei maestri dell'Antica
Grecia che troveremo aiuti contro ci che i maestri dell'Antica Grecia non
hanno conosciuto; tanto meno ci serviranno le ricette elaborate da chi, invece
di guardare la realt, ci filosofeggia sopra...
Forse perch il
padre aveva alzato un po' la voce, il bambino si agit inquieto sul suo
giaciglio, lamentandosi come in preda a un incubo. Il dottore corse presso di
lui, lo carezz sulla fronte, gli parl con dolcezza. Quando Veniero si
riaddorment, Zeno Sartirana mi guard con occhi stanchi e disse: Povero
bambino, sua madre al lazzaretto.
15
La moglie del dottor Sartirana era stata
portata via dalla propria casa una mattina, mentre egli visitava i malati
del sestiere. Da tre giorni il medico temeva che ella fosse contagiata e le
aveva chiesto di rimanere isolata nella sua stanza: Non so che cosa avrei
fatto mi confess quando mi fossi accorto che era veramente appestata. Ma
qualcuno ha deciso per me, deponendo una lettera anorima in una di quelle
"bocche delle denunce contro la sanit" che il Consiglio dei Dieci ha
fatto collocare un po' dovunque. I reggitori di Venezia conoscono bene l'animo
umano: la paura, l'invidia, la garanzia del segreto fanno s che ormai la citt
formicoli di probi cittadini che aiutano il governo a sequestrare i malati.
Saggezza e ignominia si confondono: si salvano i corpi e si dannano le anime,
insegnando l'ipocrisia e favorendo, anzi aizzando, la malvagit...
D'altronde vero che mia moglie era ammalata; ed anche il segreto ha un senso:
se la denunzia non fosse stata anonima, io avrei ucciso la spia. Forse non
per me: ma per la scena terribile che ogni notte Veniero torna a vivere.
I picegamorti avevano bussato alla casa del
medico. Appena giunti da Vicenza, lui ancora agli inizi della professione,
i Sartirana non avevano domestiche. Veniero, fiduciosamente, aveva aperto:
quattro o cinque uomini erano entrati, gli avevano chiesto brutalmente dove
fosse sua madre. Terrorizzato da quelli che aveva scambiato per banditi
(non commettendo, del resto, un grande errore), il bambino era stato
incapace di rispondere. Lo avevano scosso violentemente, malmenato. Poi la
signora Sartirana era comparsa sulla soglia della sua stanza: pallida,
sommariamente vestita, ma con un sorriso sulle labbra. Senza avvicinarsi al
bambino, gli aveva detto: Questi bravi signori sono venuti per portarmi
in un'isola bellissima dove guarir dalla mia malattia. Torner presto. Adesso,
da bravo, va' in cerca di tuo padre. Ma Veniero era svenuto; e cos il
padre lo aveva trovato rincasando poco dopo.
Mentre il dottore parlava, io guardavo suo
figlio, che ora dormiva serenamente e, nella penombra della stanzetta, mi
sembrava del tutto eguale a tanti altri bambini che avevo visti straziati
dal dolore: a quello che, un anno prima, lavorando a lungo con rabbia e con
delicatezza, avevamo estratto da una frana che aveva inghiottito tre case di
Astrio: biondo, col visino rigato di sangue, abbracciato a una sorellina, morta
anche lei; al mio coetaneo Stefano Balestrini che, quando avevamo otto
anni, avevo visto arrossato da una terribile febbre, smaniante: e adesso,
povero scheletro vestito di nero, siede nel brolo della sua casa, scosso da
un tremito senza fine, muto, demente; ai piccoli orfani che negli anni delle
carestie o negli inverni pi gelidi ci accade talvolta di trovare morti in
qualche fienile; ai bambini travolti dalle guerre, atterriti, mutilati,
massacrati... E mi domandavo, ancora una volta: perch gli innocenti
debbono soffrire? E' una domanda alla quale, credo, nessuno pu dare risposta
su questa Terra: ma nell'aldil Ges Cristo dovr pure fornircela, se vorr che
siamo pienamente felici nel suo paradiso; e se dovesse limitarsi a
mostrarci le piaghe della sua crocifissione, noi gli grideremo: Ma tu, almeno,
eri un uomo ma tu, almeno, sapevi il perch! ...
Dopo la crisi di furore e di desolazione per
l'internamento della moglie, per poterle stare vicino il dottor Sartirana
aveva pensato di offrire i propri servigi al lazzaretto; ma, non sapendo a chi
affidare Veniero, specie nella situa zione di terribile turbamento del
bambino, aveva poi chiesto, e subito ottenuto, poich rari erano i medici
disposti a mettersi al servizio delle autorit, di venire sull'ospedale
galleggiante: qui il rischio per lui e per il bambino non era, tutto sommato,
maggiore che nella loro casa, gi visitata dalla malattia; e, inoltre, come
dipendente dello Stato, il dottore poteva recarsi al lazzaretto in visita alla
moglie. Disse che c'era stato anche pochi giorni prima e che, grazie al Cielo,
ella sembrava ormai sulla via della guarigione. Ma chi ci guarir da tanto
dolore sofferto? domandava amaramente il medico. Chi canceller i ricordi
di Veniero? Vi sono notti in cui, dopo aver visto il mio bambino contorcersi
nell'incubo, non riesco ad addormentarmi perch l'odio mi rode il cuore. Poi mi
dico: forse chi ha deposto la denunzia credeva di fare del bene, ed
effettivamente proteggeva se stesso e gli altri dal contagio; forse era un
povero infelice che viveva accanto a noi e che, chiss perch, era
invidioso della nostra piccola felicit. L'invidia, amico mio, un veleno
terribile, una specie di camicia di Nesso che divora le carni come un fuoco
rabbioso e inestinguibile: nasce, io credo, pi che da cattiveria, da una
avidit d'amore che nessuno ha saziato: la collera del bambino affamato che
vede la madre allattare il fratello pi piccolo e gli pare che non si curi di
lui. O forse chi ci ha fatto del male una persona alla quale io, a causa
della mia professione, ho provocato un dolore simile al mio, dichiarando
contagiata qualche persona che gli era cara... Allora mi confondo, e anche
il mio odio sbiadisce. Vedi, Guerino, se si comincia a riflettere, difficile
non soltanto trovare qualcuno veramente colpevole ma addirittura giudicare
qual la ragione e quale il torto. Forse per questo che Nostro Signore non
rispose a Ponzio Pilato che gli domandava che cosa fosse la verit...
16
Mi risvegliai con la curiosa sensazione di
essere in una chiesa, in mezzo a una folla che pregava. Aperti gli occhi,
subito compresi che sull'ospedale galleggiante era cominciata la liturgia
del mattino. Zeno e Veniero Sartirana dormivano ancora, io mi levai
silenziosamente e uscii all'aperto. Tutti gli spazi fra le baracche erano
gremiti di gente. Nello stesso slargo in cui il giorno prima avevamo atteso la
visita del medico, adesso era stato portato un altare sul quale un giovane
prete, biondo, dalla fisionomia quasi angelica, stava celebrando la messa.
L'altare era di legno, ma splendido per dorature ed intagli. Mi colp
profondamente il contrasto fra la provvisoriet e la precariet dei nostri
alloggiamenti (e della nostra stessa sorte) e la perfezione di quell'opera in
cui l'arte appariva figlia devota della fede. Quando, terminata la messa,
l'altare fu spogliato della candida tovaglia, potei vedere che, bench
sembrasse massiccio, esso era in realt scomponibile in pi parti, in modo
da poter essere rimosso e riposto in piccolo spazio. Seppi pi tardi che lo
aveva costruito un celebre artigiano di Rio Terr, Arnaldo Bottegal, durante
mesi di lavoro. Lo aveva portato con s sulla galea, quando vi era stato
internato; e quando poi il morbo si era manifestato, aveva chiesto e ottenuto
di poter rimanere ancora qualche ora per ultimare le dorature. Alla fine, si
era lasciato cadere quasi esanime; ed era morto poco dopo essere stato
trasportato al lazzaretto.
Celebrata la messa, il prete, che aveva una
voce forte e profonda, chiese alla folla di non disperdersi. Diede alcune
notizie sulla distribuzione dei viveri e dell'acqua che, come ogni mattina,
sarebbero giunti da Venezia; poi aggiunse che poco prima aveva ricevuto un
rapporto assai triste dal Consiglio dei Dieci: non solo il numero dei malati e
dei morti andava crescendo sia nella Dominante che in Terraferma ma le autorit
si erano viste costrette a isolare l'intero sestiere di Cannaregio perch il
morbo vi infuriava con particolare virulenza. Concluse il sacerdote: Su
questa nave che trasformata non solo in ospedale ma anche in una specie di
convento, poich tutti vi stiamo in clausura, noi non possiamo che pregare.
Facciamolo con ardore: per le nostre famiglie lontane, per i poveri appestati,
per chi li assiste, per i medici che cercano di trovare rimedio alla malattia
. E inton con voce commossa il De profundis . Dalla sua cesta padre
Utilperzio grid qualcosa che io interpretai come Per i medici no, per i
medici non si deve pregare! ; ma il salmo, ormai, era stato ripreso da cento e
cento voci, passava dalla nostra alle altre galee:
Dagli abissi ti bo chiamato, Signore.
Signore, ascolta la mia supplica.
Mentre l'inno si spandeva sopra di noi come
il volo d'uno stormo di uccelli sfiniti da un lungo viaggio, la foschia
nascondeva la riva e la citt, e le galee dondolavano. Era facile immaginare
che le navi, anzich alla fonda, si trovassero in mare aperto, flotta dispersa
da una burrasca o devastata da una battaglia. Ancora una volta ripensai a mia
madre, alle sue orazioni serali in cui non mancava, pur se lei non aveva mai
visto il mare, un'invocazione di aiuto per i naviganti.
Dopo la preghiera, il dottor Sartirana mi
present al prete, don Battista Fiore, che sulla galea non aveva soltanto
incarichi di cappellano ma anche di Priore, e cio di sovrintendente. Fui
immatricolato sui registri dell'ospedale e appresi che sarei stato
sottoposto a visita di controllo ogni tre giorni. Con una cortesia che mi
commosse, il medico avvis che avrei alloggiato nella sua stanza. Poi, mentre
rivestiva il suo tormentoso scafandro per cominciare le visite, il dottore
mi affid a Veniero perch mi guidasse in una visita alla nave: Non mostrarti
troppo sul ponte mi consigli il medico. Ricordati che la Bestia, lass,
attende ancora una tua risposta. Sorrisi, ma rabbrividendo, poi, preso per
mano da Veniero, mi inoltrai per' i meandri di quella singolare citt:
Per prima cosa disse allegramente il bambino andremo a trovare il pittore
delle Madonne .
La gente era divisa nelle baracche per sesso
o per gruppi familiari. Solo i preti e, come avevo visto, il medico, avevano
diritto a una propria abitazione, se cos si poteva chiamare una cella di assi
inchiodate. L'unica altra persona cui fosse concesso analogo privilegio era
Zoanin delle Madonne , il pittore di cui nessuno conosceva, n si curava
di conoscere, il cognome.
La sua stanza era piena di tele accatastate,
di barattoli di colore, di pennelli, di stracci. Alcuni dipinti stavano ad
asciugare, appesi alla porta della baracca. Zoanin era un nano: aveva una
grande testa, la fronte convessa, il naso schiacciato, una barba ispida a
chiazze grigie e nere, macchiata qua e l di colore. Le braccia erano
cortissime, come le gambe: il torace ampio e muscoloso. Sedeva su un piccolo
sgabello, dal quale si alzava ogni momento per controllare, alla distanza,
l'effetto delle sue pennellate. Quel continuo sali-e-scendi lo faceva
assomigliare a uno di quei grotteschi giocattoli automatici che certi suonatori
ambulanti esibiscono ai passanti; e il modo di dipingere velocemente,
quasi freneticamente accentuava questa somiglianza.
Come potei facilmente constatare, i suoi
quadri erano tutti eguali. Nella parte superiore sinistra della tela, un Ges
dal volto corrucciato scagliava una manciata di frecce sulla citt di Venezia.
Un poco in basso, a destra, una Madonna dal volto fiorente di contadina
stendeva fra i dardi e la citt un lembo della propria veste. Nei dipinti
mutava soltanto il colore degli abiti della Vergine: quello che Zoanin
andava ultimando era di un tenero rosa gremito di fiorellini.
Splendido lavoro! disse al mio orecchio
una voce profonda. Mi voltai. Un uomo sulla cinquantina, alto, magro,
vestito di nero, un gran naso aquilino, mi guardava con occhi penetranti:
Permettetemi di presentarmi. Sono don Cesare Fanelli, ex prete per insensato
errore del nostro buon Patriarca, comunque sempre dottore utroque jure.
Attualmente, confinato dalla sorte su questa nave, mi onoro di essere socio
dell'artista. Voi avete un ottimo aspetto, signore, la peste vi ha dunque
risparmiato: non vorreste acquistare un quadro da donare come ex voto alla
vostra parrocchia? .
Mormorai, un po' imbarazzato, che ero appena
arrivato sulla nave, cominciavo appena adesso la mia quarantena e, oltre a
ci, temevo di non avere il danaro necessario per l'acquisto di un dipinto.
Non mi direte che non avete tre ducati per far vostra un'opera d'arte che ne
vale dieci volte tanto! esclam don Cesare con profonda meraviglia. Eppure
i vostri modi vi qualificano per gentiluomo! Mentii tranquillamente, da buon
mercante che sa riconoscere gli imbroglioni: Ahim, sono del tutto
squattrinato! . Brutta cosa, la povert! sentenzi l'ex prete. Lo
so bene aggiunse per tristissima esperienza. Ma consoliamoci, fratello:
dei poveri il Regno dei Cieli.
Mentre cos parlavamo, fummo raggiunti da
una piccola folla: uomini, donne e bambini. Gli uomini, che erano cinque e
avevano volti che splendevano di felicit, vennero verso di noi: Abbiamo
appena ricevuto dal medico le "fedi di sanit per noi e per i nostri
familiari disse il pi anziano a don Cesare e stiamo per tornare a Venezia.
Vorremmo comprare un quadro da Zoanin. Potete aiutarci? .
Don Fanelli si mise un dito sulle labbra, a
implorare silenzio: Voi non sapete quanto sia irascibile un artista se lo si
disturba mentre lavora. Fortunatamente io so come trattare Zoanin. Attendetemi
un po' in disparte, vedr di convincerlo .
Mentre i cinque uomini si ritiravano
intimiditi, l'ex prete si avvicin al nano e gli parl a lungo, senza ottenere,
mi parve, altra risposta che qualche grugnito. Alla fine, torn dicendo:
Come prevedevo, Zoanin ha gi venduto tutte le sue tele a un gruppo di
sacerdoti e di mercanti che torneranno a Venezia domattina. Tuttavia, per mia
intercessione, acconsente a dipingerne un'altra quest'oggi e cos voi
potete prendere uno dei quadri gi asciutti. Sono otto ducati per lui e due per
la mia mediazione.
Un'ombra di sospettosa avarizia (o di
buonsenso) vel per un istante la felicit dei cinque. Tuttavia, dopo aver
parlottato fra loro, ognuno offri qualche moneta e il gruzzolo fu
consegnato a don Cesare. Egli stacc una tela dalla porta della baracca e gliela
porse con grande sussiego: Non una parola con altri, per quanto riguarda il
prezzo! intim. Zoanin ha voluto partecipare alla vostra gioia facendovi
un grosso sconto. Saluti cerimoniosi furono scambiati, poi, mentre gli
acquirenti se ne andavano tenendo alta la tela come se fosse lo stendardo della
loro rinnovata fiducia nella vita, l'ex prete torn a rivolgersi a me: Dieci
ducati: niente male per un quadro che documenta l'impaz-zimento della
teologia.
Lo guardai meravigliato. Credete che
esageri? domand don Cesare. Ebbene, osservate, caro amico: c' dunque
questo Cristo che pare una versione effeminata del grande Giove Tonante e che,
con la collericit di quel dio pagano, perseguita le stesse persone per cui
morto sulla croce. Poi c' la Madonna, l'obbedientissima, ecce ancilla Domini.
E che fa? Vanifica l'azione del Figlio, come se questa azione (e dunque Dio
stesso) fosse ingiusta e insensata...
Avrebbe proseguito a lungo, certamente, un
discorso che sembrava appassionarlo se, a questo punto, Zoanin non si fosse
levato sulle sue gambette storte in preda a una vera crisi di furore:
Cancheri di gran dottori, cominci a gridare il nano che non capite
un'ostia n del cielo n della terra! Quando io ero bambino e facevo delle mascalzonate,
mio padre, che pure mi voleva un gran bene, poverino, mi bastonava e aveva
ragione di farlo. Ma la mia mamma si parava fra il suo bastone e il mio sedere,
a rischio di prenderle lei, perch ci voleva bene, a me e a lui, e non
voleva che, dopo, fossimo tristi. E Cristo, secondo voi, dovrebbe essere meno
giusto di mio padre? E la Madonna meno buona di mia madre? Andate via,
grandissimi rompiballe, e lasciate che l'artista lavori.
17
Nei giorni che seguirono e che stranamente
rimangono nella mia memoria come un periodo di serenit, andai rendendomi
conto che la galea aveva tutte le caratteristiche d'un paese quando, d'inverno,
i contadini sono costretti a rimanere oziosi e la neve impedisce anche i viaggi
di noi mercanti. Le mille persone che vivevano a bordo, e che si avvicendavano
secondo ritmi assai lenti poich la quarantena durava almeno tre
settimane, non avevano altro da fare che pregare ed esaminare ansiosamente, pi
volte al giorno, il proprio corpo e quello dei familiari per rassicurarsi
che non vi fossero emersi i segni del terribile morbo. Ridotte - se si
escludevano alcuni artigiani e le madri di famiglia - alla pi totale
inattivit, non c'era da meravigliarsi se inclinassero al gioco d'azzardo,
alle tresche amorose, ai litigi e ai pettegolezzi. Se tuttavia il gioco
veniva represso dai gendarmi e le conclusioni carnali delle passioni erano
impedite dalla mancanza di luoghi isolati, le chiacchiere, quelle non
poteva fermarle nessuno. E, con le chiacchiere, il fermentare di vere e
proprie fazioni.
