http://www.ilfattoquotidiano.it/ Bob Dylan, 70 anni. E non per caso Settant’anni. Un traguardo. Soprattutto se ti chiami Bob Dylan e hai scritto Like a Rolling Stone, All Along The Watchtower, Blowin’ in The Wind, Forever Young, Hurricane. Settant’anni vuol dire almeno tre generazioni. Il vento della sua musica ha soffiato sul vento di continenti, è riuscito ad accomunare milioni di persone con quella forza dirompente che solo la musica e la letteratura riescono a emanare. Di celebrazioni, in questi giorni, ce ne sono state anche troppe. In fondo è solo un traguardo. Mi sono andato a leggere i giornali in giro per il mondo, la solita nenia. Se volete sapere qualcosa di Bob Dylan fate come feci io a quattordici anni, quando mi comprai la biografia scritta da Anthony Scaduto, lì dentro capirete chi è davvero quel poeta che a vent’anni partì dal Minnesota, Duluth, la provincia gelida di un’America che i fratelli Cohen hanno raccontato in maniera magistrale in Fargo, e arrivò in un ospedale di New York dove il suo idolo, Woody Guthrie, stava per tirare le cuoia e lui fece in tempo a fargli ascoltare solo quei pochi pezzi che aveva già scritto su pezzi di carta. A New York Robert Allen Zimmerman sarebbe rimasto, e al Greenwich Village quello degli anni Sessanta, non il quartiere di oggi sarebbe diventato Bob Dylan. Mi ero promesso, io che sono dylaniano da quando ero fanciullo, che non avrei mai scritto di Dylan, soprattutto in ricorrenze come queste. Dylan l’ho ascoltato a New York, Londra, Modena e Livorno. Mi è bastato, anche se l’abilità con la quale dal vivo stravolge le canzoni non piace quasi mai. Evito ogni tipo di ipocrisia, e confesso candidamente che forse solo al concerto di New York ho rivissuto la magia trovata nelle pagine del libro di Scaduto: le altre volte l’attesa e l’emozione hanno sempre giocato a mio sfavore. Non ne avrei scritto, dicevo. Ma è stato un professore di giornalismo della Columbia University a farmi aprire gli occhi. A spiegarmi perché 70 anni, nella musica, sono un traguardo importante. La lezione di David Hajdu è molto semplice e basata sui numeri, non sulle parole. 70 anni compie Bob Dylan, 70 ne avrebbe compiuti John Lennon lo scorso ottobre. Joan Baez ha festeggiato a gennaio, Paul Simon raggiungerà il traguardo entro la fine dell’anno. Il prossimo anno, il club dei settantenni pop leggendario crescerà fino a includere Paul McCartney, Aretha Franklin, Carole King, Brian Wilson e Lou Reed. Jimi Hendrix e Jerry Garcia sarebbero stati anche loro settantenni nel 2012. Coincidenza? Niente affatto, secondo Hajdu. Tutti questi signori hanno compiuto 14 anni intorno al 1955 e il 1956, quando il rock ‘n’ roll per la prima volta eruttò come un vulcano impazzito. Quattordici è un età formativa per quello che sarà il pop. A 14 anni si affrontano le tirannie del sesso e l’età adulta, quella che non ti lascia più le briciole sul percorso per trovare il ritorno. A 14 anni lotti per capire che tipo di adulto ti piacerebbe essere. “Quattordici è una sorta di età magica per lo sviluppo di gusti musicali”, spiega Daniel J. Levitin, professore di psicologia e direttore del Laboratorio di Musica Perception, Cognition and Expertise della McGill University. ”Sono gli ormoni della crescita puberale i maggiori responsabili. E a 14 anni i gusti musicali ti creano un distintivo di identità”. Il rock ‘n roll e quell’eruzione che ricorda il professor Hajdu hanno un nome e gnognome: Elvis Presley, il re che l’America non ha mai avuto. Lo disse Bob Dylan stesso a Anthony Scaduto: “La prima volta che sentii Elvis fu come fuggire dalla prigione”. Lo stesso Sir Paul McCartney ha sempre avuto una venerazione per Elvis. Ma non è questo il punto, non è solo il rock ‘n roll. Sono i 14 anni. Non sappiamo se Robert Zimmerman sarebbe mai diventato Bob Dylan se avesse compiuto i suoi 14 anni un