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8 marzo 2010

Così incontrai la mia spia venuta dal freddo
di John Lecarré

In un primo momento si pensa di sapere esattamente da dove vengano. Gente incontrata magari a un ricevimento, intrattenuta per qualche istante di conversazione e mai più rivista. Ma quei pochi minuti sono bastati: hai preso il via. O almeno credi. Oppure ti arriva all'orecchio qualche parola a una fermata dell'autob us o davanti al banco di gastronomia. Hai percepito qualcosa. Nella faccia, nel modo di camminare e di vestire, nella voce, in quel piccolo grumo di parole. Un'emanazione di dolore o di felicità, di rassegnazione o anche semplicemente di inadeguatezza. O magari qualcosa di paterno. O di materno. Un senso di orgoglio o di sconfitta. E quel qualcosa ti dice: "Eccomi, sono io quello che cercavi. Prendimi. Portami in giro a giocare con te. Dammi la forma che vuoi per i tuoi propositi, e io sarò il tuo sodale segreto". Ma forse alla fin fine tutto questo, in quel dato momento, sta nella mente dello scrittore uscito a caccia di una preda, affamato, occhi e orecchie spalancati, animato dall'unico desiderio di veder emergere la persona giusta. Come quando hai bisogno di qualcuno di cui innamorarti, e all'improvviso  -  sorpresa!  -  lo hai trovato. Questione di un attimo. Bingo!

Solo che non è mai bingo, come ogni scrittore sa bene. È l'inizio di un lungo viaggio nell'ignoto, e l'unico sodale segreto che ti viene dato è una piccola parte di te, percepita solo a metà e infilata in un guscio altrui per lavorarci sopra a lungo, cincischiarla con insistenza, con puntiglio. Finché alla fine, se hai fortuna, prendi il volo; e allora il personaggio diventa qualcosa come una remota ma credibile parte di te. Certo non quello che vedi nello specchio, ma qualcosa di intimo, profondamente sepolto da qualche parte, e magari neanche lo sapevi prima che avesse annunciato la sua presenza. Ma tutte le sue necessità, le sue aspirazioni, le sue debolezze sono le tue, per quanto diverso possa essere per nascita, origine, età, classe o sesso.

* * *

Se la memoria è una puttana, quella di un vecchio romanziere è una cocotte di lusso. Di fatto però, nel caso de La spia che venne dal freddo, scritto mezzo secolo fa, sono stato abbastanza coerente su chi fosse il mio sodale segreto, quello che mi ha fatto saltare il fosso. Ero seduto al bar nella hall delle partenze all'aeroporto di Londra; i voli erano in ritardo. A un certo punto apparve accanto a me un inglese sulla quarantina, viso asciutto da viaggiatore incallito, che ordinò un doppio scotch liscio senza ghiaccio. Impermeabile marroncino imbrattato, scarpe consunte, faccia abbronzata e sbattuta dall'aria esausta, scuri occhi celtici. Classe da ufficiale, come usavamo dire a quei tempi, e schiena da soldato, malgrado le spalle curve. Ma solo nel momento in cui pagò il suo scotch seppi di averlo trovato. Affondò la mano nella tasca dell'impermeabile e gettò sul banco una manciata di monete delle più diverse valute europee - franchi francesi, lire, marchi tedeschi e così via, sicuramente troppe  -  borbottando al barista: "Si paghi!" con tono quasi di sfida. Quello stava per dargli una rispostaccia, ma poi cambiò idea  -  saggiamente, a mio parere - e incominciò a scegliere con calma le monete fino a raggranellare l'importo che gli serviva. Nel frattempo il mio sodale, che in pochi attimi aveva finito il suo scotch, si eclissò senza una parola, lasciando sul banco le monete residue. Per quanto mi era dato sapere, avrebbe potuto essere un commesso viaggiatore stanco e in cattive acque. Ma per me era Alec Leamas, agente bruciato dell'Intelligence britannica, che poco prima aveva visto ammazzare l'ultima delle sue spie nella Germania Est davanti al Muro di Berlino appena costruito.