C'erano i pii, i mansueti, o pi
semplicemente i galantuomini e le donne assennate, che si sforzavano di
vivere decorosamente e di conservare alla nave-ospedale le sue caratteristiche
di luogo triste ma senza orrori. Queste persone facevano capo quasi
naturalmente a don Battista Fiore, prete generoso ed equilibrato, propenso
a stimolare in tutti l'attenzione per la dignit di ognuno e per il bene comune
piuttosto che ad applicare i rigidissimi regolamenti emanati dal Consiglio dei
Dieci per i lazzaretti.
E c'erano i fanatici che andavano purtroppo
crescendo di numero man mano che le notizie sulla diffusione del morbo si
facevano sempre pi tragiche. Travolti dalla paura, non solo della morte fisica
ma anche di quella spirituale, convinti pi che mai che la peste fosse un
flagello mandato da Dio per punire la cristianit dei suoi peccati, essi
trovavano in padre Utilperzio un pungolo che incessantemente acuiva i loro
sensi di colpa e dettava loro un moralismo che li spingeva a vedere ovunque
nemici di Cristo. Se soltanto pochi avevano il coraggio (o la follia) di unirsi
alla misera brigata dei flagellanti e di salire ogni giorno il calvario
inventato dal frate, molti altri - uomini e donne - seguivano, affascinati, con
una specie di lugubre avidit, le concioni di Utilperzio. Tutti i pomeriggi,
egli ordinava a gran voce che la sua cesta fosse calata e predicava per
ore davanti a una folla crescente. Le sue parole, cos suggestive per la
collera che le infiammava, si udivano su tutta la nave.
Il risultato di questo indottrinamento era
una rottura sempre pi manifesta dei seguaci del Monaco con la disciplina
dell'ospedale galleggiante, un aperto rifiuto delle norme igieniche e
quindi anche un appena larvato disprezzo per don Fiore e una plateale
detestazione per il dottor Sartirana. Non c'era dubbio, per i flagellanti
e i loro amici: chi non apparteneva alla loro fazione non era un vero cristiano
e perci attirava su tutti la maledizione di Dio.
C'erano infine, com' inevitabile l dove
centinaia di persone sono raccolte (e tanto pi in cos penoso affollamento
e con cos grande ansiet per la sorte di s e dei propri cari), uomini e donne
che parevano inebetiti o prigionieri di una loro follia, tranquilla o
furiosa; e veri e propri mascalzoni e femmine di malaffare e ubriaconi: tutta
una fauna umana che di solito si tiene ai margini della civile convivenza ma
che qui si trovava fatalmente gomito a gomito con chi seguiva volentieri
le norme del buon vivere. A seconda del proprio temperamento, quei disgraziati
oscillavano fra l'abulia e la rissost; e finivano per fare da contrappeso,
volta a volta, tra il partito di don Fiore e quello di padre Utilperzio.
Il Priore capiva perfettamente, io credo, il
pericolo che veniva dal Monaco ma disponeva di scarsi mezzi per fermarlo. Le
frequenti visite della Dogaressa, di altre dame
e di non pochi nobili rinforzavano il potere
del frate, lo rendevano evidente ai gendarmi e al personale dell'ospedale
cosicch don Fiore, dopo avere inutilmente ammonito e supplicato Utilperzio
sulle conseguenze della sua predicazione, non aveva poi, di fatto, potuto
n impedirla n limitarla.
Penso che, in cuor suo, il Priore finisse
per chiedere a Dio che il pi folle dei progetti presentati da padre Utilperzio
al Consiglio dei Dieci per il tramite delle sue patronesse potesse
realizzarsi. Il Monaco, una sera, aveva annunziato di avere chiesto che
alla galea fossero ridati rematori e vele, in modo che potesse riprendere
la navigazione, costeggiare l'Italia e forse altre terre, con un carico di penitenti
che si ingrossasse ad ogni porto: un'isola navigante di veri cristiani,
un'anticipazione di quel Regno di Dio che Utilperzio vedeva dominato dal
disprezzo per la carne.
A contrastare il Monaco e i suoi adepti non
erano per soltanto don Fiore e il dottor Sartirana ma anche don Cesare
Fanelli e Zoanin delle Madonne. L'ex prete era obliquo e feroce nella sua
ironia: bench la sua situazione canonica fosse tanto delicata (il che
significava che lo era anche la sua situazione sociale), don Fanelli godeva di
grande ascendente presso le persone pi colte che si trovavano nell'ospedale
galleggiante e che finivano per considerarlo appartenente al loro gruppo;
e anche molti popolani, che lo vedevano stimato dai signori e spesso intento
alla lettura di una Bibbia stampata (che il Monaco non possedeva: per cui le
sue citazioni delle Scritture erano frequentemente, come don Fanelli
dimostrava, monche o stravaganti), fi nivano per subire il suo fascino.
Egli ripeteva che il Dio di padre Utilperzio non era quello misericordioso del
Nuovo Testamento; e neppure quello dell'Antico, che per bocca dei profeti aveva
proclamato di essere sazio, anzi disgustato, di sacrifici e chiesto di
essere onorato con atti di bont e di giustizia.
Non tocca a un prete rimosso dal suo
ministero diceva don Fanelli insegnare com' il vero Dio. Ma i profeti
sono certamente pi grandi di un monaco che ama starsene lontano dalla gente e
parlare dall'alto.
Si mai visto quel frataccio occuparsi di
un appestato? gridava Zoanin delle Madonne, abbandonando per un attimo
le sue amate tele. Ha mai dato prova di carit? Persino quelle specie di
braciole sanguinolenti che sono i suoi incappucciati, se si ammalano, le lascia
partire per il lazzaretto senza neppure un saluto. E lui, poi, lui si guarda
bene dal flagellarsi... Se il suo cristianesimo, voglio farmi maomettano!
Nonostante il riserbo del Priore e del
dottor Sartirana, le liti e l'animosit fra le due fazioni andavano aumentando
ed era facile prevedere che si sarebbe giunti a qualche esplosione di
furore. Meno facile, o addirittura impossibile, era invece prevedere che
il dramma sarebbe stato di cos terribili proporzioni quale poi lo vivemmo.
18
Era il 2 giugno e una soffocante coltre di
calura era scesa sulla laguna. L'afa, lo scoramento per le notizie che
giungevano da Venezia, il continuo infoltirsi del numero delle persone, che,
giunte sulla galea per la quarantena, venivano scoperte malate, tenevano
la popolazione dell'ospedale galleggiante in una cupa angoscia. Quel
giorno persino la liturgia del mattino era stata insolitamente breve e, per la
prima volta da che mi trovavo sulla nave, padre Utilperzio, dopo avere a
lungo confabulato con loro, aveva esentato i flagellanti dal loro
supplizio.
Questa atmosfera, cos simile a quella che
precede i temporali e che ci fa spesso impauriti da tristi, incomprensibili
presagi, fu rotta per me e pochi altri da una gioiosa notizia: il dottor
Sartirana torn dal lazzaretto annunziando che entro la settimana sua moglie
avrebbe ricevuto la fede di sanit e Veniero, dopo tanto patire, avrebbe
finalmente riabbracciato la madre. Con altri amici giurai che, a costo di
saccheggiare la dispensa della nave, avremmo organizzato una gran festa; e
Zoanin delle Madonne ci commosse proclamando che la sua prossima
Beatissima Madre di Dio avrebbe avuto il volto della signora Sartirana.
Ma se tu non la conosci nemmeno! scherz
il medico. Mia moglie potrebbe essere bruttissima! No, signor
dottore! grid subito il nano. Un uomo come lei non pu avere sposato che
una donna con una luce dentro. E Veniero corse ad abbracciarlo.
Subito dopo la refezione serale, mentre,
finalmente, un po' di brezza mitigava il tormento della calura, il Mo naco
annunzi gridando che aveva un messaggio da comunicare a tutti gli ospiti
della nave. Si capi subito che si sarebbe trattato di cosa importante: i
flagellanti, infatti, rivestirono le bianche tuniche che solitamente
indossavano solo la mattina, abbassarono i cappucci sui visi e percorsero la
nave suonando certi campanacci che non avevano mai usato prima.
Quando tutti fummo usciti dalle baracche,
padre Utilperzio ordin che la sua cesta venisse calata di una decina di
metri, di modo che la sua voce giungesse meglio a noi e, nello stesso tempo,
egli ci sovrastasse come un nume. Due dei suoi discepoli, muniti di torce,
salirono sul sartiame ai suoi fianchi, illuminando il suo viso che ci sembr un
teschio, dominato com'era dalle grandi occhiaie e dalle rughe che gli
tendevano la bocca.
Di tutte le persone ch'ero andato conoscendo
sulla citt galleggiante solo don Fiore mancava: come sempre quando
il Monaco predicava, il Priore rimaneva chiuso nella propria cella in segno di
dissenso.
Cos parl padre Utilperzio.
Nel nome del Padre, del Figlio, dello
Spirito Santo. Del Padre che distrusse Sodoma e Gomorra. Del Figlio che
minacci ai peccatori l'Inferno ove pianto e stridore di denti. Dello Spirito
Santo che fece precipitare dall'alto Simon Mago. Nel nome di Dio che
chiese il sacrificio di Isacco...
Ma poi lo risparmi! lo interruppe don
Cesare Fanelli.
Taci, rinnegato! url di rimando il
Monaco. Taci, traditore della Santa Chiesa! E subito alcuni flagellanti si
strinsero intorno all'ex prete che ne rimase visibilmente impaurito.
Io, umilissimo servo di quel Dio,
riprese padre Utilperzio parlo per l'ultima volta a voi, gregge di peccatori
e peccatrici, capre nere avviate al macello. La notte scorsa ho avuto una
visione, ed ora so quel il mio ed il vostro destino.
Vegliavo in preghiera e d'un tratto ho
visto venire a grandi passi nel cielo, da Oriente, una gigantesca figura di
vecchio. Candidi i suoi capelli e la sua barba, candida la sua veste. E la sua
immensa mano era su Venezia, con il pollice abbassato in segno di condanna. Poi
la mano si rinchiuse a pugno e quel pugno tremava di collera; e poi un
indice grande come un albero segn questa nave e dall'unghia di quel dito
usc un raggio di luce che mi illumin nella mia miseria. Io caddi in
ginocchio, piangendo e battendo i denti per il terrore.
Mi guardai intorno: molti uomini e quasi
tutte le donne erano anch'essi in ginocchio, gli occhi dilatati dallo spavento:
Per Dio mi sussurr il medico. Questo pazzo ci spinger tutti alla folla...
Riprese padre Utilperzio:
E poi l'Altissimo, poich quel vecchio era
Geova dalla voce tonante, mi parl. Rombo alla mie orecchie, vento
impetuoso che mi squassava come un fuscello, ma sussurro per voi che giacevate
nei vostri letti di peccato, nelle vostre nequizie. Egli mi disse: Profeta,
profeta mio, tu devi morire! Ed io, prostrato fra le mie feci, osai
chiedere: Perch, mio Signore? Ed egli rispose: Perch, ecco, io ho suscitato
in Venezia colui che poteva salvare la citt attraverso il dolore liberamente
accettato per compiacere la mia collera, ma tu non sei riuscito a convertire il
popolo di Babilonia. Domandai gemendo: all'Inferno, mio Signore, che tu mi
condanni? Ed egli rispose: Tu hai fatto ci che potevi e sarai salvo dopo la
tua morte terrena; e, per il tuo sangue, saranno salvi anche i tuoi figli e le
tue figlie...
Nessuno grid don Fanelli si salva se non
per il sangue di Cristo! Ma la sua voce ricadde nel silenzio degli astanti,
come una foglia portata via dal vento.
Questa sera io non vi annunzio pi la
collera di Dio, come ho fatto per sei mesi, inutilmente, continu il Mo naco
ma la morte prima, quella della carne, e la morte seconda, quella dell'anima.
Non c' pi scampo per voi. La notte scorsa ho visto la lingua dell'Altissimo
farsi fiamma, penetrare ogni baracca, leccare la chiglia di questa nave,
ruggire nelle sue viscere. I vostri corpi ardevano come legna secca, il
fuoco che si levava nell'aria aveva il puzzo della carne bruciata...
Si ud un urlo, altissimo. Era di Zoanin
delle Madonne: Taci, frate senza piet. Cristo salito in croce per noi
e la Beata Vergine ci ama! .
Taci tu, nano malefico! rispose a gran
voce padre Utilperzio. Taci, aborto vivente, sacrilego che dipingi contadine
travestite da Madonne per dimenticare che la contadina tua madre era una
puttana: poich soltanto una puttana pu avere generato un mostro come te!
Sembr allora che il nano si fosse
trasformato in una palla d'obice. Attravers la folla senza che nessuno potesse
arrestarlo, si inerpic con incredibile agilit su per il sartiame, non si
ferm neppure quando uno dei flagellanti lo colpi con la torcia, incendiandogli
gli abiti intrisi di acqua ragia. Balz nella cesta di padre Utilperzio e
nutilmente il Monaco lev a difesa le sue mani grassocce. Il nano lo
aveva afferrato, lo rovesci oltre il bordo della coffa, abbracciato a lui
si schiant, da dieci metri d'altezza, sull'impiantito della nave.
19
Non
dimenticher mai gli orrori che seguirono a quella prima tragedia.
Dopo il
tonfo dei due corpi sul ponte della nave, la folla rimase per un istante come
rattrappita in se stessa, e muta. Poi si levarono urla e singhiozzi e i
flagellanti si fecero strada brutalmente, alcuni per raccogliere il corpo
di Utilperzio - che subito risult senza vita -, altri per finire a calci e
bastonate il nano che sembrava sogghignare mentre le sue vesti fumavano ancora.
A stento, e solo sguainando le spade e usandole di piatto, i gendarmi
riuscirono a districare il sanguinante viluppo dei vivi e dei morti. E,
alla fine, si scopr che tre erano i cadaveri perch qualcuno aveva sventrato
con una coltellata don Cesare Fanelli e un altro gli aveva menato un gran
fendente tra le scapole con un'ascia da marinaio.
Tutte le
lampade della galea erano accese e torce brillavano sulle navi vicine, da
cui provenivano verso la nostra richieste di notizie e poi commenti eccitati.
Alcune delle imbarcazioni pi piccole si movevano quasi freneticamente per la
laguna, radunandosi e allontanandosi in diverse direzioni come formiche
che accostano le antenne per trasmettersi un messaggio e poi corrono a
informare le compagne.
Quella
notte fui testimone di come pu nascere una leggenda. Il sangue non si era
ancora disseccato sulle vesti del Monaco e gi la folla proclamava la
grandezza di sant'Utilperzio: egli aveva offerto la propria vita per la salvezza
dei veneziani e perci Satana, infuriato, lo aveva gettato dal pulpito...
Sulla galea accanto alla nostra qualcu inton l'antico inno cantato dai martiri
nelle arene, a sfida dei Cesari:
Christus vini,
Christus regnat,
Christus, Christus imperat;
e una folla
innumere, che nella notte sembrava l'intera umanit, riprese il canto, a gran
voce. Pi tardi giunse fino a noi il suono delle campane che, da Venezia,
facevano eco al pianto e all'eccitazione della citt galleggiante.
Don
Fiore, bench sconvolto, mostr il solito equilibrio e grande capacit di
far fronte all'accaduto. Ordin che tutti rientrassero nelle baracche e vi
rimanessero sino alla liturgia dell'indomani, pena l'arresto. Permise ai soli
flagellanti di restare all'aperto per vegliare il loro maestro, sotto il
controllo dei gendarmi. Chiese al dottor Sartirana, che considerava giustamente
in pericolo, di chiudersi con Veniero nella loro stanzetta e mise tre guardie a
loro difesa. Dispose che i corpi di don Cesare Fanelli e di Zoanin fossero
portati nella cella del pittore. Infine affid il comando della nave al capo
dei gendarmi, Marino Morandin, poi, salito su una scialuppa, part per Venezia
a ragguagliare il Consiglio dei Dieci.
Io
chiesi ed ottenni di restare, con un buon numero di guardie e due amici, a
vegliare i cadaveri del nano e dell'ex prete.
Attraverso
lo sbarramento dei gendarmi vedevo i flagellanti affaccendarsi intorno alla
salma di Utilperzio. Estratto dal deposito l'altare scomponibile, avevano su di
esso disteso il corpo del Monaco, ergendogli accanto la sua croce astile.
Avevano probabilmente sottratto alla cambusa l'intera provvista di candele
perch ora decine e decine di fiammelle illuminavano la nera figura del morto,
rendevano pi bianche le chiazze del viso, delle mani, dei piedi ignudi. Poi,
calati i cappucci sui volti arrossati dalla passione, i flagellanti si
inginocchiarono intorno all'altare. Si udivano le sferze ricadere sui corpi
degli uomini mentre essi intonavano il terribile inno:
Dies trae, dies Ma:
Il giorno della collera, quel giorno
il mondo si dissolver in fuoco.
Mi domandai
inquieto quale prezzo di sangue avrebbero ancora chiesto i flagellanti per
l'uccisione del loro maestro.
Sapevo
bene che per Zoanin delle Madonne non vi sarebbero stati funerale religioso n
sepoltura in terra consacrata. Nessuno avrebbe ricordato quanto volgare e
velenosa fosse stata la provocazione che aveva scatenato la sua collera:
egli era morto da assassino, e assassino di un sacerdote. Che avesse
ucciso, che avesse voluto uccidere, questo lo credevo anch'io: ma accanto
a quel piccolo corpo rattrappito, infranto dalla caduta e devastato dalle
fiamme e dalle ferite, non riuscivo a non sentire per il nano un affetto
profondo che mi doleva non avergli manifestato in vita. Con la sua povera arte
e con la sua povera teologia egli aveva cercato di farci coraggio, di aprire i
nostri cuori alla speranza. Coinvolto in un dramma universale, il suo bisogno
di madre lo aveva spinto a farsi, per tutti, ritrattista o inventore d'una
mamma celeste. Mentre Utilperzio ci ingiungeva di ridurci a servi striscianti
della divinit, schiacciati dalla colpa, Zoanin aveva continuamente offerto a
chi lo avvicinava uno spiraglio di cielo, una realt casalinga capace di
trasformare, con la presenza di una buona madre, la giustizia di Dio in
affettuosa paternit carnale. L'abominevole assassino era morto cercando di
difendere la bont, la nostra e la propria necessit d'amore.
