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Settembre alle porte Gli scrittori pensano di scegliere le loro storie dal mondo. Io mi sto convincendo che sia la vanità a farglielo credere. Succede esattamente il contrario. Sono le storie a scegliere gli scrittori. Sono le storie che si rivelano a noi. Le storie pubbliche e le storie private ci colonizzano, ci affidano incarichi, insistono per farsi narrare. Il romanzo o il saggio sono solo tecniche diverse per raccontare una storia. Per ragioni che non comprendo fino in fondo, nel mio caso la narrativa scaturisce senza sforzo. Il saggio, invece, nasce con fatica dal mondo dolente e spezzato in cui mi sveglio ogni mattina. Una buona parte di quello che scrivo, nella forma narrativa o saggistica, riguarda il rapporto fra potere e impotenza, e il conflitto infinito, circolare, che questi due elementi ingaggiano. John Berger, autore straordinario, ha scritto: «Mai più verrà raccontata una storia come se fosse l'unica». Non c'è mai un'unica storia. Ci sono solo modi di vedere. Perciò, quando racconto una storia, non la racconto come un ideologo che contrappone un'ideologia assoluta a un'altra, ma come un cantastorie che vuole condividere con gli altri il suo modo di intendere il mondo. Anche se può sembrare il contrario, quello che scrivo in realtà non parla dei paesi e della loro storia, ma del potere. Della paranoia e della spietatezza del potere. Della fisica del potere. Credo che dalla concentrazione di poteri vasti e senza vincoli nelle mani di uno stato o di un paese, di una multinazionale o di un'istituzione - o anche di un individuo, un coniuge, un amico o un fratello quale che sia la sua ideologia, derivino abusi, come quelli di cui vi dirò qui. Vivendo, come milioni di noi, sotto la minaccia dell'olocausto nucleare che i governi dell'India e del Pakistan continuano a promettere ai loro cittadini plagiati, e nel distretto globale della guerra al terrorismo (che il presidente Bush definisce piuttosto biblicamente «il compito che non ha fine»), penso molto al rapporto fra i cittadini e lo stato. In India, chi di noi è intervenuto sostenendo le proprie opinioni sulle bombe nucleari, sulle grandi dighe, sulla globalizzazione neoliberista e la crescente minaccia del fascismo indù - opinioni in contrasto con quelle del governo indiano - è stato bollato come «antipatriottico». Anche se quest'accusa non mi riempie di sdegno, non è una definizione esatta di quello che faccio o di quello che penso. Una persona antipatriottica è ostile al suo paese e quindi favorevole a un altro. Ma non è necessario essere antipatriottici per nutrire un profondo sospetto nei confronti di tutti i nazionalismi, per essere antinazionalisti. Il nazionalismo, a prescindere da come si è manifestato, è stato la causa di gran parte dei genocidi del XX secolo. Le bandiere sono pezzi di stoffa colorata che i governi usano prima come pellicola per avvolgervi ben bene la mente delle persone e poi come sudari cerimoniali per avvolgervi i morti. Quando le persone indipendenti, abituate a ragionare con la propria testa (e qui non includo i media delle multinazionali), cominciano a marciare sotto le bandiere; quando scrittori, pittori, musicisti, registi sospendono il giudizio e mettono ciecamente la loro arte al servizio della «nazione», per tutti noi è arrivato il momento di scuotersi e iniziare a preoccuparsi. In India abbiamo assistito allo sventolio di bandiere subito dopo i test nucleari del 1998 e nel 1999 durante la guerra di Kargil contro il Pakistan. Negli Stati Uniti lo abbiamo visto durante la guerra del Golfo e adesso, in occasione della «guerra al terrorismo»: un'infinità di bandiere americane «made in China». Recentemente, chi ha criticato le azioni del governo statunitense (compresa