Ma perché mai ha rappresentato per me, in quel preciso momento, quel particolare personaggio? Perché per alcuni secondi quello ero io. Avevo visto sorgere il Muro di Berlino, ero in piena crisi coniugale e incominciavo a sentirmi deluso del mio ruolo tutt'altro che drammatico nel gigantesco retrobottega della guerra fredda. Ero alla ricerca di un sodale segreto che mi aiutasse a dire qualcosa del tipo: versione adulta di me stesso in un momento fatidico, a un punto emotivamente cruciale.

I nostri genitori, insegnanti e amici d'infanzia ovviamente non sono i sodali segreti che più tardi scegliamo, apparentemente a caso, anche se poi sono proprio loro a influenzare le nostre scelte più di quanto pensiamo. Sono lo strumentario di base che ci viene consegnato il giorno in cui montiamo i nostri baracchini da romanzieri. Eppure sono convinto che se ho impiegato ben diciassette anni a produrre il personaggio letterario di Dima, lo devo alla buonanima di mio padre. Avevo incontrato Dima in un night di Mosca nel 1993, con l'aiuto di alcuni intermediari del Kgb; ma soltanto ora questo boss, a suo tempo uno dei grossi calibri della mafia russa, ha trovato posto al centro del romanzo che ho finito di scrivere qualche settimana fa.

Mi spiego meglio: mio padre, personaggio imperscrutabile, esagerato, adorante, era un truffatore che imbrogliava anche se stesso, e aveva subito pene detentive severe, in Gran Bretagna e altrove. Ho aspettato metà della mia vita di scrittore prima di tracciare il suo ritratto in Una spia perfetta, ma non sono mai riuscito a esorcizzarlo: come avrei potuto? Ora, volgendo lo sguardo indietro, ho la certezza che quella notte a Mosca, quando attraversai la pista da ballo per mettermi in ginocchio davanti a Dima con la più seria intenzione di scandagliare il fondo della sua anima criminale, in realtà al tempo stesso tentavo di investigare l'anima di Ronnie, mio padre.

Come mai in ginocchio? Ero accompagnato dal mio interprete e da una guardia del corpo, un certo Pusya, campione di lotta nazionale dell'Abkhazia. In quei giorni la Russia era il selvaggio Est. Di fatto lo è tuttora, ma nei ruggenti anni Novanta si notava di più. Il night era sorvegliato da un plotone di forze speciali dell'Afganistan, con tanto di bombe a mano infilate nei cinturoni. Le hostess erano ragazze di campagna traballanti sugli altissimi tacchi che non erano abituate a portare. Dima fece la sua apparizione alle due di notte, circondato da uomini dai capelli cortissimi, tutti vestiti di nero, e da un paio di belle donne coperte di diamanti. Era calvo e portava tatuaggi sulla prima falange di ognuno dei suoi enormi pollici. Provate a fare un misto di Kojak e dell'uomo Michelin, e avrete un'idea di Dima.

Il night era disposto come un teatrino, con le poltrone allineate di fronte alla pista da ballo. Uno del seguito si avvicinò per dirmi che Mister Dima avrebbe gradito parlare con noi. Ma parlare come? Si poneva un problema logistico, dato che il boss occupava una poltrona della prima fila, con gli uomini del suo seguito seduti ai due lati; e per di più la musica era assordante. Il mio interprete trovò la soluzione: mettersi in ginocchio. Fu così che ci inginocchiammo come due comunicandi davanti all'altare di Dima.

Lo pregai arditamente di togliersi i Ray ban, cosa che fece, con mia sorpresa. Poi gli chiesi quale fosse la sua consistenza patrimoniale al netto  -  una domanda che mio padre avrebbe eluso, dato che la risposta sarebbe stata invariabilmente zero. Ci attestammo su una cifra di 50 milioni di dollari e rotti. Quando gli domandai se pagava le tasse si mise a ridere e disse che lo Stato era merda. Aveva figli  -  come me, ad esempio? Sì. E nipotini, come i miei, ad esempio? Sì. A questo punto tirai fuori la mia golden bullet, la domanda che avevo tenuto in serbo fin dall'inizio di quella conversazione urlata per coprire il fragore della band: "Ovviamente  -  gli dissi  -  per lei non è molto difficile far soldi in una Russia in mano al crimine". Lui assentì: "Difatti, non è molto difficile".