Cos, contemplando quella figura
contorta di bambino cresciuto soltanto nei muscoli, mi sentii estenuare il
cuore in una piet e in una dolcezza di cui, dopo tanti terribili
eventi, non mi credevo pi capace.
Improvvisamente desiderai sentire nella mia mano la mano di Fransisca e mi
dissi: Ora s che saprei scaldargliela con il mio cuore.
A don Fanelli
sottrassi il suo tesoro, la Bibbia stampata in italiano, a Firenze. Ad
essa, come mi aveva narrato, doveva, in certo senso, tutte le proprie sciagure.
Era stato sospettato di avere venduto, per acquistarla, certi vasi sacri della
chiesa in cui era rettore, ci che, se provato, gli avrebbe valso la
scomunica; e per averla poi troppo spesso citata, in base ad essa confutando
pubblicamente alcune opinioni teologiche del Patriarca e, peggio ancora, del
Doge, si era ritrovato, tre anni prima, ridotto allo stato laicale. Come avesse
vissuto da allora sino all'internamento sulla nave-ospedale, nessuno sapeva: di
fame, certamente, ma anche, probabilmente, di piccole truffe e raggiri ai danni
della gente danarosa. Il gusto della beffa aveva acuito questa sua abilit; ma
io lo avevo sempre visto manifestare ai poveri rispetto e amorevolezza; e sulla
galea il suo sodalizio con Zoanin aveva avuto il calore d'una strana paternit,
bonariamente ironica, talvolta, ma pi spesso soccorrevole e non priva di
tenerezza.
Non era
stato, forse, un uomo di grande coraggio e certamente non era stato un profeta;
ma aveva sempre cercato di opporsi alla superstizione di Utilperzio, non
soltanto in base al buon senso ma anche e soprattutto in base al messaggio di
Dio cos come la Sacra Scrittura ce lo ha conservato.
E forse,
dunque, per questa sua fedelt al Verbo, su quella nave che ora mi pareva
maledetta, il vero martire era lui, non il Monaco la cui tozza sagoma sembrava
tremare alla luce delle fiammelle.
20
Passarono
lunghe ore. Sulle altre navi le luci s'erano spente una ad una. Anche nelle
baracche della nostra galea la gente sembrava immersa nel sonno. Intorno
all'altare, tuttavia, continuava la veglia dei flagellanti. Sospeso il rito,
essi sedevano ora in cerchio, ascoltando le parole di un confratello che
aveva rialzato il cappuccio sul viso ma di cui mi era impossibile scoprire i
lineamenti e intendere le parole. Mi giungeva soltanto il suono della
voce: intuivo che parlava in dialetto e la monotonia del discorso, che durava
da tempo, mi pareva implacabile.
Verso le due del mattino torn la
scialuppa con don Fiore. Si vide allora che nessuno dormiva perch la gente si
affacci in silenzio alla porta delle baracche, movendosi quasi
impercettibilmente ne varc la soglia, and addensandosi intorno
all'altare mentre i gendarmi, essi stessi travolti dalle emozioni,
lasciavano fare.
Ad alta
voce, il rettore della nave rese noti gli ordini del Consiglio dei Dieci. Padre
Utilperzio avrebbe ricevuto solenni funerali nella basilica patriarcale, al
Vespro; perci il suo corpo avrebbe dovuto essere immediatamente traslato
a Venezia per essere esposto in San Marco.
Si fece avanti umilmente, a testa
china, colui che sembrava essere diventato il nuovo capo dei flagellanti.
Potevo ora riconoscerlo: si chiamava Tonietto Albisan, era un fornaio,
aveva un volto pallido e affilato, folti sopraccigli intorno ad occhi che
parevano di pesce. Viveva sulla nave da quasi tre settimane con la moglie e un
figlio: altri quattro bambini gli erano morti di peste.
Chiese
Tonietto: Signor don Fiore, che faremo ora senza il nostro buon padre? .
Non
dimenticate rispose il prete che tutti abbiamo un Padre che sta nei
Cieli.
Tonietto
assent gravemente col capo: S; e nei Cieli c' ora anche il martire
sant'Utilperzio; e presto, speriamo, faremo festa insieme. Ma voi, signor don
Fiore, avete ascoltato la profezia: manca poco, pochissimo, alla morte di
tutti noi. Perch, allora, non consentirci di trascorrere queste ultime
ore accanto alla salma del nostro maestro? .
Don
Fiore rispose che gli ordini del Consiglio dei Dieci non potevano essere
modificati. Aggiunse che la necessit della traslazione nasceva anche dal
rispetto che si voleva portare al corpo del frate: Non abbiamo modo, qui, di
ripararlo dal gran caldo che al mattino scender sulla nave.
Tonietto
torn ad assentire pacatamente: Anche questo vero. Ma chi sa quando arriver
davvero questo gran caldo e quali effetti porter con s. Don Fiore, un po'
interdetto, non seppe ribattere se non che bisognava ora trasportare il corpo
del defunto sulla scialuppa.
La voce
di Tonietto si fece pi acuta: Signor don Fiore, voi avrete notato che io vi
tratto con rispetto, chiamandovi "signore" e "don".
Perch voi rifiutate di dire "sant'Utilperzio"?.
La gente
seguiva il dialogo sempre pi innervosita, spingendosi avanti, premendo contro
i gendarmi.
Don Fiore
rispose seccamente che solo il Sommo Pontefice poteva proclamare la
santit d'una persona.
Tonietto
alz ancora la voce: Il papa di Roma lontano, troppo lontano perch
possa sapere che il grande Utilperzio morto, e come morto. Ma la voce del
popolo grida: Santo, santo, santo. Ed ora riflettete, signor Priore: voi volete
portarci via il corpo del nostro martire, Venezia pregher intorno ad esso ma
la gente di questa nave su cui il padre ha vissuto, sofferto, predicato,
versato il suo san gue, non ha ancora pregato ai suoi piedi. Guardate! grid
all'improvviso, indicando con un gran gesto il corpo del Monaco. Noi non gli
abbiamo chiusi gli occhi. Glieli chiuderemo soltanto quando avranno
contemplato il nostro omaggio. Dalla folla si lev un grande battimani.
Tonietto cal sul volto il cappuccio bianco, volt le spalle a don Fiore, torn
con gli altri flagellanti intorno all'altare. Accese le torce, si disposero a
guardia del corpo di Utilperzio.
Mentre
la gente si inginocchiava intorno a loro, il Priore e il capitano Morandin
tennero consiglio, poi mandarono a chiamare nuovamente Tonietto. Egli
venne ancora in umile atteggiamento, un po' curvo in avanti, stropicciandosi
nervosamente le mani. Don Fiore gli disse cortesemente ma con fermezza che
si assumeva la responsabilit di rimandare di un'ora la traslazione della salma
perch gli pareva giusto che anche sulla nave si pregasse per un defunto
che sulla nave aveva vissuto. Ma dopo un'ora, aggiunse, un'ora e non un
minuto di pi, il corpo sarebbe stato avviato a Venezia; lui, don Fiore, si
augurava che Tonietto non volesse rendere meno solenne e pi amara la triste
bisogna. Tonietto replic che per nulla al mondo avrebbe voluto essere
d'inciampo alla gloria non solo celeste ma anche terrena di
sant'Utilperzio.
Poi il Priore domand
all'incappucciato se egli e i suoi confratelli desideravano che uno dei
cappellani dell'ospedale guidasse un rito liturgico. Tonietto rispose, con
una certa arroganza, che tra i fratelli c'era un sacerdote che don Fiore non
conosceva ma che Utilperzio aveva avuto caro. A questa notizia che scoteva una
volta di pi la disciplina della nave e le disposizioni sia dell'autorit
ecclesiastica che di quella civile, il Priore impallid visibilmente; ma
il Morandin gli strinse un braccio a suggerirgli, e forse imporgli, pazienza:
ormai tutte le persone che vivevano a bordo della galea erano manifestamente
sconvolte dall'emozione, non bisognava creare un casus belli.
Un flagellante vest dunque i
paramenti delle esequie e inton le litanie dei defunti. Il contrasto fra il
bianco cappuccio e la pianeta nera rutilante d'oro rendeva quel prete (se era
poi tale) simile al sacerdote di qualche religione barbarica che non aveva
parentela con la Chiesa di Cristo. Le figure spettrali dei flagellanti, a
momenti riverse sul tavolato, in altre erette con le braccia verso il cielo,
rendevano pi terribile, e quasi oscenamente blasfemo, il rito che veniva
celebrato. Vidi che don Fiore, accanto a me, piangeva di rabbia e di
avvilimento.
Dopo
un'ora, a un cenno del Priore, quattro gendarmi si fecero verso l'altare,
reggendo una barella. Mitemente, gli incappucciati chiesero di essere loro a
trasportare la salma: uno ad uno sfilarono davanti all'altare, sollevando un
lembo del cappuccio per baciare i piedi, le mani e la fronte del maestro; poi,
con tenerezza filiale, ne raccolsero il corpo e lo disposero sulla barella. Formarono
quindi una processione, tenendo alte le fiaccole, e si avviarono verso il
barcarizzo.
A questo
punto il Morandin ordin loro di fermarsi e di passare il carico ai soldati. Di
dietro il cappuccio, la voce di Tonietto chiese perch. Voi non potete lasciare
la nave disse il Morandin. Saranno i suoi figli a donare a Venezia
sant'Utilperzio replic con forza Tonietto; e la folla url approvando.
Parve
forse al dottor Sartirana che don Fiore stesse esitando perch si fece avanti e
grid: Nessuno pu lasciare la nave senza mio permesso. Questi uomini da
tempo si rifiutano di farsi visitare e possono essere infetti. Gli rispose una
salva di insulti.
A un
ordine del capitano Morandin i gendarmi sguainarono le spade. Allora
Tonietto Albisan url Amen, amen, a gloria di Dio e di sant'Utilperzio! e
ogni incappucciato lanci la propria torcia verso le baracche.
Le fiamme si levarono altissime su
tutta la nave.
1
Sin da
quando ero nato, mio padre aveva deciso di avviarmi al sacerdozio. Non ne sono
certo, perch di argomenti del genere nelle famiglie si parla ben poco: ma
credo si trattasse di un voto fatto nella speranza, poi felicemente divenuta
realt, di essere guarito da una malattia venerea. Comunque fosse, a sette
anni, vestito di nero nonostante le proteste di mia madre, avevo cominciato i
miei studi presso il santo Arciprete Rizzieri.
Ero
stato l'alunno volonteroso di un meraviglioso maestro. Dodicenne, leggevo
gioiosamente le opere latine, affascinato da un mondo in cui, per il candore e
la passione poetica del vecchio sacerdote, le ninfe mi sembravano danzare
sugli stessi prati di Galilea di cui Ges aveva ammirato i gigli, e san
Girolamo e l'Aquinate sedere a banchetto con il
ramingo Enea. La teologia, invece, mi piaceva assai meno, mi sembrava
astrusa, pi adatta a complicare il vangelo che a dispiegarlo come una vela che
ci portasse lontano sul mare della conoscenza di Dio.
Convinto
che il sogno di mio padre fosse anche il mio, ero stato uno strano bambino. Gli
abiti neri, le frequenti devozioni, le continue letture, la stessa deferenza,
un po' ironica, che il parentado e la servit mi dimostravano avevano
finito per isolarmi dai miei coetanei.
Il mio
unico amico fu allora Obizio Ducoli. Ancora infante, Obizio era stato in punto
di morte. La madre, una lavandaia che non aveva marito, disperata per l'agona
di quel figlio che le era valsa la taccia di pubblica peccatrice, aveva anche
lei fatto un voto, a sant'Antonio da Padova:
se fosse
scampato, il figlio avrebbe, a gloria del grande Taumaturgo, portato il
saio sino ai quattordici anni. Cos era stato: ma per quell'abito che, a causa
delle beffe dei monelli era diventato per lui un tormentoso cilicio,
Obizio, anzich a pregare, aveva imparato a bestemmiare come un bifolco. Quando
i ragazzi del paese, che lo sapevano senza difesa, lo inseguivano chiamandolo
reverendo padre, Obizio, se era lontano dal lavatoio in cui sua madre si sfiniva
per camparlo, alzava il saio mostrando il culo nudo e, battendosi una natica
con la mano, urlava ai persecutori: Tel chi 1 padre! .
Bench
io potessi dirmi ricco e lui misero, la singolarit dei nostri vestiti ci
aveva spinti l'uno verso l'altro. Se anche tutto ci che era religione sembrava
a Obizio una condanna, egli ascoltava con una specie di grave deferenza i miei
sproloqui ecclesiastici e mi seguiva silenzioso nelle mie passeggiate.
Usciti
dal paese, scendevamo sulle rive dell'Oglio, cercavamo un tratto in cui la
corrente fosse meno tumultuosa, poi, smovendo sassi e rena, costruivamo un
minuscolo porto: e da quel porto varavamo piccole imbarcazioni di corteccia
sulle quali io immaginavo di salire per recare il vangelo agli infedeli,
in Arabia o nelle Indie. Allora, mentre io mi eccitavo e gridavo parole per lui
incomprensibili, il volto di Obizio si faceva intento e purissimo, perso il suo
sguardo dietro sogni che io non conoscevo n mi curavo di conoscere, bastandomi
che col suo silenzio egli facesse da cassa di risonanza al mio liuto interiore.
Ma un'estate io andai scoprendo che
avevo un corpo fatto per il piacere. Nel gran caldo mi tastavo con mani
febbrili e, senza ancora capirne il perch, pensavo a qualche ragazza che mi
sarebbe piaciuto abbracciare. Un pomeriggio, riemerso dal mio languore, mi
rivestii con gli abiti di mio fratello Giacomo, poi scesi nella piazza,
finalmente eguale ai miei coetanei. Obizio mi attendeva per uno dei nostri
appuntamenti mai fissati. Mi contempl in silenzio,
quasi inorridito. Poi gli occhi gli
si riempirono di lacrime ed egli corse via con il suo povero saio svolazzante
sulle gambe sottili.
Adesso,
mentre mi risvegliavo con la stanchezza di chi ha camminato un'intera vita,
Obizio era davanti a me. Uomo. E ancora vestito da frate.
La sua
immagine si appann, poi torn a farsi nitida. La sua voce mi giunse da
lontano: S, Guerino, sono io. Ma tu, adesso, sii bravo e non cercare di
parlare. Hai preso un brutto colpo in testa, sei salvo per miracolo e devi dormire.
Ma la nave? riuscii a domandare con un filo di voce. E il medico? E il suo
bambino? La nave andata distrutta, rispose Obizio ma i tuoi amici
sono tutti salvi.
Dovevo
scoprire pi tardi che Obizio era un santo, un vero santo, ma quella volta mi
aveva mentito. Al fuoco appiccato dai flagellanti, le baracche di legno erano
bruciate rapidamente. Impazzita di terrore, la gente era corsa qua e l in
cerca di scampo. Chi sapeva nuotare e non aveva parenti a bordo (o non
s'era curato di loro) s'era gettato nella laguna; gli altri s'erano urtati,
spinti, atterrati a vicenda, scavalcati, calpestati tentando di giungere al
barcarizzo sotto il quale si andavano raggruppando alcuni natanti portati
da coraggiosi.
Poi
aveva preso fuoco anche il corpo della nave e la galea si era trasformata in un
inferno. Quando qualche brandello di ricordo riemerse nella mia mente dalle
tenebre dell'orrore, rividi me stesso vagare tra il fumo e le fiamme tenendo
fra le braccia il corpo esanime di Veniero; e qualcosa di pesante e di
infuocato che mi crollava addosso, mi schiacciava al suolo, mi chiudeva in una
notte senza sogni.
Anche
dalle altre navi avevano cercato con ogni mezzo di spegnere l'incendio che
minacciava l'intera citt galleggiante; ma erano riusciti soltanto a
circoscriverlo: la galea era andata distrutta e pi di duecento persone
ricoverate
nell'ospedale erano morte annegate, o di ferite e di
ustioni. A dieci giorni dalla tragedia, si ripescavano ancora cadaveri straziati. Il
dottor Sartirana era morto, scomparso il suo bambino.
L'incendio non era ancora spento che era intervenuta, feroce, la
giustizia del Consiglio dei Dieci. Don Fiore e il capitano Morandin, destituiti
dalle loro cariche, per incapacit, erano stati imprigionati; e si
mormorava che gi, nelle segrete in cui li avevano rinchiusi, fossero stati
finiti dal veleno o dal pugnale, che il consesso dei nobili veneziani non
raramente preferisce alla liturgia dei processi. Tonietto Albisan e altri
cinque flagellanti scampati al rogo erano stati prontamente impiccati,
bench agonizzanti.
Ma il Consiglio
dei Dieci era scaltro, il Consiglio sapeva che opportuno concedere alla
plebe tutto ci che non pericoloso per lo Stato: e dunque la salma di
Utilperzio, sottratta fortunosamente alle fiamme, era stata tumulata con grande
solennit in San Marco; e l'ambasciatore della Serenissima a Roma aveva gi
consegnato al Sommo Pontefice Gregorio XIII una petizione della Repubblica e
del Patriarcato
con cui si supplicava instanter, instantius, instantissime che
il monaco morto per la fede fosse al pi presto canonizzato.
2
Giunse il luglio ma io mi sentivo l'inverno nelle ossa. Tutto ci che
avevo vissuto in quei mesi si era trasformato dentro di me in un rutilo di
immagini che mi travolgeva; talvolta mi sembrava che qualcuno frugasse con dita
di insopportabile luce fra le viscere del mio cervello per trarne ricordi come si
traggono vibrazioni dalle corde di una cetra. Desideravo soltanto dormire; ma
anche il sonno era pieno di incubi. La mattina, destandomi, alzavo una mano contro
la
finestra, la guardavo intento, la movevo lentamente, quasi per
riprendere contatto con la vita, con il mio corpo, sangue e muscoli.
Obizio era accanto a me, soccorrevole. Quel giorno, finalmente, mi
parl a lungo: Erano pi di dieci anni che non ci vedevamo, vero, Guerino? Ed
meraviglioso, per me, averti ritrovato perch io ti debbo due volte la mia vita....
Lo guardai con stupore. S, ti devo ci che sono e ci
che ho scelto di fare. Vuoi che ti racconti?