decennio prima. Non lo potremo mai sapere. Sappiamo però che quando i Beatles sbarcarono negli Stati Uniti, all’Ed Sullivan Show, avevano 14 anni di età Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Gene Simmons e Billy Joel. E forse anche per questo, musicalmente parlando e in modi termini diversi tra loro, sono diventati quello che sono oggi. Forse per sapere chi sarà il genio dei prossimi anni faremmo bene ad andare a spiare negli armadietti dei ragazzi che frequentano la terza media. Probabilmente faremmo bene a spiare i 140 caratteri che i social network impongono come limite per capire i sonetti che segneranno a modo loro un’epoca. E’ probabile che coloro che saranno celebrati nel 2067 hanno 14 anni oggi, nel 2011. |
http://www.unita.it
I 70 anni di mister paradosso
Party globale per Bob Dylan C’era il tempo in cui Dylan nascondeva il volto sotto una specie di cappuccio. Sembrava quasi un religioso, alle prese con un oscuro rito. Ogni volta era la stessa storia: la folla lo acclamava, e lui ringhiava «It ain’t me, babe»... no, non sono io, quello che voi acclamate come un eroe, come un santo, come una leggenda. Poi ha imparato a giocarci, col proprio mito, dispensando quel suo sorriso beffardo sulle strette labbra, vestendosi come un giocatore d’azzardo che ogni volta canta in maniera diversa quel blues che solo Blind Willie McTell cantava meglio di lui (così almeno dice la mitologia... e con la mitologia non si scherza). Proprio oggi Bob Dylan, nato Robert Allen Zimmerman, compie 70 anni. E allora?, verrebbe da dire. Oramai è da molto tempo che vediamo il rock scivolare nella terza età, almeno da quel giorno in cui a Bill Wyman degli Stones dettero il tesserino per andare gratis sugli autobus, una decina di anni fa. Eppure sembrano tutti impazziti: in tutto il globo si organizzano i «Bob Fest», dei festival musicali a tema in cui si pesca solo ed unicamente dall’immenso universo delle canzoni dylaniane, ci sono simposi e convegni (uno, per esempio, a Vienna, in questi giorni), si pubblicano studi su come le canzoni del signor Tamburino abbiano influenzato il linguaggio giuridico americano ed escono libri su ogni anfratto di quella galassia di significati che ci ostiniamo a chiamare Dylan... e intanto fremono, come ogni anno, gli accademici del Nobel, a cui da vari lustri prudono le mani dalla voglia di assegnargli il sommo riconoscimento per la letteratura. E così, mentre i grandi del rock, da Bono a David Crosby a Keith Richards, lo omaggiano sulla rivista "Rolling Stone" (la quale stila, per l’ennesima volta, la top ten delle sue dieci canzoni più belle), il popolo del web si scatena a modo suo: un’infinità di illustri sconosciuti che cantano i suoi pezzi, da "Blowin’ in the Wind" a "Things Have Changed", chi con l’ukulele, chi con le lacrime agli occhi, chi nel buio della propria stanzetta. Andate su You Tube, è istruttivo. La verità è che Dylan è un vortice. È possibile festeggiare un vortice? Domanda più che mai lecita, perché festeggiare Dylan vuol dire anche chiedersi cosa e chi esattamente s’intenda festeggiare. Il ragazzo che nei primi anni sessanta sconvolse la musica popolare americana, regalando una nuova coscienza e un mare di nuove parole ad una generazione che stava imparando ad alzare la testa? L’alfiere elettrico ebbro di poesia e di musica perfetta che trasformò il rock in arte? O magari quel tale che per sopravvivere alla tempesta perfetta finse (forse) di avere un incidente di motocicletta, pur di ri-lavare, di nascosto, i suoi panni nel grande fiume del folk americano? Colui che s’indigna per l’innocente Rubin «Hurricane» Carter sbattuto in prigione o colui che canta, trent’anni dopo, "beyond here lies nothin’" (oltre qui non c’è niente...)