la sottoscritta) è stato definito antiamericano. L'antiamericanismo è in via di consacrazione come ideologia. Il termine «antiamericano» di solito è usato dall'establishment americano per screditare e per definire, se non ingannevolmente, quanto meno in modo improprio, i suoi critici. Quando qualcuno è bollato di antiamericanismo, è facile che sia giudicato ancor prima di essere ascoltato, con la conseguenza che i suoi argomenti si perdono nel brusio sollevato dall'orgoglio nazionale ferito. Qual è il significato del termine «antiamericano»? Significa opporsi al jazz? Oppure alla libertà di parola? Significa non apprezzare Toni Morrison o John Updike? Significa detestare le gigantesche sequoie? Significa non ammirare le centinaia di migliaia di cittadini americani che hanno marciato contro le armi nucleari, o le migliaia di pacifisti che costrinsero il loro governo a ritirarsi dal Vietnam? Significa odiare tutti gli americani? Questa maliziosa confusione tra la cultura, la musica e la letteratura americane, tra la bellezza mozzafiato del paese, tra gli ordinari piaceri della gente comune e le critiche alla politica estera del governo statunitense (di cui purtroppo, grazie alla «stampa libera» americana, la maggior parte degli americani sa ben poco), corrisponde a un disegno deliberato ed estremamente efficace. È come se un esercito in ritirata si rifugiasse in una città densamente popolata nella speranza che il nemico, temendo di colpire bersagli civili, non apra il fuoco. Ci sono molti americani che si risentirebbero nel vedersi identificati con il loro governo. Le critiche più circostanziate, incisive e beffarde all'ipocrisia e alle contraddizioni della politica del governo statunitense provengono da cittadini americani. Quando il resto del mondo si chiede cosa ha in mente il governo di Washington, le risposte gliele forniscono Noam Chomsky, Edward Said, Howard Zinn, Ed Herman, Amy Goodman, Michael Albert, Chalmers Johnson, William Blum e Anthony Arnove. Allo stesso modo, in India, non centinaia, ma milioni di persone si vergognerebbero e si sentirebbero offese nel vedersi accomunate in qualunque modo alle politiche fasciste dell'attuale governo, il quale, oltre a praticare, in nome della lotta al terrorismo, il terrorismo di stato nella valle del Kashmir, ha finto di non vedere i pogrom contro i musulmani del Gujarat, attuati sotto l'attenta regia di quello stato. Sarebbe assurdo pensare che chi critica il governo indiano è antindiano, anche se lo stesso governo è pronto a sostenerlo. È pericoloso concedere al governo indiano o al governo americano o a chiunque altro il diritto di dire cosa sono l'India o l'America, o cosa dovrebbero essere. Se si definisce qualcuno antiamericano, se lo si accusa di essere antiamericano (o antindiano o antiafricano), non solo si manifesta il proprio razzismo, ma anche ottusità, un'incapacità di interpretare il mondo diversamente da come l'establishment ha deciso per noi: se non sei un seguace di Bush, sei un taliban; se non ci ami, ci odi; se non sei buono, sei malvagio; se non sei con noi, sei con i terroristi. L'anno scorso, come molti altri, ho fatto anch'io l'errore di sottovalutare il profluvio retorico seguito all'11 settembre, liquidandolo come stupido e arrogante. Mi sono poi resa conto che non è affatto stupido. In realtà è un astuto sistema di reclutamento per una guerra sbagliata e pericolosa. Ogni giorno resto sbigottita nel constatare quante siano le persone convinte che opporsi alla guerra in Afghanistan è come appoggiare il terrorismo o votare per i taliban. Ora che l'obiettivo iniziale della guerra - catturare Osama bin Laden, vivo o morto - sembra irraggiungibile, è stato aggiustato il tiro. Si lascia intendere che lo scopo della guerra fosse quello di