Quella sera che ti vidi nella piazza il mondo mi
croll addosso. Se tu, ormai, non eri diverso dagli altri, io rimanevo solo con la
mia condanna. Mi sentii tradito, ti maledissi con orribili parole,
desiderai poterti fare del male. Poi decisi di imitare il tuo esempio: nella
notte mi levai dal mio pagliericcio, scavalcai un muro, rubai una camicia, un
paio di
pantaloni. Mi tolsi il saio, mi rivestii, tornai a dormire: felice. Mi
risvegliai che mia madre mi legava le mani. Non riuscii a impedirglielo. Mi
baston con tutte le sue forze, implacabilmente, per ore. Avevo dodici
anni, ero un ragaz zetto
gracile, ricordi? Neppure mia madre era forte; ma il terrore la trasform in
una terribile carnefice.
Obizio parlava tristemente, ma senza
rabbia, guardando per terra. Credo che mi abbia spaccato qualche costola
perch, ancora adesso, quando respiro, avverto delle fitte al torace. Ma la
capisco. Vedi, Guerino, per voi ricchi tutto pi facile: voi siete signori
anche per la religione. Adesso che ho studiato un po', posso facilmente immaginare
ci che avvenne nel tuo caso. Quando tu deponesti i tuoi abiti di futuro
sacerdote, tuo padre si infuri. Tua madre si interpose fra te e la collera di
lui. Poi si rec piangendo dall'Arciprete; e l'Arciprete - dimmi se sbaglio!
- venne nella vostra casa, parl a lungo con tuo padre e gli spieg che nessuno
pu con un proprio voto disporre della vita degli altri; gli ricord che la
vocazione un fatto personale, che lui dunque non poteva obbligarti al sacerdozio
e che, invece, poteva trasformare la sua promessa a Dio in buoni propositi, in
una generosa elemosina, in un pellegrinaggio...
Assentii: proprio questo era
avvenuto.
Pensa a mia madre, adesso, la
pubblica peccatrice. Nessuno a consigliarla, a spiegarle, a toglierle di dosso
collera e paura. E il figlio della colpa che, improvvisamente, decide di
violare il patto che lei ha stretto con il pi grande dei santi, pi grande, ai
suoi occhi, di Nostro Signor Ges Cristo. Come si vendicher, quel santo? In
quali abissi di orrore potr gettare una persona alla quale non pu togliere
n ricchezza n stato sociale perch ne gi priva? Per il mio gesto di
ribellione, mia madre deve aver visto se stessa e me trascinati sull'orlo
dell'inferno.
Dopo
avermi ridotto sanguinante e gemente come un cane travolto dalle ruote di un
carro, mi ha guardato con occhi lucidi di folla e mi ha detto ansimando:
"Se ci riprovi, ti uccider; giuro che ti uccider".
Pressappoco
le stesse parole me le ha dette, un mese dopo, il pastore al quale mia madre mi
ha affidato, un po' per sottrarmi alla persecuzione dei monelli, un po' perch
io potessi finalmente mangiare a saziet. Anche il mandriano guardava al
mio saio come al segno d'un patto con le potenze celesti e a quelle potenze
come a forze spietate, pronte, se tradite, a vendicarsi magari su di lui e
sulle sue mucche. Rimasi dunque vestito da frate anche lass, in una malga verso Bazena: ma il saio si logor, la
moglie del mandriano vi aggiunse toppe colorate, sotto di esso, per
il gran freddo, dovetti portare pantaloni, sopra di esso indossare un giubbotto
di pelle di pecora. Ben presto smisi di pensarci.
Smisi di pensarci anche perch nella malga fui schiacciato dal lavoro e dalla paura. Mi
alzavo alle quattro, nel gelo, per guidare le vacche al pascolo. Per tutta la
giornata dovevo seguirle, attento a che le pi balzane non fuggissero verso i
precipizi, n si ferissero lottando fra loro, cercando di montarsi come tori.
Tornavo al tramonto e c'era la mungitura; e decine di secchi di latte da
travasare nei calderoni di rame per fare il formaggio...
Ma pi che la fatica fu la paura a
dominare la mia vita di allora. Non raramente restavo nella malga, da solo.
Quando le ombre cominciavano a calare, tremavo di terrore. Sui crinali dei
monti incombenti mi sembravano comparire, all'improvviso, in silenzio, orde di
streghe e di stregoni e di diavoli, un'armata che sostava domandandosi se
valesse la pena di irrompere su di me. Pregando e piangendo mi chiudevo nella
malga, il volto immerso fra i cenci del mio giaciglio e chiamavo mia madre e la
maledicevo. Sarei certamente fuggito se non avessi dovuto camminare ore ed
ore prima di giungere a qualche casa abitata; e sapevo che, nella mia marcia
solitaria, avrei dovuto passare accanto ad antri che potevano nascondere la
bocca dell'inferno, a rupi su cui erano incisi segni magici che attestavano il
dominio di Satana, a tuguri scoperchiati sulle cui mura qualcuno aveva
tracciato grandi croci di calce perch vi gemevano i fantasmi di giovani
spose massacrate da mariti gelosi, di bambini sgozzati
dalle streghe. Sapevo che non sarei sopravvissuto a quel cammino, non sarei mai giunto fra
cristiani, mani gelide mi
avrebbero trascinato in oscurit pi spaventose di quelle della notte, caproni
con l'alito di fuoco si sarebbero levati
a due zampe contro di me per segnarmi la fronte con qualche crisma
diabolico...
Anche a te, da bambino, certamente, qualche domestica avr
parlato della "donna del Sock", l'orribile megera; e anche tu,
pensando ad essa, avrai tremato, tirandoti le coperte sul capo. Ma qualcuno
dormiva nella tua camera, nelle stanze vicine c'erano i tuoi genitori, i tuoi
fratelli, le serve. La tua casa ha solide mura, solide imposte, una porta di quercia...
Prova adesso a immaginarti come me, bambino, in una notte di bufera, in una malga, solo. Fuori, tra
il vento che scende urlando dalle gole dei
monti, sussurra nel camino, negli
spiragli fra pietra e pietra, nelle fessure delle imposte, l'orribile donna che forse non ha neppure un corpo, fatta di polvere e di forza, bussa alla
porta, cerca di aprirla, singhiozza,
ride, ti chiama per nome. Intanto le bestie
levano muggiti, si muovono convulse nel recinto. Chi ti ha appena sfiorato? Che cos' quell'ombra nell'angolo dove prima non c'era? E la lanterna non sta
forse per spegnersi?
Poi l'alba, finalmente, si leva. Nel grande freddo trovi il
coraggio di uscire e di guardarti intorno. Sul fango raggelato, le
tue stesse impronte ti sembrano mutate, lasciate da piedi biforcuti, da
serpi immonde e gigantesche che vi si siano contorte in una specie di danza
infernale. Il topo che, rinvigorito dal sole, fugge accanto ai tuoi piedi sembra la
testimonianza concreta che quella notte qualcosa di orribile ti ha lambito, che
qualcuno riuscito a bere il tuo sangue di bambino, la tua infanzia...
3
Ma ti ho detto che ti devo due volte ci che sono. Ascolta come e perch.
Nei due anni
trascorsi con il mandriano, come puoi capire, desideravo soltanto andarmene. Ma
andare dove? Per il piccolo bastardo che io ero, il paese rimaneva luogo di fame e di
disprezzo. La mia nascita mi segnava assai pi che il saio. Il saio, a
quattordici anni compiuti, avrei potuto togliermelo di dosso: il peccato
di mia madre, mai.
Dunque dovevo andare lontano, dove nessuno mi conoscesse,
sapesse la mia storia. Ma mi bastava dire quella parola, lontano, per ripensare
ai tuoi giochi sulle rive dell'Oglio, alle tue barchette di legno, ai tuoi
racconti eccitati di missionari che partivano per recare ai confini del
mondo la legge dell'amore. Solo tu mi avevi insegnato a guardare lontano... E
un giorno che piangevo la mia infelicit, sentii nascere in me questo sogno
bellissimo: che io, il non-amato, potessi diventare un uomo che insegnava
agli altri a voler bene
alla gente e a Dio.
Questo sogno non cess di sedurmi. Quando compii i quattordici
anni, non mi tolsi il saio. Rendendo per la prima volta felice mia madre, che mi
baci le mani, decisi di farmi frate e salii al convento francescano di Bienno.
Mi accettarono come novizio. Questa fu la prima volta che tu, senza saperlo n
volerlo, mutasti la mia vita.
Figlio illegittimo, non potevo sperare di diventare sacerdote. Sono
diventato un fratello laico e mi sta bene egualmente. Dio sa quanto mi
piacerebbe far fiorire la presenza di Cristo nell'ostia, fra queste mie mani di bastardo e di vaccaro:
bastardo, in qualche modo, lo stato anche Lui; e anche Lui ha avuto i calli
sui palmi delle mani... Ma c' tanto da fare per il Regno di Dio anche in altri
modi, non credi?
Per sei anni ho pregato e lavorato
con tutte le mie forze. Ho anche studiato un poco e, pensa!, ora so leggere e
scrivere. Per sei anni, ogni giorno, ho pregato i miei superiori di farmi
partire missionario, in qualche parte del mondo. Tre mesi fa, finalmente, ho
ottenuto il permesso. Contro voglia, ma estenuato dalla mia cocciutaggine, il mio
Provinciale mi ha concesso di andare, con cinque confratelli, nelle Indie
Orientali.
Siamo
arrivati a Venezia, per imbarcarci; ma prima ancora che salissimo a bordo buona
parte dell'equipaggio stata colpita dalla peste. Il Provinciale ha visto in ci
il dito di Dio: mi ha ordinato di tornare con lui a Padova, non appena egli
avesse ultimato certe sue incombenze.
Guerino,
tu mi hai raccontato la tua storia d'amore e la tua desolazione. Credimi: non
minore stata la mia tristezza. come se una donna amata ti chiamasse accanto
a s, per essere tua ma tu non potessi raggiungerla. Non credere che un sogno
possa essere meno amabile di una donna!
Nell'attesa
di tornare a Padova, trascinavo per Venezia la mia infelicit, scendendo
spesso al porto per contemplare le navi che salpavano verso i mari, i
cieli, le terre nuove che non avrei mai viste. E poi, un pomeriggio, hanno
cominciato ad allineare sulla riva i poveri corpi tratti dalla galea in fiamme;
e fra essi ho riconosciuto il tuo.
stato
come se una benda mi cadesse dagli occhi. Anch'io come te, tutto preso dal mio
amore, non avevo avuto attenzione per la tragedia di Venezia. Gli uomini, le
donne, i bambini che vagavano per le calli senza speranza, colpiti da miserie
senza responsabili, m'erano sembrati soltanto una visione sgradevole che
rendeva meno dolorosa la
mia partenza e poi anche pi amaro il mio soggiorno. Ma quando ho trovato te, ridotto in quelle tristissime condizioni, ho compreso
quanto grande fosse l'inganno in cui ero caduto: ho capito che la realt
sempre pi grande e importante di ogni sogno, nella realt che dobbiamo
vivere e amare. E ho capito anche che non cosa pi santa
battezzare che soccorrere, n
viaggiare mille miglia piuttosto che compiere pochi passi, quando si tratta
di amare.
Del resto, accaduto cos anche al "mio"
sant'Antonio: partito per andare missionario in Terra Santa, si ritrovato frate in Italia. Non ci
avevo pensato sin che non ti ho visto...
E allora?
domandai.
Allora ho chiesto di potermi prendere cura di te e degli altri feriti, in questo
piccolo ospedale improvvisato. E quando tutti sarete guariti, andr al lazzaretto
come infermiere.
4
Sia lode all'abnegazione degli offiziali della Serenissima! Bench
anziano e claudicante, messer Tito Castriota, detto l'Albanese, aveva portato
con s nella fuga, a rischio di annegare per l'ingombro, il grosso registro
su cui erano annotati gli arrivi delle persone sull'ospedale galleggiante. Fu dunque possibile appurare
che io ero ormai sotto controllo da ben pi
di ventun giorni; e mi fu rilasciata
la fede di sanit. La ricevetti con grande emozione. Al di l del significato delle sue parole
latine che dichiaravano la mia
immunit, quel documento mi sembrava attestare che la mia avventura
veneziana era definitivamente conclusa:
potevo, come ormai ardentemente desideravo, fare ritorno al mio paese. Non un anno ma dieci,
cento, mi parevano trascorsi da
quando, con i miei compagni, avevo lasciato
dietro di me la nostra Valle, vedendo sparire a ogni curva di strada i paesaggi pi cari; e persino da
quando l'amore e poi la collera per
Fransisca mi avevano teso, afflosciato,
fatto vibrare come imo stendardo nel vento e nelle intemperie. Adesso
ero in pace.
Bench la mia debolezza fisica permanesse, mi sentivo cresciuto,
dentro. Non sapevo ci che avrei fatto una volta tornato fra i miei: ma
sapevo, o credevo, che sarei stato capace di amare in modo diverso, pi vero, le
persone che mi circondavano, e me stesso. I dolori che la vita porta con s sono
come il fango portato da un'inondazione: che spesso distrugge i coltivi ma
talvolta li arricchisce, rende pi fertile il terreno.
La mia emozione
nel ricevere la fede, non era tuttavia dovuta soltanto a queste
riflessioni. Sotto quel documento avrei desiderato leggere la firma
di Zeno Sartirana. Quando, sulla galea, la nostra breve amicizia s'era fatta,
per sua generosit, quasi fraterna, avevo fantasticato sulla gran festa che
avremmo celebrato insieme al momento del nostro congedo: avremmo mangiato e
bevuto lietamente, avrei fatto ricchi doni a Veniero, al medico, a sua moglie.
Adesso del dottore e del bambino non mi restavano che ricordi straziati. Della
signora Sartirana scoprivo che non solo non conoscevo il volto ma neppure il nome;
n l'indirizzo se mai dal lazzaretto fosse tornata in Venezia. Obizio mi
promise che avrebbe proseguito le ricerche; io gli affidai met del mio danaro
perch glielo consegnasse se l'avesse trovata: altrimenti, dopo un anno,
avrebbe speso quei soldi in qualche opera
di carit.
Lasciai Venezia alle prime luci di un giorno di agosto. Abbracciai
Obizio che rimaneva in quell'inferno di vivi, in cui la peste aveva gi
sterminato almeno un quarto dei cittadini. Una barca mi traghett in
Terraferma. Passammo accanto alla citt galleggiante e tesi invano
l'orecchio. Sui vascelli dormivano ancora, nessun canto si levava, di
quelli che tante volte avevano riscaldato il mio cuore. Mi sembr che Venezia mi
negasse ogni saluto e mi sentii pi solo...
Della prima parte del viaggio che mi riport al mio paese non ho che
ricordi confusi. La peste e l'arsura dell'estate avevano resi identici
tutti i luoghi: identiche fra loro le campagne nel color ocra della siccit,
identici gli uomini nella diffidenza: dovunque le persone cercavano di tenersi lontane
dai propri simili e guardavano con ostile sospetto il forestiero: pi volte
mi furono negati cibo, ospitalit e persino acqua, nonostante
fossi - e lo dimostrassi -disposto a pagare a caro prezzo.
Nei pressi delle citt, al limitare dei ponti, agli incroci delle strade
erano frequenti i posti di guardia. Gendarmi arcigni interrogavano a lungo il viandante per sapere chi
fosse, donde venisse, dove andasse e perch; con lo sguardo corrucciato
dell'analfabeta esaminavano documenti e fedi di sanit; rimettendo, in fine,
ogni decisione ai loro ufficiali, annoiati e irascibili.
Camminai
spesso da solo, assorto nei miei pensieri. Raramente trovai chi fosse disposto
a lasciarmi salire su un carro. Soltanto i mendicanti e i pellegrini sembravano
accogliere con piacere la mia compagnia e mi intrattenevano con
straordinari racconti sulle tragedie che il morbo aveva provocato nelle citt
da cui provenivano, sui portentosi rimedi che qualche gran dottore vendeva
a peso d'oro, sulle meravigliose grazie concesse dall'uno o l'altro santo ai
propri devoti.
Seppi cos che Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Mantova e Trento avevano patito
terribili falcidie mentre Treviso e Bergamo erano rimaste, per la propria
devozione alla Vergine, quasi incolumi. Dovunque un'eccitazione, una paura,
un'irritabilit dominavano, tali da inquinare i rapporti sociali. A Padova
i magistrati erano stati costretti a emanare un bando per contenere le
vessazioni contro gli Ebrei accusati di arricchirsi con i beni degli appestati:
bench nel ghetto la peste avesse infuriato pi che nel resto della citt, ai Giudei si negavano il vino e il
pane! Il Vescovo di Brescia, si diceva, era fuggito dal suo palazzo per
evitare il contagio: e il suo collega di Milano, il santo Carlo Borromeo,
s'era offerto di prendere il posto di lui, anche per ricordare a tutti che
il recente Concilio di Trento aveva fatto obbligo ai vescovi di risiedere nelle
citt loro affidate. Sentii popolani commentare sarcasticamente la grande moria
di nobildonne (mentre le contadine morivano in egual numero che i maschi) con
la sprezzante conclusione che esse erano deboli perch oziose e viziose,
soltanto femmine da letto; e conobbi altra povera gente che, invece, si considerava
offesa dal fatto che la Dominante avesse preso a mandare in Terraferma
magistrati che non erano nobili: Perch dicevano solo dei nobili ci si pu
fidare.
E
tuttavia la peste sembrava avere stimolato non soltanto la malvagit,
l'intolleranza, le debolezze morali ma anche l'ingegno di molti. Vidi, per
esempio, un po' dovunque, grandi agglomerati di capanne di legno e di
paglia, non prive di una loro rustica bellezza. Le avevano costruite alcuni
villici e poi affittate a caro prezzo ad artigiani, professori d'universit,
commercianti che desideravano tenere la propria famiglia lontana da Padova. Si
diceva che queste ville fossero pi di tremila...
In una
taverna di Vicenza, una sera, mi sentii chiamare per nome. Era Toni
Prinoth, un mercante tirolese che avevo conosciuto in casa Barbarano e che mi
aveva sempre dimostrato grande simpatia. Rosso di pelo e di carnagione, il viso
devastato dalle cicatrici del vaiolo, grande e grosso pi che grasso, pareva
l'immagine della tranquillit. Mi abbracci con affetto, volle che mi
sedessi al suo tavolo.