Sempre in ginocchio, gli impartii un predicozzo. Anche i grandi feudatari dell'America moderna, dissi, i vari Rockefeller, Carnegie o J. P. Morgan erano dediti alla rapina. Ma invecchiando e guardando ai loro figli e nipoti, e quindi anche alla società che avevano depredato, avevano incominciato a sentire il bisogno di rimettere qualcosa nel piatto, in favore della posterità; e si erano messi a costruire università e ospedali, scuole e chiese e ospizi per i poveri. "Non crede, Dima, che un giorno anche lei deciderà di costruire qualche ospedale?" dissi, ricordando forse tutte le volte che avrei voluto chiedere a mio padre se non avesse mai pensato di rimettersi sulla retta via.

Dima mi rispose alzando la voce, con un accento che al mio orecchio speranzoso sembrava lirico. Parlò senza una sola pausa. Il mio interprete non si azzardò a interromperlo, limitandosi ad assentire in attesa che dicesse tutto quanto aveva da dire; e quando alla fine si rivolse nuovamente a me, notai sul suo viso un leggero pallore, un'aria quasi di reverenza. "Mister David - mi confessò in un sussurro  -  sono spiacente, ma Mister Dima ha detto vaffanculo".

Anche se aveva un suo lato ruvido, mio padre buonanima non avrebbe mai detto una cosa del genere. Si sarebbe messo una mano sul cuore, alla Tony Blair, spiegando con la sua voce più melodiosa, che sembrava scendere direttamente da un pulpito, come l'unico scopo della sua vita, figliolo, fosse quello di costruire ospedali per i poverelli figli di Dio. Poi avrebbe sospirato abbassando lo sguardo e scuotendo la testa, come a dire che il mondo non gli avrebbe mai reso giustizia  -  ma pazienza. Dopo di che avrebbe ordinato una bottiglia di champagne, chiedendomi se per caso mi avanzassero un po' di royalty da investire, dato che era venuto a sapere di un simpatico ospedaletto, in vendita a un prezzo stracciato. Forse per questo mi ci son voluti diciassette anni per scavalcare l'ombra di Ronnie e trovare un sentiero verso il cuore di Dima.

In un primo momento si pensa di sapere esattamente da dove vengano. Gente incontrata magari a un ricevimento, intrattenuta per qualche istante di conversazione e mai più rivista. Ma quei pochi minuti sono bastati: hai preso il via. O almeno credi. Oppure ti arriva all'orecchio qualche parola a una fermata dell'autobus o davanti al banco di gastronomia. Hai percepito qualcosa. Nella faccia, nel modo di camminare e di vestire, nella voce, in quel piccolo grumo di parole. Un'emanazione di dolore o di felicità, di rassegnazione o anche semplicemente di inadeguatezza. O magari qualcosa di paterno. O di materno. Un senso di orgoglio o di sconfitta. E quel qualcosa ti dice: "Eccomi, sono io quello che cercavi. Prendimi. Portami in giro a giocare con te. Dammi la forma che vuoi per i tuoi propositi, e io sarò il tuo sodale segreto". Ma forse alla fin fine tutto questo, in quel dato momento, sta nella mente dello scrittore uscito a caccia di una preda, affamato, occhi e orecchie spalancati, animato dall'unico desiderio di veder emergere la persona giusta. Come quando hai bisogno di qualcuno di cui innamorarti, e all'improvviso  -  sorpresa!  -  lo hai trovato. Questione di un attimo. Bingo!

Solo che non è mai bingo, come ogni scrittore sa bene. È l'inizio di un lungo viaggio nell'ignoto, e l'unico sodale segreto che ti viene dato è una piccola parte di te, percepita solo a metà e infilata in un guscio altrui per lavorarci sopra a lungo, cincischiarla con insistenza, con puntiglio. Finché alla fine, se hai fortuna, prendi il volo; e allora il personaggio diventa qualcosa come una remota ma credibile parte di te. Certo non quello che vedi nello specchio, ma qualcosa di intimo, profondamente sepolto da qualche parte, e magari neanche lo sapevi prima che avesse annunciato la sua presenza. Ma tutte le sue necessità, le sue aspirazioni, le sue debolezze sono le tue, per quanto diverso possa essere per nascita, origine, età, classe o sesso.