? L’uomo vestito da cowboy ubriaco che va ad inchinarsi davanti a Papa Wojtyla o il «giuda» colpevole di aver tradito la purezza del folk? Il vecchio arnese che raglia tirando ogni verso su di un’ottava negli infiniti concerti del suo «Never Ending Tour», oppure il compassato countrysinger che offre una sinuosa "The Times They Are A-Changin’" di fronte al commosso presidente Obama (voi credete che l’abbia scelta a caso, con quei versi «venite senatori, membri del congresso ... non rimanete sulla porta, non bloccate l'atrio... c’è una battaglia fuori, e sta infuriando...»?). L’ebreo errante, il cristiano, il biblista, l’eretico? Il musicista, il poeta, lo scrittore? La rockstar, l’attore, il pittore? Quel che è certo è che lui stesso, il vecchio Bob, non si farà vedere a nessuno di questi festeggiamenti. Lui sa che fare la parte della leggenda universale non è un bel mestiere. Perché al primo incrocio c’è sempre qualcuno pronto a rinfacciarglielo. Come Maureen Dowd, celeberrima e temuta «columnist» del "New York Times", che ha scatenato una bagarre infinita sviluppatasi in migliaia di furenti articolesse ai quattro angoli del globo terracqueo accusando il nostro di essersi fatto censurare dalle autorità di Pechino in occasione dei suoi recenti concerti in Cina. «Non una parola sui diritti civili!», ha tuonato la cattivissima Maureen, qui nelle vesti di coscienza morale dei progressisti americani. A parte che è curioso pretendere oggi dal multiforme Dylan una coerenza che non si chiede alle aziende che investono nel paese del grande dragone, e men che mai agli sportivi che vanno a gareggiare alle Olimpiadi, la scaletta dei concerti (verificare su «boblinks», please) sono le stesse di un concerto nel New Jersey come a Copenhagen. E, a leggere con attenzione i testi, altro che censura... ma quelli, se non gli canti "Masters of War" magari con il pugno alzato subito ti bollano come un venduto. Contravvenendo alla sua norma, questa volta Bob ha preso carta e penna per rispondere: la scaletta era la sua, al diavolo i moralizzatori dell’ultim’ora. Ma la parte più interessante della «lettera ai fan» pubblicata sul suo sito ufficiale è la fine: «Tutti sanno che ci sono attualmente un fantastiliardo di libri su di me oppure in procinto di uscire nell’immediato futuro. Incoraggio chiunque mi abbia mai incontrato, ascoltato e magari anche solo visto, di entrare in azione e di scarabocchiare il proprio testo. Non puoi mai sapere, qualcuno ci potrà trovare il gran libro». Come dire: ognuno si costruisce la propria verità, ma rimarrà pur sempre un’illusione. Il resto è fandonia. Oggi, insomma, festeggiamo una leggenda recalcitrante. Un uomo che che abbatte e ricostruisce il proprio mito ogni giorno, vieppiù controvoglia. Non è l’icona Dylan che oggi celebriamo, uno dei grandi monumenti del Novecento. Oggi molti citano quel verso di "My Back Pages" che dice "I was so much older than, I’m younger than that now" («ero tanto più vecchio allora, sono molto più giovane adesso»). Un paradosso, uno dei tanti firmati Dylan. Ecco cosa festeggiamo oggi: un grande, immenso, geniale paradosso. |
http://www.nytimes.com Forever Young? In Some Ways, Yes Today is Bob Dylan’s 70th birthday, an occasion that essayists, bloggers and magazine writers have been celebrating for weeks. Mr. Dylan surely deserves the attention, but he’s only one in a surprisingly large group of major pop-music artists born around the same time. John Lennon would have turned 70 last October; Joan Baez had her 70th birthday in January; Paul Simon and George Clinton will reach 70 before the end of this year. Next year, the club of legendary pop septuagenarians will grow to include Paul McCartney, Aretha Franklin, Carole King, Brian Wilson and Lou Reed. Jimi Hendrix and Jerry Garcia would have also been 70 in 2012. Perhaps this wave of 70th birthdays is mere coincidence. There are, after all, lots of notable people of all ages. But I suspect that the explanation