Salvo
anche voi, dunque! Mi fa piacere, gridava in mezzo al frastuono dell'osteria
perch ormai, con le terribili notizie che arrivano da Venezia, davo per
morti tutti gli amici.
Ne
elenc alcuni del cui decesso era certo: mi accorsi con orrore che di nessuno
di loro, che pure anch'io avevo conosciuto, ricordavo il volto, la voce. Poi
Prinoth disse ci che oscuramente avevo presagito: ... e la nostra deliziosa
padroncina di casa, Fransisca Barbarano.
Giunta
nella sua villa di Stra, raccont il tirolese senza accorgersi del mio pallore,
Fransisca non aveva neppure fatto a tempo ad aprire i bauli che s'era sentita
svenire. Si era pensato alle fatiche del viaggio, all'emozione per un distacco
da Venezia che si preannunziava assai lungo... Poi ogni dubbio era stato fugato
dalla comparsa dei segni inequivocabili del morbo. E in tre giorni
Fransisca era morta vaneggiando.
Il padre quasi impazzito. Da mesi tiene
corte imbandita nella sua villa: ci sono baldracche, giocolieri,
zingari con l'orso ammaestrato; e fra loro nobili e nobildonne che il terrore
della morte ha reso avidi di piaceri. Il notaio il re demente di questo
festino ininterrotto: ma si comincia a mormorare che ormai non gli
rimanga che la villa e qualche rotolo di monete d'oro che ben presto
finiranno...
Soltanto a questo punto del racconto, Prinoth si accorse
che io piangevo. Da quel gentiluomo che era, nonostante il suo corpaccio
e il suo naso da bevitore, finse dapprima di non vedere le mie lacrime. Ma il
mio pianto si fece presto incontenibile: io non amavo pi Fransisca come si
ama una donna alla quale si vogliano unire la propria carne e il proprio destino;
ma ogni odio e amarezza nei suoi confronti erano svaniti in me, mi accorgevo di
pensare a lei con la tenerezza con cui un padre o un fratello maggiore
guardano a ima bambina; e mi sembrava che ora quella bambina vagasse, atterrita, nel buio.
5
Mi avvedo che nel mio racconto mi sono spesso raffigurato in
lacrime. Sbaglierebbe per chi credesse che io sia - o sia stato - un uomo
piagnucoloso, incapace di padroneggiare le emozioni. Si voglia,
invece, convenire che io vissi, al tempo della mia avventura, dolori e avvenimenti
di singolare gravit: e in tale contesto che l'animo non poteva non rimanerne
progressivamente scosso e quasi debilitato. Non ho mai capito, comunque, perch il
pianto debba essere in un uomo pi disdicevole del riso: al contrario, io penso, chi non
capace di piangere, o se ne vergogna, come chi non sa ridere: vive a met,
rinchiuso in una specie di corazza che gli comprime il respiro interiore e gli
rende impossibile stringersi al petto i propri simili.
Ma oltre al pianto e al riso esistono nell'uomo e nella donna altre
emozioni, ben pi difficili da padroneggiare: la rabbia e l'odio, per esempio. E
durante il mio viaggio io mi trovai a doverle fronteggiare: ci che pi
strano, come pi avanti
narrer, in un luogo sacro.
Gentilezza e, penso, un pizzico di rimorso per la sua sbadataggine
(non poteva non essersi accorto, a Venezia, che io amavo Fransisca) spinsero il
buon Toni Prinoth a offrirmi un passaggio sulla sua carrozza sino a
Mezzocorona, nel Trentino. Di l, mentre egli avrebbe proseguito per il Tirolo, io
avrei potuto discendere la Val di Non, poi salire sino al Passo
del Tonale e giungere finalmente in Valcamonica. Partendo da Venezia, avevo
progettato un diverso itinerario: ma la prospettiva di non dover vivere in
solitudine la tristezza
di cui mi aveva pervaso la notizia della morte di Fransisca, e di poter viaggiare
rapidamente e comodamente mi spinsero ad accettare la proposta.
Pi che
un amico, Prinoth si rivel un padre, discreto e generoso. Non mi parl pi di
Venezia n di Fransisca; solo una volta che mi vide chiuso in un desolato
mutismo si lasci andare a dirmi: Guerino, credete a un vecchio sciocco! Voi
siete giovane: tornerete ad amare ed essere amato.
Prinoth
ebbe anche la capacit di comprendere quando avevo bisogno di silenzio e
quando della sua rumorosa conversazione. Cerc di farmi mangiare
abbondantemente perch mi ritemprassi; cerc anche, ma con minore successo,
di farmi bere molto vino e molta birra: rimedi, assicurava, preziosissimi
per ogni malattia dell'anima e del corpo.
Gli
affari obbligavano il mio amico a frequenti soste, cosicch il viaggio
risultava tutt'altro che faticoso. Quando rimanevo solo, io leggevo
appassionatamente la Bibbia che era stata di don Fanelli. La traduzione
italiana mi faceva intendere nuovi significati delle Scritture e suscitava in
me nuovi problemi. Non mi stancavo di passare dalle parole volta a volta
terribili o dolcissime dei profeti alla storia grandiosa dell'Esodo all'accesa
sensualit del Cantico dei Cantici: un dono fatto da Dio ai giovani, io credo,
perch siano fieri della carnalit del loro amore. Talvolta, come mi poi di
nuovo accaduto nel corso della vita, sentivo Dio sovrastarmi come quando Mos,
sul monte, gli aveva chiesto di contemplarlo: giacevo in una cavit della
roccia, egli mi faceva schermo con una mano perch il fulgore della sua gloria
non mi uccidesse mentre passava per ore, per giorni, sopra di me come nuvole di
temporale spinte da un vento impetuoso. Talvolta, come sempre pi frequentemente
mi accade ora che sono vecchio, mi sembrava invece di sentire nella mia mano la
mano calda e asciutta del Cristo che mi portava con s verso una festa di
nozze; o, addirittura, ripensando a ci che avevo sofferto, credevo di
essere Lazzaro chiamato fuori dalle tenebre del sepolcro verso la luce del
sole...
A
Mezzocorona, come convenuto, vi fu il congedo. Toni, che andava verso il Tirolo
in cui continuava, e da anni ormai, a infuriare la peste, dichiar solennemente
che con i tempi che correvano era facile che due cristiani non dovessero
rivedersi se non in paradiso; ma se mai io fossi salito dalle parti di
Innsbruck, ricordassi che vi avevo un amico sicuro. Risposi, con altrettanto
affetto, che, saputo ci che aveva fatto per me, i miei genitori lo avrebbero
sempre considerato un fratello. Gli vennero le lacrime agli occhi, ordin con
voce brusca al cocchiere di partire immediatamente. Dio lo benedica!
Discesi a
piedi la Val di Non senza
incontri degni di nota, ma felice di trovarmi fra monti cos simili ai miei.
Poi, un giorno - ero ormai giunto a una trentina di miglia dall'inizio della
salita per il Tonale e zoppicavo penosamente per una piaga che mi s'era
formata a un calcagno - mi super una carrozza tirata da due cavalli. La
guardai senza speranza: sapevo ormai, per molteplici esperienze, che ben pochi signori sono della razza di
Toni Prinoth. Con mia grande
meraviglia, invece, la carrozza si ferm e il vetturale mi fece cenno che mi
avvicinassi. Quasi incredulo, mi affrettai come potevo. Dal finestrino si
sporse il volto magro e pallido di un anziano frate domenicano: Monta, monta,
figliolo. Siediti a cassetta, poich qui dentro siamo gi in due e con un gran
mare di carte. Ringraziai con calore. Mi rispose: Il nostro santo padre
Domenico ci ha insegnato a vedere Cristo in ogni bisognoso. Sii dunque il
benvenuto.
Salii
accanto al cocchiere e commentai che quel frate era davvero un brav'uomo: Altroch disse con convinzione il
vetturale. E sapessi quant' importante! Ma poich la strada era
difficile e sconnessa, rimandammo i discorsi ad altro momento.
6
Due ore pi tardi giungemmo al convento domenicano di ***, ai piedi
dell'erta per il Tonale. Il nostro arrivo doveva essere atteso perch il
portone fu subito spalancato, una campanella cominci a suonare festosamente e da
ogni parte
vennero correndo frati di tutte le et. Si radunarono intorno alla carrozza,
inchinandosi e sorridendo: nei loro abiti bianchi e neri, sembravano un
branco di gazze intente a
becchettare.
Seguito da quello che era evidentemente un segretario e che si teneva
umilmente in disparte, l'anziano domenicano che mi aveva raccolto sulla strada scese
dalla carrozza e potei finalmente vederlo bene: era alto e diritto, i capelli brizzolati, il
naso aquilino e le labbra sottili nel volto scavato. Il
superiore del convento si fece avanti e tent di baciargli la mano; quello gliela
sottrasse e lo strinse invece amabilmente fra le braccia.
La campana, intanto, continuava a suonare. I frati si ordinarono in
processione e tutti ci recammo nella cappella per una breve cerimonia di
ringraziamento. Dopo la preghiera, rivolto ai suoi sudditi, il Priore del
convento disse: Fratelli, avremo la gioia di ospitare per qualche
settimana padre Romualdo Zane, vanto del nostro Ordine, recentemente nominato
Inquisitore per la Terraferma veneta. Egli viene, con un caro confratello, a
raccogliere le memorie del nostro venerando padre Valerio per metterle a frutto
di tutta la Santa Chiesa. Sono sicuro che ciascuno di noi cercher di rendere lieta
e proficua la sua presenza fra noi.
Rispose
amabilmente padre Romualdo che la tradizione di ospitalit e la temperie spirituale del convento di ***
gli erano ben note, sicch si considerava come giunto nella propria casa.
Egli veniva per un compito non facile ma certamente utilissimo. Dopo il
Sacrosanto Concilio di Trento, la Chiesa stava dovunque rinvigorendo la lotta
agli errori che offuscavano il suo volto e la ragione di tanti uomini e
donne, persino di sacerdoti. Non era difficile - disse padre Romualdo -
identificare e combattere i luterani, neppure quelli che, come fumus Diabuli,
si erano insinuati nella Casa del Signore: da un lato, le loro eresie erano
immediatamente riconoscibili nel rifiuto di sottomissione filiale al Sommo
Pontefice e di venerazione per la Santa Madre di Dio; dall'altro, grazie al
Cielo!, nelle nostre terre essi non potevano, come purtroppo altrove, contare
sulla protezione di principi o di altri potenti.
Ma i luterani
- spieg l'oratore - non erano l'unico pericolo per la purezza della fede:
altre eresie erano diffuse tra il popolo. Anzi, era convinzione di padre
Romualdo, che la povera gente (la maggior parte dell'umanit!) poco si curasse
di dibattiti teologici e di contese sulla Santa Bibbia e continuasse, invece, a
lasciarsi fuorviare, in molte zone, da orribili superstizioni che affondavano
le radici nelle antiche sozzure pagane e nella presenza sempre viva e velenosa
di Satana.
Anche per il
fatto di abitare cos vicino al Passo del Tonale, unanimemente riconosciuto
come luogo di raduno delle streghe, i cari confratelli sapevano bene quanto i
culti demoniaci fossero ancora vivi tra i bifolchi delle valli alpine.
Lui, padre Romualdo, bench indegno, era stato chiamato a ripulire da
queste immonde erbacce il giardino della Chiesa, nella Terraferma veneta. Lo
avrebbe fatto con tutte le sue forze. Ed ecco che, mentre si preparava al suo
compito, senza nessun altro scopo che la maggior gloria di Dio, egli aveva
appreso che proprio l, nel convento di ***, era ancora vivo padre Valerio de
Boni, colui che, per la sua meravigliosa
battaglia in Valcamonica, pi di mezzo secolo prima era stato
chiamato malleus maleficarum!
Padre
Romualdo aveva allora sentito il desiderio, e quasi il dovere, di raccogliere
gli insegnamenti di un uomo cos straordinario: del testimone di una stagione
in cui la Chiesa, non infiacchita dalla mitezza eccessiva di certi ecclesiastici,
come poi era avvenuto, aveva colpito duramente gli adepti di Satana.
L'Inquisitore si sarebbe posto ai piedi di padre Valerio come alunno, ne
avrebbe registrato attentamente le preziose lezioni. Intanto, desiderava
ringraziare il reverendo padre Priore e i cari confratelli tutti per avere
mantenuto in vita con la loro amorevolezza un uomo tanto venerando.
I frati
accolsero con evidnte compiacimento il discorso di padre Romualdo e poco
manc che lo applaudissero.
Avevo notato
che pi volte il Priore mi aveva fissato, dapprima con uno sguardo
interrogativo e poi con aperta cordialit. All'uscita dalla cappella, mentre
padre Romualdo e padre Teresio "(cos si chiamava il segretario) si
recavano a prendere possesso delle loro celle, egli venne festevolmente
verso di me e mi domand se io non fossi figlio di quel messer Bernardino
Ronchi di Breno, cui gli pareva ch'io somigliassi e cui la famiglia domenicana
doveva riconoscenza per tante cortesie ricevute.
Alla mia
risposta affermativa, egli mi esort a fermarmi nel convento quanto
volessi e, vedendo che zoppicavo vistosamente, mi ingiunse di farmi medicare da
padre Ludovico: il quale, dai confratelli e dagli abitanti dei paesi
vicini, era considerato un grande dottore bench avesse studiato soltanto, come
lui stesso usava dire, all'universit di mia madre e dei boschi.
7
Nonostante
gli impiastri ( o forse a causa degli impiastri) di cui padre Ludovico andava
ricoprendola, la piaga si infett, il piede mi si gonfi e mi trovai
impossibilitato a riprendere il mio cammino. Ormai, tuttavia, ero vicino a
casa. Scrissi alcune lettere a mio padre e le affidai ad altrettanti
viaggiatori che salivano verso la Valcamonica. Chiedevo umilmente aiuto
come il figliol prodigo del vangelo; raccontavo, molto sommariamente, le mie
avventure, mi felicitavo di avere appreso che la peste si era arrestata ai
confini meridionali della Valle, cosicch potevo pensare in buona
salute tutti i miei cari; e supplicavo mio padre di mandarmi a prendere
con una carrozza o di farmi avere i soldi per l'acquisto di una cavalcatura. Io
avrei atteso due settimane nell'ospitale convento, a meno di non trovare
chi acconsentisse a prendermi con s; poi — padre Ludovico giurava
che per quell'epoca sarei perfettamente guarito - in caso di mancata risposta
avrei ripreso a piedi il mio viaggio: maggior indugio non mi era consentito dal
desiderio, che ormai s'era fatto smanioso, di rivedere la mia famiglia, dopo
tanto soffrire e mio e suo.
Le frequenti
letture della Bibbia nel silenzio della cappella e la partecipazione alle
liturgie conventuali mi avevano attirato la simpatia dei frati che spesso,
dopo la refezione serale, amavano conversare con me. Alcuni di loro erano
ignorantissimi, altri non si erano mai mossi dal convento se non per
qualche cerimonia nei paesi circostanti, nei quali erano nati: a loro,
nonostante la giovane et, io apparivo come un grande viaggiatore ed essi non
si saziavano mai di ascoltare i miei racconti: che talvolta, con un po' di
vanit o addirittura di malignit, infiorettavo di particolari
sensazionali fantasiosamente inventati.
Fra
quelli che gradivano conversare con me, uno mi attirava specialmente, per la
sua finezza intellettuale e per la sua intensa religiosit; e nello stesso
tempo mi incuriosiva perch, man mano che passavano i giorni, lo vedevo
turbato e quasi divorato da una febbre interiore. Era quel padre Teresio da
Rovereto che accompagnava come segretario padre Romualdo.
Poteva
avere quarant'anni, la sua corporatura era esile, spioventi le spalle. Ai
lati del cranio rasato, perfettamente rotondo, le grandi orecchie
sporgevano vistosamente, conferendo al suo volto, non so bene perch, un
aspetto infantile. Anche la bocca sembrava quella d'un bambino, un po' gonfia.
La miopa rendeva i suoi occhi incerti e dolcissimi.
Quando,
per la prima volta, avevamo intrecciato una conversazione, il giorno dopo il
nostro arrivo, si era detto felice del lavoro cui avrebbe atteso. La sua
passione era la storia, quella sacra e quella profana: Pensate! Padre Valerio
una persona nata nel secolo scorso, oggi nonagenario. Quali tesori pu
offrirci se la sua memoria ancora integra, come dicono e come a me pare, dopo
il primo breve incontro con lui! .
Aveva
insistito perch mi recassi a vedere il vegliardo. Avrei dovuto fingere di
essere un servo, per non turbarlo: padre Valerio, infatti, non amava essere
avvicinato da sconosciuti e soltanto per mantenere fede al proprio voto di
obbedienza aveva accettato di rispondere alle domande di padre Romualdo.
Eravamo
entrati in una grande sala, arroventata da un caminetto acceso nonostante la
dolcezza di quel settembre. Il martello delle streghe mi parve, dapprima, piuttosto
che un uomo, un immenso viluppo di panni e di coperte abbandonato su una grande poltrona. Poi distinsi una faccia gonfia, color cenere, singolarmente priva di
rughe, ispida di una barba mal rasata. Gli occhi acquosi ammiccavano sotto sopraccigli cos folti da sembrare due pezzi
di pelliccia. Dalla grande
bocca sdentata usciva una vocetta grac-chiante
che talvolta si perdeva in un sussurro incomprensibile. Da anni una paralisi gli aveva
immobilizzato la gamba e il braccio sinistri.
Il medico del convento (vale a dire: padre Ludovico), che da
tanti anni si curava di lui, asseriva che ormai padre Valerio aveva i giorni
contati dall'idropisia: i visitatori erano giunti appena in tempo...
Nella stanza ristagnava un acre odore d'urina; ma su quel
corpo in disfacimento si appuntava, come potei constatare quel
giorno e nei giorni seguenti, la venerazione dei confratelli perch tutti sapevano
che, per decine di anni, padre Valerio aveva posto, e logorato, il suo vigore
fisico a difesa della
purezza della fede.
Mentre raccoglievo alcune stoviglie, i suoi occhi mi avevano seguito
con sospettosa ostilit, poi lo avevo sentito chiedere a padre Teresio: Siete
uno di quei veneziani? Quando
dobbiamo cominciare?.
Domattina, reverendo padre aveva risposto con ossequio il frate.