* * *

Se la memoria è una puttana, quella di un vecchio romanziere è una cocotte di lusso. Di fatto però, nel caso de La spia che venne dal freddo, scritto mezzo secolo fa, sono stato abbastanza coerente su chi fosse il mio sodale segreto, quello che mi ha fatto saltare il fosso. Ero seduto al bar nella hall delle partenze all'aeroporto di Londra; i voli erano in ritardo. A un certo punto apparve accanto a me un inglese sulla quarantina, viso asciutto da viaggiatore incallito, che ordinò un doppio scotch liscio senza ghiaccio. Impermeabile marroncino imbrattato, scarpe consunte, faccia abbronzata e sbattuta dall'aria esausta, scuri occhi celtici. Classe da ufficiale, come usavamo dire a quei tempi, e schiena da soldato, malgrado le spalle curve. Ma solo nel momento in cui pagò il suo scotch seppi di averlo trovato. Affondò la mano nella tasca dell'impermeabile e gettò sul banco una manciata di monete delle più diverse valute europee - franchi francesi, lire, marchi tedeschi e così via, sicuramente troppe  -  borbottando al barista: "Si paghi!" con tono quasi di sfida. Quello stava per dargli una rispostaccia, ma poi cambiò idea  -  saggiamente, a mio parere - e incominciò a scegliere con calma le monete fino a raggranellare l'importo che gli serviva. Nel frattempo il mio sodale, che in pochi attimi aveva finito il suo scotch, si eclissò senza una parola, lasciando sul banco le monete residue. Per quanto mi era dato sapere, avrebbe potuto essere un commesso viaggiatore stanco e in cattive acque. Ma per me era Alec Leamas, agente bruciato dell'Intelligence britannica, che poco prima aveva visto ammazzare l'ultima delle sue spie nella Germania Est davanti al Muro di Berlino appena costruito.

Ma perché mai ha rappresentato per me, in quel preciso momento, quel particolare personaggio? Perché per alcuni secondi quello ero io. Avevo visto sorgere il Muro di Berlino, ero in piena crisi coniugale e incominciavo a sentirmi deluso del mio ruolo tutt'altro che drammatico nel gigantesco retrobottega della guerra fredda. Ero alla ricerca di un sodale segreto che mi aiutasse a dire qualcosa del tipo: versione adulta di me stesso in un momento fatidico, a un punto emotivamente cruciale.

I nostri genitori, insegnanti e amici d'infanzia ovviamente non sono i sodali segreti che più tardi scegliamo, apparentemente a caso, anche se poi sono proprio loro a influenzare le nostre scelte più di quanto pensiamo. Sono lo strumentario di base che ci viene consegnato il giorno in cui montiamo i nostri baracchini da romanzieri. Eppure sono convinto che se ho impiegato ben diciassette anni a produrre il personaggio letterario di Dima, lo devo alla buonanima di mio padre. Avevo incontrato Dima in un night di Mosca nel 1993, con l'aiuto di alcuni intermediari del Kgb; ma soltanto ora questo boss, a suo tempo uno dei grossi calibri della mafia russa, ha trovato posto al centro del romanzo che ho finito di scrivere qualche settimana fa.

Mi spiego meglio: mio padre, personaggio imperscrutabile, esagerato, adorante, era un truffatore che imbrogliava anche se stesso, e aveva subito pene detentive severe, in Gran Bretagna e altrove. Ho aspettato metà della mia vita di scrittore prima di tracciare il suo ritratto in Una spia perfetta, ma non sono mai riuscito a esorcizzarlo: come avrei potuto? Ora, volgendo lo sguardo indietro, ho la certezza che quella notte a Mosca, quando attraversai la pista da ballo per mettermi in ginocchio davanti a Dima con la più seria intenzione di scandagliare il fondo della sua anima criminale, in realtà al tempo stesso tentavo di investigare l'anima di Ronnie, mio padre.