rovesciare il regime dei taliban e liberare le donne afghane dal burqa. Vogliono farci credere che i marines americani siano impegnati in una missione femminista. Se è così, quale sarà la loro prossima tappa, la loro alleata Arabia Saudita? Provate a rifletterci. In India esistono alcune pratiche sociali riprovevoli, contro gli «intoccabili», contro cristiani e musulmani, contro le donne. In Pakistan e in Bangladesh vi sono modi ancora peggiori di trattare le minoranze e le donne. Dovrebbero essere bombardati? Dovrebbero essere rase al suolo New Delhi, Islamabad e Dhaka? È mai possibile estirpare il fanatismo dall'India a forza di bombe? Potremo mai, con le bombe, aprirci la strada verso un paradiso femminista? È in questo modo che le donne hanno conquistato il voto negli Stati Uniti? O che è stata abolita la schiavitù? Potremo mai ottenere un risarcimento per il genocidio dei milioni di nativi americani sulle cui spoglie sono stati fondati gli Stati Uniti bombardando Santa Fe? Nessuno di noi ha bisogno di anniversari per ricordare quello che non si può dimenticare. È per pura coincidenza, quindi, che mi trovo qui, negli Stati Uniti, a settembre, un mese di spaventose ricorrenze. Al primo posto nei nostri pensieri, soprattutto qui in America, c'è l'orrore ormai conosciuto come «11 settembre». In quel micidiale attacco terroristico trovarono la morte quasi tremila civili. Il dolore è ancora profondo. La rabbia ancora intensa. Le lacrime non si sono ancora asciugate. E una guerra strana, terribile, sta infuriando nel mondo. Eppure, chiunque abbia perso una persona amata sa che il proprio dolore non sarà lenito da nessuna guerra, da nessun atto di vendetta, da nessuna bomba sganciata sui parenti o i figli altrui; niente potrà restituirgli i suoi cari. La guerra non può vendicare i morti. La guerra è solo una crudele profanazione della loro memoria. Il dolore viene sminuito, si svuota di significato, se lo si usa cinicamente per confezionare programmi televisivi sponsorizzati da detersivi e scarpe da tennis che vanno ad alimentare l'ennesima guerra (ora contro l'Iraq). Stiamo assistendo a una volgare esibizione del commercio del dolore, al saccheggio dei più intimi sentimenti umani a scopi politici. È una cosa terribile e violenta che uno stato fa ai suoi cittadini. Non è un argomento molto brillante da affrontare in un incontro pubblico, ma ciò di cui vorrei parlarvi è la perdita. La perdita e il perdere. Il dolore, il fallimento, lo scoramento, l'insensibilità, l'incertezza, la paura, la morte dei sentimenti, la morte dei sogni. L'assoluta, implacabile, infinita, abituale ingiustizia del mondo. Cosa significa la perdita per un individuo? Cosa significa per intere culture, per interi popoli che hanno imparato a conviverci come con una compagna fedele? Dal momento che stiamo parlando dell'11 settembre, forse è giusto ricordare cosa significa questa data non solo per chi vi ha perso i suoi cari, ma per le persone di altre parti del mondo che già da tempo le attribuivano un significato particolare. Questa panoramica storica non vuole essere un atto di accusa, né una provocazione. Serve a condividere il dolore della storia. A diradare un po' la nebbia. A dire ai cittadini americani nel modo più delicato e umano: benvenuti nel mondo. In Cile, l'11 settembre 1973 il generale Pinochet rovesciò il governo democraticamente eletto di Salvador Allende con un golpe appoggiato dalla CIA. «Non bisognerebbe permettere al Cile di diventare marxista solo perché il suo popolo è irresponsabile» disse Henry Kissinger, allora consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Nixon. Dopo il colpo di stato, il corpo di Allende fu rinvenuto privo di vita dentro il palazzo presidenziale. Non sappiamo se Allende fu assassinato o si tolse