Allora, sorprendentemente, padre Valerio aveva riso: Beh, fate in
fretta se volete che ci sia ancora! .
8
Alla
primitiva eccitazione dello studioso che sperava di ampliare le proprie
conoscenze and subentrando in padre Teresio una condizione di profondo
disagio e poi di crescente malessere.
Gi agli
inizi del suo lavoro, mi confid che era rimasto turbato dal modo di porsi
del vegliardo davanti al messaggio di Dio: Vedete, Guerino, io credo che
ognuno, magari senza saperlo, scelga un proprio vangelo ideale, ritagli
dalle Scritture una norma che gli pare importante sovra le altre. Lui,
padre Valerio, ha scelto due terribili frasi dell'Antico Testamento, legate ai
tempi della "durezza di cuore" di Israele. Sono le uniche citazioni
bibliche che ripete in continuazione. Per averle ormai scritte tante
volte, le ricordo a memoria: Esodo 22,17: Non lascerai vivere chi pratica la
maga; Levitico 20,27: Se un uomo o una donna in mezzo a voi evocheranno gli
spiriti dei morti o faranno gli indovini, dovranno essere uccisi: saranno lapidati
e il loro sangue ricadr su di loro...
Qualche
giorno pi tardi, padre Teresio mi chiese quanti abitanti potesse contare la
Valcamonica nel 1518, cio all'epoca della grande caccia alle streghe
sferrata da padre Valerio e da quattro suoi confratelli che lavoravano in
stretto accordo con lui. Io non lo sapevo esattamente ma azzardai una cifra che
ho poi verificato esatta: fra le trentacinquemila e le quarantamila
persone. A questa mia risposta, padre Teresio alz le mani al cielo:
Sapete quante furono gettate in carcere? Circa cinquemila, il che vuol dire che non solo intere famiglie ma interi paesi vennero coinvolti nei processi! .
Il giorno dopo, le labbra gli tremavano mentre mi raccontava:
Una
strage, una vera strage! terribile ci che ci ha raccontato oggi il vegliardo! Pensate! Sulle piazze delle cinque
pievi della vostra Valle furono bruciate vive, complessivamente,
sessantaquattro
persone. Talune erano state torturate cos
a lungo e crudelmente da dover essere portate al rogo su
barelle; e almeno quattro donne erano gi morte prima che
le fiamme le raggiungessero. Ma, dice il vecchio, furono arse egualmente:
perch anche il numero degli abbruciati
conta quando la Chiesa e il suo braccio secolare scelgono, per
fortificare la fede dei sudditi, la me-dkina di un salutare terrore.
Man mano che il lavoro
di verbalizzazione dei racconti di padre Valerio procedeva, un mutamento anche fisico traspariva nei due Inquisitori. Padre Romualdo aveva occhi pi accesi e
un tenue rossore copriva le sue pallide guance quando usciva
dalla sala degli interrogatori; a sera, durante
la cena, non mancava di rendere pubbliche lodi al coraggio, alla tenacia con cui padre Valerio aveva sradicato la mala pianta della stregoneria: Un vero Domini canis esclamava con forza.
Padre Teresio sembrava invece divenuto un topo impaurito.
Avvolto nel suo mantello nero scivolava lungo i muri, silenziosamente ed evitava
ogni conversazione. Accampando un persistente dolore allo stomaco, aveva
chiesto ed ottenuto di essere esentato dalla cena in refettorio: beveva una
scodella di latte in cucina; e l, una sera, lo trovai, tutto solo, in pianto.
Dapprima rifiut di parlarmi: poi, vinto dalla mia amorevolezza, mi
confess di essere allo stremo delle proprie forze morali. Gli orrori che
andava annotando, la compiacenza con la quale padre Valerio rendeva le
proprie terribili deposizioni e l'insistenza con cui padre Romualdo chiedeva
particolari sulle torture alle quali gli inquisiti erano stati
sottoposti gli parevano essi stessi un rito malefico, che niente
avevano a che vedere con la fede nel Signore Ges, mite e umile di cuore,
colui che non spezzava la canna incrinata n spegneva il lucignolo fumigante.
Quel giorno, mi raccont Teresio, l'Inquisitore aveva domandato al
vecchio come e perch avesse scelto, a suo tempo, la propria missione. Volevo
ascoltare la risposta? Il mio amico trasse dalla tasca alcuni fogli di appunti
che non
aveva ancora avuto la forza di trascrivere. Riassunse cos ci che padre Valerio aveva
detto.
Nel 1517, aveva trentadue anni e si trovava a Brescia quando gli era
stato offerto da un confratello di intervenire come scrivano al processo
intentato a quella che nella sua deposizione definiva una immonda vecchia.
Gli interrogatori nel chiuso della camera di tortura e quelli in
pubblico erano durati due mesi. Valerio ne era rimasto sconvolto: La
pertinacia con la quale la megera negava le accuse di stregoneria e poi la
dovizia di infami particolari con la quale le confermava se appena,
esaurito ogni bonario tentativo dei giudici, il boia le pungolava le
carni, spalancarono davanti a me visioni di orrore. Era dunque vero quel che avevo sentito
narrare da tanti, e cio che, come Cristo, anche Satana ha i propri
sacerdoti e, come i re, i propri eserciti: i quali si levano in armi contro
la fede non gi con picche e archibugi ma con unguenti e sortilegi anche pi temibili di
ogni arma terrena; possono colpire con le forme d'una donna seducente, con
l'avidit di piaceri o di poteri sovrumani, con il fascino di riti perversi.
Contemplando poi il sollievo dei testimoni —
bifolchi che, finalmente, vista in ceppi la donna malefica, ritrovavano il coraggio
della verit e della conversione, dopo essersi da lei lasciati infangare
l'anima — il frate aveva giurato di consacrare tutte le proprie forze
alla lotta contro quello che
definiva il corpo mistico di Satana.
Ma - desiderava sottolinearlo - a spingerlo a questo impegno non era
stato soltanto l'odio per il male ma anche l'amore per i peccatori:
L'orrenda vecchia, che nel viso e nel
corpo deformi portava evidenti i segni della degradazione morale, man mano che le amorose esortazioni
degli Inquisitori e l'opera del
carnefice la piegavano al pentimento, ritrovava l'amore per il Signore,
per la Vergine; andava supplicandoli con
tenere parole, con gemiti, con una devozione che
pareva quella d'una bambina. Oh s, talvolta li invocava contro di noi: ma se tu costringi con la forza un piccino a ingurgitare l'amara medicina che
pure gli necessaria, anch'egli
si dibatter, ti insulter e persino desiderer la tua
morte... Allo stesso modo quella donna (ecco, ri-cordo il suo nome: Benvenuta Pincinella) gridava contro di noi: ma intanto, guidata dalle nostre mani di
miele e di ferro,
tornava sulla strada del Signore; e
un'invocazione a Maria Santissima
stato il suo ultimo grido tra le fiamme del rogo.
9
Qualche
giorno pi tardi, dopo la messa conventuale, padre Romualdo annunzi che il suo
confratello non aveva la forza di levarsi dal letto su cui giaceva tremante di
febbre. Padre Ludovico fu mandato a visitarlo. Torn dicendo con la
consueta ruvidezza: un professorino cui il mestiere di frate non
conviene. Il viaggio, il lavoro, i digiuni lo hanno sfinito. Letto e cibo
abbondante lo guariranno. Ma disse rivolto all'Inquisitore credo che per
qualche settimana vi sar necessario un altro aiuto.
Padre
Romualdo si appart in conciliabolo con il Priore. Poco dopo, mi fece
cenno di avvicinarmi a lui: Ho accettato di prendere come segretario padre
Giuseppe da Vermiglio, consigliatomi dal suo superiore: ma solo per cortesia.
Non sono convinto delle sue doti, mi sembra lento e impacciato; ho avuto
modo, invece, di notare che voi scrivete velocemente e so che siete un giovane
colto, devoto e fedele alla Chiesa. Cos, appena trover modo di liberarmi
di padre Giuseppe senza offendere il Priore, il mio aiutante sarete voi.
Mi
sentii mancare, inorridito com'ero dai racconti di padre Teresio; ma sapevo
bene che non si pu negare collaborazione a un membro della Santa
Inquisizione senza attirare su di s e sui propri cari rovinosi sospetti.
Risposi dunque che ero onorato della sua stima ma che, come sapeva, di l a una
settimana, poich il mio piede era ormai guarito, avrei ripreso il mio viaggio.
Vedremo, vedremo! disse padre
Romualdo, con un sorriso che mi parve sinistro.
Inquieto e
angosciato, quella sera bussai alla porta della cella di padre Teresio, sia per portargli la consolazione
dell'amicizia sia per chiedere il suo consiglio. La sua voce mi parve impaurita
mentre mi chiedeva chi fossi, prima di aprire il chiavistello.
Quando
mi lasci entrare, mi ritrovai, con grande sorpresa, in una cella inondata
di luce. Le abitudini del convento erano spartane: in ogni stanza un fioco
lumicino consentiva appena di vedere le sagome dei mobili; qui, invece,
cinque candele ardevano sull'inginocchiatoio ed altre erano preparate accanto a
loro.
In quel
chiarore, gli occhi di padre Teresio apparivano pesti e supplichevoli. Egli
tent un sorriso mentre si trascinava sul lettuccio dal quale era
evidentemente sceso per aprirmi: Le ho rubate in sacrestia. Il buio mi fa
orrore. Nel buio sento voci fioche che mi chiedono piet. Sono le vittime di
padre Valerio, sapete. Se rispondo loro che non sono stato io il carnefice dei
loro tormenti, esse replicano che vesto
il suo stesso abito e sono pronto a compiere le sue stesse imprese. Ho stretto il mio cilicio, raddoppiato le mie preghiere ma sono ormai il relitto di
un naufragio. Non riesco pi a credere nell'obbedienza che un frate deve ai
suoi superiori come se fossero lo stesso Cristo. Entrando nell'Ordine di san
Domenico, avevo giurato che avrei accolto lietamente ogni incarico, ogni
destinazione. Adesso desidero con tutte le mie forze andarmene da questo luogo
spaventoso, lasciare padre Romualdo, padre Valerio. Quelle voci....
Si
lasci cadere sul letto, stringendosi nel suo nero mantello. Ma subito torn a
levarsi: Quell'orribile vecchio parla delle sue stragi come di una festa!
Intorno ai roghi faceva suonare pifferi e zampogne e trombe e tamburi. E
le campane suonavano, come al momento dell'elevazione. E a contemplare i roghi non c'erano solo uomini e donne ma anche
bambini. Tutti dovevano sentirsi pi buoni e pi allegri mentre il Diavolo veniva scacciato dal paese attraverso i fuochi su cui spasimavano le carni
della sua gente...
Sono malato, Guerino! disse con voce lamentosa. Chi mi
liberer di questo corpo di morte? Non voglio guarire perch il futuro mi
appare pi spaventoso del passato. Quei fuochi bruceranno ancora,
bruceranno ancora...
Cercai di consolarlo dicendo che padre Romualdo aveva chiesto la
sua sostituzione. Sorrise come un bambino che non si fidi di una bella
promessa: Dite davvero, Guerino? Non ne so niente e non ci credo. Gli
assicurai che era cos: io stesso, forse, avrei dovuto subentrargli
nell'incarico.
Non lo fate, Guerino, fuggite! mi grid con voce strozzata. Non
lasciatevi lambire dalle onde di quel mare mostruoso! Poi sembr quietarsi: Ma
voi siete giovane, vigoroso. Avete una famiglia in cui rientrare. Vostra
madre ancora viva, vero? Come vorrei avere una madre! .
Mentre parlava, il labbro inferiore cominci a tremargli e a
inarcarsi verso l'alto, come quello d'un piccino che sta per piangere. Allora
torn a distendersi e mi volt le spalle. Sconvolto, uscii dalla sua cella.
10
A salvarmi
dalla decisione dell'Inquisitore fu, il giorno dopo, mio padre. Quasi per un
presentimento, leggevo le ultime pagine del Libro di Tobia, figlio di Tobi, un
racconto biblico che descrive la meravigliosa storia di una famiglia
unita nella sofferenza e nella speranza: Tobi gli si butt al collo e pianse
dicendo: Ti vedo, figlio, luce dei miei occhi! E aggiunse: Benedetto Dio!
Benedetto il suo grande nome!... Perch egli mi ha colpito ma poi ha avuto
piet ed ecco io ora contemplo mio figlio Tobia.
Erano le
dieci del mattino. Sentii la carrozza entrare nel cortile del convento, il
cuore mi danz nel petto e corsi gi per le scale come un ragazzino. Era lui,
era lui! Restammo un istante, muti, a contemplare i segni che il tempo e
il dolore avevano inciso sui nostri volti. Poi ci abbracciammo stretti; e
non riuscivamo pi a staccarci l'uno dall'altro...
Il Priore
accolse amorevolmente mio padre, ci guid in parlatorio ed ebbe la bont di
lasciarci soli a consumare un pranzo che, contrariamente alle usanze del
convento, fu abbondante e arricchito di buon vino. Noi non riuscivamo quasi a
parlarci, se non con frasi smozzicate. Lui, diceva, mi trovava ormai un uomo,
io lo trovavo - mentii - giovane e vigoroso; ma cercavo invano di vincere
la mia pena nel contare tante nuove rughe sul suo viso e quanto si fossero
fatte grosse e nodose le vene sul dorso delle sue mani.
Fu
facile discorrere degli altri, dare e commentare tante notizie. Ma parlare di
noi fu - come al solito - quasi impossibile. La nostra gioia nel rivederci era
grande, evidente il nostro reciproco amore.
Questo avrebbe dovuto bastarci: fra
padre e figlio difficile comunicare sentimenti, dirci quanto ci si vuol bene, descrivere certe
esperienze, le pi intime. Ma io
sentivo (e credo che anche lui sentisse) la nostalgia di quanto avrebbe potuto
forse esserci fra noi e non c'era,
non c'era mai stato: una confidenza piena, l'aprirsi vicendevole dei cuori. Cos la vita dei maschi, in questo, a me sembra, tanto pi rozza e povera
di quella delle donne...
La sera salii nuovamente a far visita a padre Teresio. Lo trovai in
piedi, allo scrittoio. Gli occhi erano lucidi di febbre e le sue guance
arrossate; ma, d'un tratto, egli sembrava forte e sicuro. Soltanto due
candele ardevano ora nella
stanza.
Mi fece cenno di sedermi sul suo letto mentre rapidamente finiva di
ricopiare alcuni fogli. La sua penna raschiava una pergamena, con forza, decisa.
Dopo una decina di minuti, Teresio sospir come chi ha
portato a compimento una lunga fatica. Si volt sorridendo:
Guerino, fratello mio, ho lavorato tutto il giorno per te. Stamani
ho sentito arrivare la carrozza, mi sono affacciato e ti ho visto riabbracciare
tuo padre. Domani partirai, ne sono certo. Tuo padre m' sembrato un uomo deciso, non ti
lascer nelle mani di padre Romualdo.
Torn a sorridere, come un fanciullo: Ieri sera, invece di
consolarti, ti ho turbato con il mio turbamento. Oggi ho pensato che ti avevo comunicato
soltanto i fatti pi turpi che ho ascoltati
da padre Valerio, mentre ce ne sono alcuni,
da lui narrati con orrore, che a me sono rimasti nella memoria come un
bel sogno. Ho voluto fartene dono. Mi pose
in mano la pergamena che aveva vergato: Nascondila, adesso, che nessuno
la veda quando uscirai di qui. Io
sono ormai perduto. Prega per me. Non mi lasci replicare, mi abbracci, mi spinse fuor dalla porta.
Lo sentii chiudere il chiavistello, provai invano a bussare.
Come Teresio aveva previsto, mio padre fu scaltro e intransigente.
Si appell alla comprensione dell'Inquisitore, da padre carnale a padre
spirituale: questo figlio mancava da casa ormai da un anno, dato per perso; adesso che era
stato ritrovato e raggiunto, si poteva chiedere alla madre di pazientare ancora? La povera donna ne sarebbe stata straziata: e la Chiesa non esaltava forse
la piet filiale? Ed era poi
opportuno - si permetteva di chiederlo -che un uomo tanto giovane, e laico per giunta, venisse addetto a un lavoro cos delicato come quello che
il reverendo gli aveva proposto?
Lui, mio padre, gli era grato di tanta stima;
e, per la conoscenza che aveva di me, osava dire che era ben riposta: Ma un giovane sempre un
giovane, tende fatalmente alle
chiacchiere con gli amici.
Romualdo, il quale, dopo tutto, doveva essersi ricreduto sul conto
del povero padre Giuseppe, fece buon viso a cattivo gioco. Mi lasci con la sua
benedizione, ma volle aggiungere un consiglio: mi aveva visto leggere la Bibbia
spesso,
forse persino troppo spesso; ricordassi che anche fra la Sacra
Scrittura e l'anima di un cristiano pu insinuarsi furtiva la
voce del Tentatore. Soltanto la Gerarchia ecclesiastica sa interpretare con
sicurezza la Parola dell'Altissimo; riportassi dunque ogni mio
dubbio di fede al mio parroco e non pretendessi mai di riuscire a comprendere da me un
messaggio su cui da millecinquecento anni si affaticavano il
Santo Padre, i Vescovi e i teologi...
Prima della partenza tornai da Teresio, ma inutilmente: la porta
della sua cella era socchiusa, il mio amico era sdraiato sul letto, seduto accanto a lui, quasi
ricoprendolo, c'era padre Ludovico. Il
medico si volt a guardarmi, accigliato, scosse la testa in atto di
deprecazione e con la mano mi fece
cenno di andarmene. Non osai insistere.
Tutti gli altri
frati ci salutarono affettuosamente, stringendosi intorno alla nostra carrozza.
Il Priore, prima del congedo, chiese a mio padre se non volesse, per caso, essere
presentato al vecchio padre Valerio che tanto si era prodigato per
la salvezza di Breno. Con mia sorpresa, mio padre rispose che un attacco di gotta lo
travagliava dalla notte precedente e riusciva a fatica a tenersi in piedi.
Chiedeva, pertanto,
licenza di partire subito.