for this striking cluster of musical talent lies in a critical fact of biography: all those artists turned 14 around 1955 and 1956, when rock ’n’ roll was first erupting. Those 14th birthdays were the truly historic ones. Fourteen is a formative age, especially for people growing up in social contexts framed by pop culture. You’re in the ninth grade, confronting the tyrannies of sex and adulthood, struggling to figure out what kind of adult you’d like to be, and you turn to the cultural products most important in your day as sources of cool the capital of young life. “Fourteen is a sort of magic age for the development of musical tastes,” says Daniel J. Levitin, a professor of psychology and the director of the Laboratory for Music Perception, Cognition and Expertise at McGill University. “Pubertal growth hormones make everything we’re experiencing, including music, seem very important. We’re just reaching a point in our cognitive development when we’re developing our own tastes. And musical tastes become a badge of identity.” Biography seems to bear this out. When Robert Zimmerman (the future Bob Dylan) turned 14 as a freshman at Hibbing High School in Minnesota, Elvis Presley was releasing his early records, including “Mystery Train,” and Mr. Dylan discovered a way to channel his gestating creativity and ambition. “When I first heard Elvis’s voice I just knew that I wasn’t going to work for anybody, and nobody was going to be my boss,” Mr. Dylan once said. “Hearing him for the first time was like busting out of jail.” Mr. McCartney, the son of a big-band musician, abandoned his first instrument, the trumpet, after hearing Presley. “It was Elvis who really got me hooked on beat music,” Mr. McCartney has been quoted as saying. “When I heard ‘Heartbreak Hotel’ ” which was released in 1956, when Mr. McCartney turned 14 “I thought, this is it.” The timeline of music history is dotted with such moments. A hundred years ago, the model for 20th-century music took form with Irving Berlin’s popular appropriation of the black music of the day, “Alexander’s Ragtime Band.” The song sold more than a million copies on the platform of its time, sheet music. The year was 1911, when three future innovators of vernacular, cross-racial music Sidney Bechet, Jimmie Rodgers and Fletcher Henderson all turned 14. In 1929, when the singer Rudy Vallee mastered and exploited the emerging electronic technologies of the microphone and the national radio broadcast to become a progenitor of an intimate, naturalistic style of singing derided by adults as “crooning,” both Billie Holiday and Frank Sinatra turned 14. When the Beatles appeared on “The Ed Sullivan Show” in 1964, the 14-year-olds (or soon to be) who were around to experience pop music’s new superstars included Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Gene Simmons and Billy Joel. I can’t help wondering what a 14-year-old with Mr. Dylan’s gifts and hungers would have done if he had been born three or four years earlier and had hit his teens when pop music was in its pre-rock lull, anesthetized by the over-sugared tunes of Teresa Brewer and Vic Damone. Back then, the drive-ins raged with cool pulp-movie delinquents, like Marlon Brando in “The Wild One.” Would Mr. Dylan, a movie nut in childhood, have gone into screen acting to channel his rebellious spirit? Every age makes its own kind of genius. For hints of what the cultural giants of the future will be doing in their own time, we’d be well served to look in the ninth-grade lockers of today. Perhaps one day we’ll witness the transmutation of social networking into an as-yet-unimaginable kind of art 140-character sonnets or mash-ups of media we haven’t heard or seen yet. Whatever we’ll be celebrating as the legacy of the 70-year-olds of 2067, it will surely belong to the 14-year-olds of 2011.