la vita; non lo sapremo mai. Nel regime di terrore che seguì, furono eliminate migliaia di persone. Molti semplicemente «sparirono». Vennero compiute esecuzioni pubbliche. Il paese si riempì di campi di concentramento e camere di tortura. I cadaveri vennero seppelliti dentro i pozzi delle miniere e in ignote fosse comuni. Per più di sedici anni il popolo cileno visse nel terrore di essere svegliato nel cuore della notte, nel terrore delle quotidiane sparizioni, degli improvvisi arresti e delle torture. Nel 2000, dopo l'arresto del generale Pinochet in Gran Bretagna, il governo statunitense declassificò migliaia di documenti segreti. Contenevano prove inconfutabili del coinvolgimento della CIA nel colpo di stato e del fatto che il governo americano disponeva di informazioni dettagliate sulla situazione in Cile durante il regime di Pinochet. Eppure Kissinger assicurò al generale il suo appoggio: «Negli Stati Uniti, come sa, guardiamo con simpatia a quello che lei sta cercando di fare» gli disse. «Auguriamo al suo governo ogni bene.» Chi di noi ha vissuto in una democrazia, per quanto malata, fatica a immaginare come si possa vivere sotto una dittatura e sopportare la perdita totale della libertà. Pinochet dovrebbe rispondere non solo delle persone assassinate, ma anche della vita rubata ai sopravvissuti. Purtroppo, il Cile non fu l'unico paese latinoamericano al quale il governo statunitense dedicò le sue attenzioni. Guatemala, Costa Rica, Ecuador, Brasile, Repubblica Dominicana, Bolivia, Nicaragua, Honduras, Panamá, El Salvador, Perú, Messico e Colombia sono stati gli scenari nei quali la CIA ha agito con operazioni palesi o occulte. Centinaia di migliaia di latinoamericani sono stati uccisi, torturati, oppure trasformati semplicemente in desaparecidos sotto regimi dispotici, per opera di dittatori di cartapesta e di trafficanti di droga e di armi che godevano di complicità e sostegni all'estero. Molti di essi compirono il loro apprendistato nella famigerata School of Americas di Fort Benning, Georgia, fondata dal governo degli Stati Uniti; a quella scuola si formarono in 60.000. Già sufficientemente umiliato, il popolo sudamericano ha dovuto subire anche l'infamia di essere definito incapace di democrazia, come se colpi di stato e massacri albergassero nel suo DNA. Ma nella lista dovremmo includere anche i paesi africani e asiatici che hanno subìto l'intervento militare statunitense, tra cui Somalia, Vietnam, Corea, Indonesia, Laos e Cambogia. Durante quanti mesi di settembre, per quanti decenni, milioni di asiatici sono stati bombardati, bruciati e massacrati? Quante volte è arrivato settembre dall'agosto 1945, quando centinaia di migliaia di giapponesi vennero annientati dall'attacco nucleare su Hiroshima e Nagasaki? Per quanti mesi di settembre gli sfortunati sopravvissuti a quell'attacco hanno dovuto scontare le conseguenze dell'inferno che gli cadde addosso, e con loro i figli che gli nacquero, e i nipoti, la terra, il cielo, il vento, l'acqua e tutte le specie che nuotano e camminano, strisciano e volano? Non lontano da qui, ad Albuquerque, c'è il National Atomic Museum, dove «Fat Man» e «Little Boy» (questi gli affettuosi nomignoli dati alle bombe che vennero gettate su Hiroshima e Nagasaki) sono venduti sotto forma di orecchini. Li indossano i ragazzi, un massacro per ciascun orecchio. Ma mi sto smarrendo, è di settembre che stiamo parlando, non certo di agosto. La data dell'11 settembre risuona tragica anche in Medio Oriente. L'11 settembre 1922, ignorando lo sdegno arabo, il governo britannico proclamò un mandato sulla Palestina; faceva seguito alla Dichiarazione Balfour che l'Inghilterra imperiale aveva emanato nel 1917, con il suo esercito ammassato alle porte della città di Gaza. La Dichiarazione