Quando il portone del convento si chiuse alle nostre spalle,
domandai ansiosamente a mio padre notizie sulla sua salute: soffriva molto? da
quanto tempo quel male cos insidioso lo aveva colpito? Mio padre mi rispose
bruscamente: Sto benissimo; ma per nulla al mondo avrei voluto rivedere
quell'uomo. Tu lo conosci? domandai sbigottito. Avevo tre anni rispose
lui con voce sommessa quando a Breno, sulla piazza del mercato,
bruciarono otto streghe. Tra la folla c'ero anch'io. Da un palco, il frate gridava che per
ogni ramoscello posto sul rogo avremmo avuto il dono di cento giorni di
indulgenza. Non sapevo che cosa fosse un'indulgenza ma portai anch'io il mio
bravo legnetto e
qualcuno mi batt le mani.
11
Dopo un'ora o
poco pi, mio padre, stanco delle precedenti giornate di viaggio e sfinito
dalle emozioni, si appisol. Guardavo con tenerezza il suo volto che nel
sonno sembrava pi dolce e indifeso; e sentivo crescere in me quello strano
sentimento di paternit per il proprio padre che segna il trapasso dalla
giovinezza egoista e competitiva alla maturit che sa riconoscere i doveri
della gratitudine e della piet per l'anziano.
A questo
stato d'animo si mescolava l'inquietudine che sempre coglie chi ritorna da una
lunga assenza: i dubbi per il proprio futuro, la paura di trovare mutata la
realt nella quale si vissuti ma soprattutto la paura di trovare mutati se
stessi, irreparabilmente.
Costretto
al silenzio, innervosito, mi ricordai infine delle carte consegnatemi da
Teresio, le trassi dalla mia sacca e cominciai a leggerle.
Sono
passati tanti anni da quel giorno e non sono mai riuscito a sapere come n dove
sia finito colui che scrisse quella lettera. Temo forte che egli non sia
campato a lungo dopo il nostro congedo: se egli ha manifestato a qualcuno -
tanto pi nell'ambiente in cui viveva - le opinioni che mi aveva confessato
apertamente, e che nella sua lettera cos inquietante ribadiva, non c' da
dubitare che la Santa Inquisizione lo abbia stritolato, o reso muto, con
quelle mani che il terribile vegliardo aveva definito di ferro e di miele...
Teresio aveva scritto:
Caro
Guerino, fratello mio nel Signore, nel Cristo Ges nella cui misericordia
continuer a credere sino al mio ultimo respiro! Ci siamo conosciuti per pochi,
pochissimi giorni: ma la tua amorevolezza nei miei confronti stata cos
cordiale e toccante che io ti ho aperto volentieri il mio cuore travagliato; di
pi: mi sono attaccato a te come fa un bambino con il fratello maggiore se le
tenebre calano improvvisamente mentre sono in cammino.
Grazie!
Te lo dico con tutto il cuore perch penso che non ci vedremo mai pi, su
questa Terra. Io sto per compiere qualche atto che potr sembrare inconsulto ma
che a me sembra doveroso: debbo, assolutamente, testimoniare in pubblico
l'orrore che mi ha colto nell'apprendere dalla viva voce di un carnefice le
torture inflitte a creature di Dio, nel suo Santo Nome. Tacere mi sembrerebbe
correit: tanto pi che comprendo che padre Romualdo si prepara a riprendere le
imprese di Valerio de Boni; e ne ha i mezzi e il potere.
Io non
affermo che tutte le persone cadute nella "grande caccia" in
Valcamonica fossero sante. Al contrario, possibile e persino probabile che
qualcuna si fosse macchiata di uno o pi delitti; altre erano sicuramente
folli; altre ancora, cattive, per naturale inclinazione o perch rese tali
dalla repulsione dei vicini per la loro bruttezza o infermit; ed altre
erano veramente streghe o stregoni, cio si erano convinte di esserlo per
illudersi di essere forti mentre non erano che rottami umani; o perch, prive
della grazia della fede, cercavano di seguire ancora antichissimi riti, giunti,
con chiss quali deformazioni!, sino a loro; o perch, infine, si vantavano
capaci di malefici per guadagnarsi da vivere alle spalle della superstiziosa
crudelt della plebe, degli odi che tanto spesso avvelenano la vita dei paesi e
persino delle famiglie. Alcuni meritavano certamente una punizione, severa. Ma
non furono puniti: furono massacrati, fatti a brandelli! E, pensa,
Guerino, che le sessantaquattro persone poste al rogo in quel terribile
anno 1518 confessarono complessivamente pi di duemilacinquecento assassini:
una strage di cui nessuno aveva mai avuto contezza, incomprensibilmente, prima
che Valerio e i suoi confratelli giungessero nella Valle!
La
realt che gli Inquisitori ararono la Valcamonica paese per paese con la loro
predicazione. Seminarono il terrore in tutti i cuori: ogni gesto furtivo di un
vicino, ogni strano odore annusato alle finestre di una persona che viveva
sola, il canto inconsueto di una vecchia, tutto poteva testimoniare la presenza
del demonio. Non riferire questi segni di Satana agli Inquisitori significava
farsi complici delle streghe, perdere la propria anima, rischiare l'arresto
e la tortura.
Ai
peggiori non fu difficile rivestire di questi sospetti le persone su cui
appuntavano i propri rancori, le proprie antipatie. Ai pi deboli fu difficile
vincere la tentazione di diventare, di colpo, eroi, collaboratori dei potenti
in un'impresa tanto meritoria. Cos si riempirono di gente le carceri e le
sale di tortura.
Straziate
dai tormenti, blandite da promesse non mantenute, estenuate dalle preghiere
continuamente rovesciate su di loro, schiacciate da terribili invettive,
riprese dolcemente e poi lasciate ricadere di schianto nell'abisso dei
supplizi, molte di queste persone confessarono turpitudini senza nome.
Confessarono? Per notti e notti, nell'insonnia che mi viene dall'orrore, io ho
studiato queste "confessioni": ti giuro, Guerino, non possono
essere tali! Non vecchie analfabete, non poveri contadini vissuti in
casolari isolati, ma solo persone che conoscevano la teologia e la liturgia
possono avere inventato quei riti sacrileghi, quegli sfregi osceni alla nostra
religione. Le deposizioni delle streghe e degli stregoni sono, a parer
mio, la pi parte almeno, i sogni perversi degli Inquisitori trasformati in
parole imposte a povere bocche sanguinanti.
Ma
mentre, incalzate dalle torture, le vittime accettarono, un poco alla
volta, di fare proprie quelle orrende fantasie, quando ad alcune giovani donne
fu concesso di dire quel che volevano (purch confessassero di essere streghe,
s'intende! ) esse inventarono racconti che a me sembrano la disperata volont
di sognare il trionfo della propria carne e di una libert senza limiti nei
luoghi in cui la carne veniva crocifissa e "libert" era una
parola priva di senso.
Ho
cercato di cucire fra loro alcuni di questi racconti perch essi si somigliano
in maniera stupefacente. Streghe davvero, dunque? Non so rispondere. Ma domani,
quando salirai verso il Tonale e traverserai quel passo, guardati intorno.
l che avrebbero dovuto essere sparse le ceneri di quelle povere donne, l
dove hanno sognato di essere state felici...
Spero
che tu non considererai il mio dno come qualcosa di diabolico... o come un mio
cedimento alla superstizione. Io te lo affido, invece, come un messaggio
di speranza: nessun carnefice pu uccidere la fantasia dei poveri, la loro
sete di libert.
Dio sia con te, sempre. Tuo fratello
Teresio.
12
Dai racconti di
padre Valerio de Boni, gi Inquisitore per la Pieve di Breno di
Valcamonica nell'anno 1518, e dai verbali degli interrogatori di alcune
streghe poi bruciate vive, carte che egli
amorosamente conserva nel convento di ***.
Ah, Madonna, piet di me! Piet di me, buoni signori! Che cosa volete
che vi dica ancora? Le notti sul Tonale? Quali notti? No, basta, per l'amor di
Dio. S: le notti sul Tonale.
Avvenne una sera. La mia mamma, che era una strega (Dio abbia
misericordia di lei!), mi disse che poteva procurarmi
ricchezze e piaceri se appena io lo avessi voluto. Io la guardai
credendo che fosse impazzita: abitavamo in un tugurio, mio padre era morto
quando io ero bambina, vivevamo di miglio e di un po' di latte e io non avevo
mai posseduto un paio di scarpe. Risi, dunque, alle sue parole. No, non sapevo
che fosse una strega, non m'ero mai accorta di qualcosa di strano. Mi obbedirai?
chiese lei, senza badare al mio riso. Risposi, meravigliata, che le avevo
sempre obbedito. Allora lei batt le mani e subito comparve davanti alla
porta della nostra casa un bellissimo cavallo nero...
In nome di Dio, che volete che dica? S, s: sputai su un crocefisso,
prima, il cavallo nero comparve subito dopo. Lasciami, lasciami, vigliacco! Va
bene: non era un cavallo, mia madre unse una scopa, con un suo unguento, vi
montammo sopra a
cavalcioni e quella si lev per l'aria. Volammo cos in alto che nessuno
poteva vederci.
Nel tempo che
ci vuole per recitare un'Ave Maria giungemmo su una bellissima pianura che era
quella del Tonale. Quante luci, quante luci! C'erano centinaia e centinaia
di persone: alcune suonavano e molte coppie ballavano il rigoletto,
quella danza che un grande girotondo. No, non vidi diavoli. Come dite?
S, alcune donne avevano piccole corna sulla fronte...
Erano
bellissime coppie, eleganti, allegre. E qua e l per la pianura c'erano mense
imbandite con ogni meraviglioso cibo e grandi caraffe di vino e calici
d'oro per bere. Seduti ai tavoli c'erano signori e signore ma anche contadini e
contadine vestite a festa, e mangiavano e bevevano lietamente. Ma quando
mia madre ed io arrivammo sul nostro cavallo nero - oh, s: sulla nostra scopa
- le musiche e le danze si interruppero e la gente che stava a tavola si
alz e tutti vennero verso di noi e mi battevano le mani e mi gridavano:
Benvenuta fra noi, come sei bella! .
Mi
scortarono verso un grande palazzo che scintillava di luci. Era di marmo,
ricoperto d'oro e di pietre preziose. Aveva colonne d'oro; e nella grande sala
in cui mi introdussero c'era un uomo gigantesco che sedeva su un trono
d'oro e la gente si rivolgeva a lui chiamandolo Grande Maestro. Intorno a lui
c'era una corte di baroni riccamente vestiti di seta; e dietro di loro
molti bellissimi giovani.
Mia
madre, tenendomi per mano, mi
condusse davanti al trono, si inchin e disse: Mio signore, ti ho portato una
discepola. Allora il Grande Maestro esclam: Brava, mia carissima, tu sei
davvero un'amica preziosa. Siediti qui, ai miei piedi, su questo tappeto d'oro;
ti godrai la festa accanto a me. Poi mi guard con i suoi immensi occhi, che,
anch'essi, rilucevano come oro. Mi disse: Figliola, tu sei la benvenuta!.
Nessuno mi aveva mai parlato con tanta dolcezza...
No, non vidi corna sulla sua fronte. Qualche altro
segno? Lasciatemi pensare... Ecco, aveva le mani palmate, ma lo si vedeva
appena. Mi chiese se io volevo diventare sua figlia ed io risposi di s. Allora
sorrise e fece un cenno e venne verso di me un bellissimo giovane...
No, no, perch? Perch? Signore, Madonna, cosa mi fate dire!
Sputai... e orinai... su un crocefisso... perch il Grande Maestro
mi aveva detto: Tu rinnegherai la fede di Cristo e mi avrai per tuo Signore, e
mi adorerai per tuo Dio...
E venne dunque quel bellissimo giovane e davanti a tutti ci amammo
e lui era dolce e tenero... No, non sulla croce, non sulla croce... Non... S,
sulla croce...
E giacemmo a lungo
insieme e fummo felici, maledetti!, felici, felici, felici...
Parte III
IL MAIZ
Porta il buon villanel da strania riva sovra
gli omeri suoi pianta novella e, col favor della pi bassa stella, fa che
risorga nel suo campo e viva...
(Francesco
Beccuti, Rime, 1509-53)
1
Come avviene ormai sempre pi spesso, l'alba mi trov ad occhi aperti. Mi levai pian
piano dal letto, attento a non destare Cecilia; e anche a non destare (ci che
assai pi difficile! ) il reuma che da
anni mi travaglia il ginocchio sinistro.
Il famiglio Battisti mi attendeva nella piazza, con il mulo. Montai in
sella con un po' di fatica e intanto, come ogni mattina, mi guardai intorno per
un attimo a contemplare con amore quello che per me il centro
dell'universo mondo.
La piazza grande, credo la pi grande della Valle; ed , a me pare,
bellissima. Il suo cerchio quasi perfetto sembra delimitato dai monti: la
Concarena, che fu l'Olimpo degli dei carmini; il Badile, con la sua tagliente
lama di roccia arrossata dall'irrompere del sole; l'Alta Guardia,
festosamente verde, onorata dal santuario di San Valentino, sorto sui resti
di un tempio romano consacrato ad Apollo; e poi la collina su cui sorge la rocca,
fondata — come affermano i dotti - da Auronco, luogotenente di Brenno.
Da Brenno,
il condottiero dei Galli che umiliarono Roma, deriverebbe il nome
di Breno; da Auronco, quello della mia famiglia.
Quasi per riaffermare queste mitiche origini e potenza,
mio padre costru proprio alle falde del colle la nostra casa; e consider poi
uno sfregio il fatto che il Municipio, nel 1566, sospinto dalla lieta
constatazione che ormai la pace della Valle sembrava destinata a durare per
sempre, acquistasse dalla Serenissima l'ormai vuoto castello e ne
vendesse i contrafforti alle famiglie brenesi perch li
trasformassero in orti e vigneti. Inutilmente l'Arciprete Rizzoni and
magnificandogli la serenit della pace agreste contrapposta agli orrori delle
guerre; inutilmente gli cit l'immortale Ovidio:
Jam seges est ubi Troia...
Ormai c' un
campo dove sorse Troia...
Poich la strada che mena al castello costeggia proprio la nostra
abitazione, ad ogni carro di terra che i cavalli - raspando coi ferri il
ciottolato e traendone lunghe scintille - trascinavano verso la rocca fra le grida
dei carrettieri, mio padre borbottava bestemmie; n lo placava il fatto che,
la sera, scendendo dai nuovi campi, non pochi infilassero, silenziosamente,
nelle inferriate della finestra della cucina fiori o primizie, come
omaggio a mia madre. Erano i tempi in cui mio padre si faceva dipingere il
famoso ritratto; e credo che molto del cipiglio che volle impresso sul suo volto
fosse dovuto a quell'amarezza: era un mercante, ma se fosse stato un
generale, non sarebbe mai divenuto un Cincinnato.
Mentre percorrevo pian piano la piazza, in quella mattina di giugno,
ripensavo a mio padre con tenerezza. Da quando ho raggiunto i sessant'anni, ogni
ricordo amaro di lui s' come dileguato: non conservo che la memoria della
lieta
irruenza in cui viveva, l'amore delicato che portava a mia madre (nonostante
qualche tradimento che gli pareva peccato veniale); e la pronta risposta
al mio appello, ai tempi della mia avventura; la generosit, infine, con la
quale
non mi chiese mai conto di quella che i miei fratelli maggiori mi
rimproverarono spesso come una pericolosa folla.
Ma forse neppure questo vero: anche questi ricordi
sono ormai sbiaditi. Pi facilmente, invece, da un po' di tempo, da quando,
cio, diventato quasi impossibile par-
lare di
lui con qualcuno (morti tutti i suoi coetanei; e morti tanti dei miei! ),
l'immagine di mio padre che si sovrappone a ogni altra del tutto
fantastica e straziante. Lo vedo con il volto terreo della sua ultima malattia,
una ruvida barba bianca; ed un mendicante che sale per una strada
polverosa.
Io sono
un bambino. Qualcuno mi ha posto fra le mani un grande pane e mi ha detto
di portarglielo. Io so che egli ha fame e che potrei, con una breve corsa,
raggiungerlo e consegnargli quel dono pietoso. E tuttavia non riesco a
muovermi: c' in me il timore che egli mi guardi con occhi imploranti, con un
sorriso troppo mite, che infrangerebbe per sempre la sua figura di padre; che
egli allunghi la mano in una carezza che mi farebbe piangere di compassione...
2
Quella mattina, tuttavia, andavo anch'io come un forestiero nella
mia terra: avrei contemplato un piccolo — o forse grande -
avvenimento senza esserne protagonista. Un giovane amico, il cavalier Pietro
Gaioncelli, di Sonico, mi aveva invitato ad assistere alla seminagione d'una
nuova pianta, destinata, secondo lui, a liberare la Valcamonica da quella
scarsit di granaglie che spinge tanti Carmini alla sofferenza dell'emigrazione.
Questa pianta - che il Gaioncelli chiama maiz ma che i suoi
contadini preferiscono chiamare, fantasiosamente, grano
turco - arriva dai confini della Terra. Emigranti, mercanti o soldati, molti
di noi valligiani hanno percorso
l'Europa e non pochi hanno combattuto a Cipro e a Candia, sotto le bandiere della Serenissima; ma il Gaioncelli andato ben pi lontano: nel Nuovo
Mondo, nel Mexico, ove egli ha
militato valorosamente fra gli Spagnoli
alla conquista di un immenso impero di straordinarie ricchezze. Che un conquistador, come
chiamano la gente che combatte
laggi, abbia portato con s, tornando, non solo oro per la sua famiglia ma anche una semente che potr saziare
la fame di molti, questo mi sembra ammirevole.
Ma pi mi lascia pensoso il fatto che il mondo sia diventato
improvvisamente cos vasto - e cos piccolo: che sterminate regioni delle quali
un secolo fa non si supponeva neppure l'esistenza possano oggi donarci
nutrimento materiale mentre lo zelo eroico di tanti sacerdoti porta
laggi il nutrimento spirituale del vero Dio. Il coraggio della nostra vecchia Europa
continua ad allargare gli orizzonti della civilt e a tessere nuovi inquietanti legami fra genti diversissime.