|
Associated Press Anti-war icon Bob Dylan jams in a Vietnam at peace HO CHI MINH CITY, Vietnam Bob Dylan, whose anti-war anthems made him the face of protest against a war that continues to haunt a generation of Americans, finally got his chance to see Vietnam at peace. The 69-year-old Dylan took to the stage in the former Saigon on Sunday, singing such favorites as "A Hard Rain's a-Gonna Fall" and "Highway 61 Revisited." Only about half of the 8,000 seats were sold to a mix of Vietnamese and foreigners who danced on the grass in the warm evening air as Dylan jammed on guitar, harmonica and the keyboard at RMIT University. With more than 60 percent of the country's 86 million people born after the war, many young people here are more familiar with pop stars like Justin Bieber. Still, Dylan's music during the tumultuous 1960s touched thousands of people in both nations. "Bob Dylan's music opened up a path where music was used as a weapon to oppose the war in Vietnam" and fight injustice and racism, said Tran Long An, 67, vice president of the Vietnam Composers' Association. "That was the big thing that he has done for music." An was a student in Saigon, now called Ho Chi Minh City, during the war and took to the streets with other Communist sympathizers calling for the killing to stop. He remains a big Dylan fan and has a large collection of the singer's records. For some who were fighting in Vietnam's jungles, Dylan's music was a source of hope. "We listened to anything that spoke of peace. We called him the peace poet," said Stan Karber, 60, of Fort Smith, Arkansas, who served in Vietnam from 1969 to 1971 and has lived in Ho Chi Minh City for the past 15 years. "I'll be dancing here in a minute." The fighting ended on April 30, 1975, when northern Communist forces seized the U.S.-backed capital of South Vietnam, reunifying the country. About 58,000 Americans were killed along with some 3 million Vietnamese. Sunday's concert coincided with the 10th anniversary of the death of anti-war Vietnamese folk singer Trinh Cong Son, known as the "Bob Dylan of Vietnam." The opening Vietnamese acts played a tribute to Son, who remains highly popular. Dylan is one of the top foreign artists to perform in Vietnam, where big-name concerts are still rare and the Communist government maintains strict controls over expression. Dylan's song list had to be preapproved by the government, but promoter Rod Quinton of Ho Chi Minh City-based Saigon Sound System said no restrictions were placed on the extensive set list submitted. Dylan was criticized last week following his first-ever shows in China for allowing the Communist government there to vet his song list. Two popular anti-war songs, "The Times They Are a'Changin'" and "Blowin' in the Wind," were not performed at the Beijing and Shanghai shows, but it was unclear if they were submitted for consideration. U.S.-based Human Rights Watch issued a statement saying, "Dylan should be ashamed of himself." "The young Dylan wouldn't have let a government tell him what to sing," said Brad Adams, executive director of the organization's Asia division. "He has a historic chance to communicate a message of freedom and hope, but instead he is allowing censors to choose his playlist." Dylan's U.S. publicist referred questions to the promoters in Vietnam, who declined to comment. Vietnam, while prospering as one of the fastest-growing economies in Asia, does not tolerate any challenge to its one-party rule. Rare protests are quickly quashed by security forces, and a spate of prominent pro-democracy activists have recently been arrested or given lengthy jail terms after calling for democracy. The government also routinely blocks access to websites considered a threat, including Facebook. But the country, once defined by grainy images of U.S. planes dropping bombs over pockmarked jungles, has moved far beyond what Vietnamese here call the American War. Since the mid-1980s, Vietnam has embraced capitalism, and today's Ho Chi Minh City is electric with a sea of motorbikes buzzing past shops selling everything from knockoff North Face backpacks to real Chanel bags. A single glass skyscraper defines the city skyline, but the flurry of construction in all directions are a sign more change is coming. "The chances of watching Bob Dylan live are not many, and he's no longer young," said Hoang Dao Cam, 42, who flew from the capital, Hanoi, for the show with five other hard-core fans. He said his father taught him English at age 6 by singing "Blowin' in the Wind" to him. "I just cannot miss this opportunity." |
top |