Come mai in ginocchio? Ero accompagnato dal mio interprete e da una guardia del corpo, un certo Pusya, campione di lotta nazionale dell'Abkhazia. In quei giorni la Russia era il selvaggio Est. Di fatto lo è tuttora, ma nei ruggenti anni Novanta si notava di più. Il night era sorvegliato da un plotone di forze speciali dell'Afganistan, con tanto di bombe a mano infilate nei cinturoni. Le hostess erano ragazze di campagna traballanti sugli altissimi tacchi che non erano abituate a portare. Dima fece la sua apparizione alle due di notte, circondato da uomini dai capelli cortissimi, tutti vestiti di nero, e da un paio di belle donne coperte di diamanti. Era calvo e portava tatuaggi sulla prima falange di ognuno dei suoi enormi pollici. Provate a fare un misto di Kojak e dell'uomo Michelin, e avrete un'idea di Dima.

Il night era disposto come un teatrino, con le poltrone allineate di fronte alla pista da ballo. Uno del seguito si avvicinò per dirmi che Mister Dima avrebbe gradito parlare con noi. Ma parlare come? Si poneva un problema logistico, dato che il boss occupava una poltrona della prima fila, con gli uomini del suo seguito seduti ai due lati; e per di più la musica era assordante. Il mio interprete trovò la soluzione: mettersi in ginocchio. Fu così che ci inginocchiammo come due comunicandi davanti all'altare di Dima.

Lo pregai arditamente di togliersi i Ray ban, cosa che fece, con mia sorpresa. Poi gli chiesi quale fosse la sua consistenza patrimoniale al netto  -  una domanda che mio padre avrebbe eluso, dato che la risposta sarebbe stata invariabilmente zero. Ci attestammo su una cifra di 50 milioni di dollari e rotti. Quando gli domandai se pagava le tasse si mise a ridere e disse che lo Stato era merda. Aveva figli  -  come me, ad esempio? Sì. E nipotini, come i miei, ad esempio? Sì. A questo punto tirai fuori la mia golden bullet, la domanda che avevo tenuto in serbo fin dall'inizio di quella conversazione urlata per coprire il fragore della band: "Ovviamente  -  gli dissi  -  per lei non è molto difficile far soldi in una Russia in mano al crimine". Lui assentì: "Difatti, non è molto difficile".

Sempre in ginocchio, gli impartii un predicozzo. Anche i grandi feudatari dell'America moderna, dissi, i vari Rockefeller, Carnegie o J. P. Morgan erano dediti alla rapina. Ma invecchiando e guardando ai loro figli e nipoti, e quindi anche alla società che avevano depredato, avevano incominciato a sentire il bisogno di rimettere qualcosa nel piatto, in favore della posterità; e si erano messi a costruire università e ospedali, scuole e chiese e ospizi per i poveri. "Non crede, Dima, che un giorno anche lei deciderà di costruire qualche ospedale?" dissi, ricordando forse tutte le volte che avrei voluto chiedere a mio padre se non avesse mai pensato di rimettersi sulla retta via.

Dima mi rispose alzando la voce, con un accento che al mio orecchio speranzoso sembrava lirico. Parlò senza una sola pausa. Il mio interprete non si azzardò a interromperlo, limitandosi ad assentire in attesa che dicesse tutto quanto aveva da dire; e quando alla fine si rivolse nuovamente a me, notai sul suo viso un leggero pallore, un'aria quasi di reverenza. "Mister David - mi confessò in un sussurro  -  sono spiacente, ma Mister Dima ha detto vaffanculo".

Anche se aveva un suo lato ruvido, mio padre buonanima non avrebbe mai detto una cosa del genere. Si sarebbe messo una mano sul cuore, alla Tony Blair, spiegando con la sua voce più melodiosa, che sembrava scendere direttamente da un pulpito, come l'unico scopo della sua vita, figliolo, fosse quello di costruire ospedali per i poverelli figli di Dio. Poi avrebbe sospirato abbassando lo sguardo e scuotendo la testa, come a dire che il mondo non gli avrebbe mai reso giustizia  -  ma pazienza. Dopo di che avrebbe ordinato una bottiglia di champagne, chiedendomi se per caso mi avanzassero un po' di royalty da investire, dato che era venuto a sapere di un simpatico ospedaletto, in vendita a un prezzo stracciato. Forse per questo mi ci son voluti diciassette anni per scavalcare l'ombra di Ronnie e trovare un sentiero verso il cuore di Dima.

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