Il giovane ancora vivo in me osa sperare che, sollevata l'ultima cortina
della nostra ignoranza, troveremo, non il mitico paese dell'oro - l'El Dorado,
lo chiamano i conquistadores - ma la Terra Nuova profetata da san
Pietro, in cui regnano la giustizia e la pace; ma il vecchio che il giovane
ormai costretto a portare sulle spalle teme, invece, che al di l degli
oceani violati ci si possa imbattere in terribili orde di nuovi Tartari o
Mongoli che, divenuti consapevoli della nostra esistenza, muovano al
nostro attacco come il Khan Gianisbergo a Kaffa, tre secoli fa. Arrivai al
podere del Gaioncelli che il mattino era gi alto e l'aratura volgeva al
termine. Il mio amico - vigoroso e diritto nonostante il suo corpo sia segnato
da tante ferite - appariva emozionato. Aveva accanto il sacco delle sementi
e vi tuffava le mani: i semi sembravano chicchi di melograno, alla forma,
appena un poco pi grandi, ma di un bel colore giallo che ricorda quello del
sole.
Il cavaliere
mi salut rumorosamente. Era una solenne giornata per lui, disse, e, se non
s'ingannava, per la Valcamonica. Era sicuro che gente come noi avrebbe saputo
ottenere raccolti ben migliori di quei selvaggi indiani da cui aveva imparato
le virt del maiz. Mi spieg che le piante sarebbero cresciute sino
all'altezza di un metro e mezzo, e pi, e avrebbero prodotto pannocchie assai
pi grandi e robuste di quelle del miglio. Macinandone i grani, si sarebbe
ottenuta una farina gialla che, fatta bollire a lungo in acqua, avrebbe fornito
un ottimo alimento per i contadini, invece della solita povera zuppa di miglio
cui sono abituati.
Poi - il
sole batteva ormai sulla collina con tutta la forza del mezzod - Pietro
Gaioncelli propose: Mettiamoci un po' all'ombra di quei lecci. Lo seguii
volentieri. Egli continuava a parlare, eccitato; e, parlando, menava col suo
bastone grandi colpi a una siepe di arbusti. D'un tratto si interruppe con
un'espressione a mezzo tra la sorpresa e il disgusto: Guardate! . Con pochi
fendenti complet il varco che aveva aperto nel cespuglio; e mi indic una
grande lastra di arenaria scura che la vegetazione aveva tenuto nascosta.
Corrosa dal tempo ma ancora chiaramente leggibile, sulla pietra era incisa
un'immagine primitiva e inquietante: un personaggio dalle enormi spalle e
due grandi corna di cervo sul capo, un pugnale in una mano e un serpente
attorcigliato alla vita. Accanto, una figura d'uomo assai pi piccola, con le
mani levate in segno di preghiera.
Con
interesse mi chinai ad esaminare l'incisione, mormorando: Un'altra di
quelle pietre misteriose!. La Valcamonica fitta di queste testimonianze di
chiss quale popolo vissuto chiss quanti secoli or sono. Io stesso ne ho
viste non poche nei miei terreni e spesso sono stato colpito dal rozzo vigore
delle incisioni. Sono uomini a cavallo, con grandi elmi, capanne, cervi,
animali di cui non saprei dire il nome, complicati labirinti. Preti e frati
detestano queste incisioni, ritenendole opera del demonio, e i loro fedeli
spesso le esorcizzano scolpendovi sopra grandi croci.
Con mia
sorpresa, il Gaioncelli reag come loro. Ribatt accigliato: Pietre del
mistero, le chiamate? Io preferisco dire: pietre diaboliche. Fischi
imperioso a un contadino. Appena quegli fu accorso, gli domand: Hai una
mazza? . Il contadino guard lui, poi il lastrone d'ardesia. Si segn: S,
signor padrone. E allora, dagli un bel colpo.
La
pietra and rapidamente in frantumi. Ne fui turbato: perch distruggere le
memorie dei nostri progenitori? Ma il Gaioncelli parl con voce dura: Facciamo
cos anche nel Mexico. Ci che incomprensibile, mostruoso, favorisce
la superstizione, ostacola l'avvento della religione cattolica: dunque va
distrutto.
Tacqui:
non era stato necessario n ai martiri n a Costantino abbattere le pietre
dell'antica Roma perch il cristianesimo trionfasse.
3
A settembre
tornai col Gaioncelli nel suo fondo. Le piante erano alte e rigogliose. Il mio
amico era felice del suo successo: gi
molti contadini si recavano da lui per chiedergli un po' di sementi
e lui donava con generosit.
facile
prevedere che la coltura del maiz trionfer su quella del miglio; io stesso
l'adotter per i miei campi. E a questo modo, l'aspetto della natura intorno ai
nostri paesi, rimasto identico per secoli, sar mutato. Ci, probabilmente,
bene per tutti e ne sono contento; ma non posso fare a meno di
sentirmene scosso. Certamente la vecchiaia: ma mi sembra che tutto cambi
sempre pi rapidamente intorno a me. come se sull'antica meridiana che
sta sulla facciata della nostra casa la freccia d'ombra avesse preso a muoversi
vertiginosamente e, a ogni giro, cancellasse un po' del mio passato...
forse per
questo che ho sentito l'impulso di scrivere qualcosa della mia vita? Non
so rispondere a questa domanda. Del resto, nessuno me la pone. I miei figli
sono ormai adulti, vivono ormai una loro vita indipendente dalla mia ed ben
giusto che sia cos. Io cerco di vincere la tentazione ricorrente di
occuparmene troppo: niente pi miserevole che vedere un anziano
ciabattare ai margini d'una danza giovanile o un vecchio che si ostina ancora a
guidare un aratro. Tocca a loro, adesso. Io godo del loro frettoloso affetto
per me e per la loro madre. Mi basta. O forse no: ma come pretendere che chi va
incontro alla vita si fermi a domandare al padre che cosa ha sognato?
Ma anche
Cecilia tace. A tarda sera entra nella mia stanza, controlla che nel lume vi
sia ancora olio per qualche ora, che la coperta di pelliccia sia ben composta
intorno alle mie gambe. Mi sfiora la tempia con un bacio, mi dice: Io vado a
dormire, buona notte!. Non mi esorta a seguirla: e io non so se esserle
grato di tanta discrezione o un po' offeso.
Quando
eravamo giovani, ho scritto per lei qualche poesia e poi, dai miei viaggi,
lettere, tante. Delle lettere si sempre detta riconoscente; delle poesie mi
spesso sembrata imbarazzata. Una volta, poco dopo il nostro matrimonio,
mi ha domandato: Sono proprio per me? Sei sicuro che sia io la donna di cui
parli? . Io le ho risposto con un bacio perch lei, Cecilia, era, ,
bellissima; ma m' rimasto dentro il dubbio che, come accade a quelli che non
sono veri artisti, io non abbia saputo parlare veramente del mio amore ma solo
di un'idea dell'amore.
Adesso
anche un altro dubbio mi sfiora. Forse Cecilia mi vede scrivere senza curiosit
perch pensa che sia cominciato per me quel tempo della vita in cui si preferisce
vivere di ricordi piuttosto che di realt. Se cos, allora i suoi sentimenti
nei miei confronti sono di piet: perch, a quaran-tanove anni, la mia donna
ancora di quelle che, quando aprono la finestra la mattina, non si stupirebbero
di vedere un volo d'angeli sui tetti o la corte di Carlo Magno accampata
sulla piazza del paese. Voglio dire: lei guarda a ogni giorno come a una nuova
regione da esplorare con interesse e con allegra speranza: anche se non lo sa,
felice di vivere.
Ma
neppure a Cecilia, che mi conosce tanto intimamente da riuscire talvolta a
suggerirmi le risposte pi vere, saprei dire che cosa sto facendo mentre scrivo
queste carte.
Certamente,
non un'autobiografia. Dopo il mio ritorno dall'avventura veneziana, ho
vissuto molte altre esperienze; ho compiuto viaggi ben pi lunghi e non
meno emozionanti: sono stato a Firenze, a Roma e persino a Colonia.
Ho
contemplato marine sconfinate e varcato montagne in cui i sentieri lambivano
spesso immensi ghiacciai e, ad ogni passo, bisognava evitare l'orrore di
fenditure abissali; ho visto alberi che credevo inventati dalla fantasia dei
pittori e animali che credevo inventati dai tavolieri; e Turchi e Mori e
persino, in una processione papale, a Roma, Indiani del Nuovo Mondo, con i loro
copricapi di penne variopinte e occhi a mandorla il cui gelo mi ha ricordato i
crepacci. E ho sofferto l'atroce spettacolo di altre pesti, in altre citt, e
sentito i monatti gridare per le strade: Ah, chi ha morti da seppellire?; e
dalle case rispondere: Misericordia! ... Ma di ci non ho avvertito, n
avverto, il bisogno di scrivere.
Ho amato. Amo.
Mi bastato
incontrare Cecilia a una festa di nozze, per sentire che doveva essere la mia
sposa. Non solo la mia amante: ma una donna con cui crescere insieme, costruire
insieme. Aveva un volto in cui il candore si mescolava a una strana
consapevolezza del dolore; ma i suoi occhi, la sua bocca si aprivano
generosamente al sorriso. Ci parlammo a lungo, gi quella sera, mentre
tante coppie danzavano, sotto gli occhi vigili o correi delle madri, ma noi sembravamo
avere inventato un modo nuovo per muoverci insieme.
Lei,
dapprima, diffid. Aveva un'aria da cavallina bizzarra che fiuta strani
richiami nel vento e non tollera che alcuno le metta morso n briglia; questa
sua ansia di libert, e la difficolt di potere non gi placarla ma
parteciparne, io che sono di passo lento e
di solide tradizioni, fu un fascino in pi che scoprii in lei. E, nel
nostro conoscerci e poi amarci, ci fu anche la difficolt del nostro
passato. Io avevo alle spalle un'educazione dura, Fransisca, la peste, padre
Utilperzio, padre Valerio: e ancora, a un anno dal mio ritorno a Breno, mi
sembrava di camminare per una foresta selvaggia. Lei apparteneva a una famiglia
pi colta della mia, e nobile: in cui l'intelligenza, le molte letture e le
dotte accesissime discussioni fra il padre e i figli pi grandi sembravano
aver trasformato la casa forse in un arengo universitario ma anche in una
boscaglia in cui raramente il sole della tenerezza reciproca riusciva a
filtrare; e per coglierne i frutti bisognava accettare di ferirsi le dita fra i
rovi delle reciproche animosit.
Ma ad
attirarci l'uno verso l'altra non furono i nostri dolori e i nostri turbamenti.
Ci piacemmo subito, fisicamente; e a legarci sempre pi fu la speranza che
tutt'e due, imparando a camminare insieme, scoprimmo di possedere,
testardamente: che senza fuggire dalla realt (come io avevo cercato di
fare con Fransisca) avremmo potuto trasformare un angolo del nostro vecchio
mondo in un mondo nuovo: una casa aperta al sorriso, all'amicizia, all'amore e
all'amare.
Posso
dire che cos stato. Ancora adesso che tanti anni sono passati, e la
giovinezza se n' andata, non a passo di danza, come dicono certi poeti, ma con
il passo lento e faticato della fanciulla che porta l'orcio del vino ai falciatori
e torna con la gerla pesante di fieno, mi piace, la sera, sedermi con mia
moglie davanti al caminetto, un po' discosto da lei. Fingo, magari, di
leggere la mia Bibbia ma contemplo Cecilia che rammenda o ricama. Le sue lunghe
ciglia, le sue mani morbide sono per me parole d'amore vissuto e da vivere.
Ogni tanto lei alza verso di me i suoi grandi occhi, domanda un po' confusa:
Perch mi guardi cos?. Allora la mia tenerezza e il mio desiderio danzano
come le fiamme nel camino, e le sere d'inverno non sono meno belle di quelle
dell'estate in cui, dal letto, lasciate aperte le finestre, contempliamo la
luna che fa il suo arco sulle montagne...
Cecilia mi ha
dato tre figli. Quando sono usciti dal suo ventre e lei li ha accolti con un
sorriso delle labbra, bianche per lo sforzo,
e le donne che l'assistevano me li hanno
posti fra le braccia ancora rossi del sangue della loro madre, non mi sono curato di vedere se mi
somigliassero. Avessero o no i miei
lineamenti, essi mi arricchivano per il
fatto stesso che continuavano la mia storia, che mi obbligavano a vivere. Un uomo senza figli come una
polla d'acqua che non trova sfogo: se ha in s una limpidezza vigorosa, pu diventare un lago prezioso che d ad
altri refrigerio e nutrimento; ma pi facilmente ristagna, si riempie di alghe, di muffe. Un padre, invece, se davvero vuole
essere tale, non pu fermarsi: e per
questo tante vite di padre hanno il
colore sbiadito dei ruscelli che sono poco pi che rigagnoli ma fanno un lungo cammino e magari,
precipitando in abissi
improvvisi, muovono ruote di magli e pale di mulini. E, andando con i figli, in mezzo ai rovi delle loro incomprensibili scelte, fra i sassi aspri dei
loro rifiuti, un padre si sente
talvolta non inutile e quindi pi vivo; e vi sono momenti in cui si accorge che i suoi ragazzi tuffano le mani nelle sue acque e bevono e si rinfrancano; e
momenti in cui nelle sue acque si
specchiano i figli gi cresciuti, quasi per riconoscersi; e accanto a loro si affaccia, con un po' di trepidazione, un'altra persona che essi
introdurranno nella vita della famiglia.
Sono momenti tanto rari, ma stupendi. Allora, anche se i figli sono
duri e ruvidi come le piante del maiz venute dal Nuovo Mondo e tu ormai ti
pieghi come la spiga dell'antichissimo frumento, senti che le tue e le loro
radici si confondono nella stessa terra; e questo ti d un senso profondo di compimento.
Ma non neppure di questo che ho sentito, n sento, la necessit di scrivere;
e mi stato invece impossibile negare parole a quei ricordi lontani che,
improvvisamente, mentre il grano turco cresceva nel campo del
Gaioncelli, sono andati sgorgando dalla mia memoria. Non solo Fran-sisca e padre
Teresio, il dottor Sartirana e Prinoth, il rumoroso mercante, e il nano e il
quasi scomunicato don Fanelli e la Bestia Utilperzio, debitamente canonizzata da
Sua Santit, ma anche il ragazzo che sono stato: questa folla logora di personaggi
m' venuta intorno e mi sembrato che ciascuno di loro mi implorasse di
riconoscerlo, di rifarlo vivo per un attimo.
Adesso mi pare di avere compiuto un pietoso dovere. Ieri notte,
prima di levarmi dallo scrittoio, mi sono brevemente
appisolato. Non ho sognato; ma ho avuto come la sensazione che mia madre mi
ringraziasse di avere scritto di lei, ponendomi nelle mani, per un istante, una
delle sue melograne; o
uno dei suoi seni di nutrice.
Ho finito. Finito che cosa? Provo a dire: il racconto di un anno di vita. Ma, poi, perch
proprio quell'anno?
Forse, per ciascuno di noi, c' come una regione temporale
che la nostra vera patria. Un giorno, presto o tardi, scopriamo di
essere venuti di l, con fatica e con pena, perch a quel
tempo che, per la prima volta, fummo davvero consapevoli di vivere da uomini.
come se, in quell'anno, in quella regione, avessimo varcato un
passo, ecco: un passo di montagna. Lo avevamo risalito lasciandoci alle spalle
una terra nota ed ora ci spalancava davanti una terra inquietante,
diversa nell'aspetto e negli abitanti. Avremmo, forse, potuto tornare
indietro, rifugiarci nel rifiuto di crescere; o lasciare che altri ci trascinassero,
riluttanti, come bambini. Invece, abbiamo accettato di muovere
verso il futuro, da adulti: come quel giorno in cui, accanto a mio padre che
dormiva il suo sonno di vecchio, attraversai il Tonale; e mi guardai intorno,
con desiderio
e con paura, per scoprire qualche traccia del palazzo del
Grande Maestro; ma non vidi che prati stinti dal gelo, e vento forte e lontane
cime innevate. Laggi, verso Ponte di Legno, cominciava la Valle in cui ero
nato ma in cui tornavo come straniero, dopo un anno di esaltazioni e di dolore.
Avrei dovuto reimparare a viverci; e anche questo sarebbe stato faticoso e
penoso, come l'anno che avevo appena trascorso. Ma sentii che ero pronto a
farlo, che volevo andare avanti, con coraggio e con piet: sentii che la vita mi
interrogava offrendosi senza illusioni: ed io dissi di s, che la volevo, a qualunque costo.
Al lettore o alla lettrice che, per avventura,
desiderasse sapere quale sia la quota di
verit storica del mio romanzo, dir che padre Utilperzio e la sua
confraternita, Romualdo Zane, Teresio da Rovereto, Fransisca
Barbarano e Zeno Sartirana sono personaggi fantastici, anche se
qualche esimio studioso che mi onora della sua amicizia me ne attesta la
plausibilit. Valerio de Boni, invece, esistette veramente; veramente, con quattro
suoi confratelli, dissemin di roghi la
Valcamonica ad majorem Dei gloriam; ma che sia finito, nonagenario e pago delle proprie imprese, in un
convento alle falde del Tonale, ci pura invenzione.
Anche il cavalier Pietro Gaioncelli persona reale e fu
davvero colui che introdusse il maiz nell'agricoltura della
Valle; ma mi scuso con la sua venerabile ombra se gli ho affibbiato, senza il
conforto di prova veruna, la taccia di distruttore di alcune di
quelle incisioni rupestri che fanno della Terra camuna un'ineguagliabile
"riserva" antropologica e artistica.
Quanto
alle notizie sulla grande pestilenza del 1575, ho cercato di documentarmi seriamente cosicch ogni
particolare risponde a verit
storica; un lazzaretto galleggiante, fra l'altro, esistette a Venezia in
quei terribili mesi (ma il suo incendio inventato).
Infine, una nota sulla descrizione del sabba sul Tonale.
Spero che il lettore o la lettrice avr notato con la stessa emozione che ha colto me quando
ho letto le "confessioni" da cui l'ho tratta quasi letteralmente,
che la narrazione sembra la versione na'ive di un capitolo de II Maestro e
Margherita. Non so donde Bulgakov abbia derivato il suo racconto: ma
sia esso opera di pura poesia o rielaborazione di deposizioni di
"streghe" di terre lontanissime dalla Valcamonica, la
coincidenza mi sembra una toccante dimostrazione di quell'unit nel
dolore, nei sogni, nella ferocia dei potenti e nell'innocenza degli umili che raccoglie
l'Europa dalle Alpi agli Urali.