Balfour prometteva ai sionisti europei «una patria per il popolo ebraico». L'impero sul quale non tramontava mai il sole era allora libero di arraffare e dispensare patrie, come i bulli a scuola le bilie di vetro. Due anni dopo la Dichiarazione, Lord Balfour, ministro degli Esteri britannico, disse: In Palestina non ci ripromettiamo nemmeno di procedere a una consultazione per verificare quali siano le aspirazioni degli attuali abitanti del paese. Il sionismo, giusto o sbagliato, buono o cattivo che sia, è radicato in antiche tradizioni, in esigenze attuali e in speranze future di importanza molto più profonda delle aspettative e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che oggi popolano questa antica terra. Con quanta indifferenza il potere imperiale decretava quali aspirazioni fossero profonde e quali no. Con quanta indifferenza giudicava antiche civiltà. La Palestina e il Kashmir sono piaghe purulente dell'impero britannico, doni insanguinati al mondo moderno. Sono linee di faglia degli odierni, furibondi conflitti internazionali. Nel 1937 Winston Churchill diceva dei palestinesi: Non credo che il cane del fattore abbia diritti sulla mangiatoia, nemmeno se è lì da molto tempo. Non riconosco questo diritto. Non condivido, per esempio, l'idea che ai pellerossa d'America o ai neri d'Australia sia stato fatto un grande torto. Non credo che si possa affermare che è stato fatto un torto a questi popoli solo perché una razza più forte, più progredita, una razza... mettiamola così, più esperta e più navigata, è arrivata e ha preso il loro posto. Così venne stabilito il principio sul quale si è basato il comportamento israeliano verso i palestinesi. Nel 1969, il primo ministro Golda Meir affermò: «I palestinesi non esistono». Il suo successore, il primo ministro Levi Eshkol, disse: «Dove sono i palestinesi? Quando arrivai qui c'erano 250.000 non ebrei, in gran parte arabi e beduini. Era un deserto meno che sottosviluppato. Il nulla». Il primo ministro Menahem Begin definì i palestinesi «bestie a due gambe». Il primo ministro Yitzhak Shamir li definì «cavallette da schiacciare». Questo è il linguaggio dei capi di stato, non della gente comune. Nel 1947 le Nazioni Unite divisero ufficialmente il territorio della Palestina, assegnandone il 55 per cento ai sionisti. Tempo un anno e questi ne avevano conquistato più del 76 per cento. Il 14 maggio 1948 nacque lo stato di Israele. Pochi minuti dopo la proclamazione, gli Stati Uniti riconobbero il nuovo stato. La Cisgiordania fu annessa dalla Giordania. La Striscia di Gaza finì sotto il controllo militare dell'Egitto. Formalmente la Palestina cessò di esistere, tranne che nella mente e nel cuore di centinaia di migliaia di profughi palestinesi. Nell'estate del 1967 Israele occupò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Ai coloni furono offerti assistenza e sussidi statali perché si trasferissero nei territori occupati. Da allora quasi ogni giorno altre famiglie palestinesi sono costrette a lasciare la loro terra e sono spinte nei campi profughi. I palestinesi che vivono in Israele non hanno gli stessi diritti degli israeliani e vivono come cittadini di serie B nella loro patria di un tempo. Per decenni si sono susseguite rivolte, guerre, «intifade». Migliaia di persone hanno perso la vita. Sono stati firmati accordi e trattati, sono state dichiarate e violate tregue. Ma lo spargimento di sangue non si è interrotto. La Palestina resta ancora occupata illegalmente. La sua gente vive ancora in condizioni inumane, in veri e propri ghetti, dove è soggetta a punizioni collettive e a ininterrotti coprifuoco, dove è quotidianamente umiliata e brutalizzata. I palestinesi non sanno quando le loro case verranno demolite, i loro bambini fatti segno dal fuoco, i loro preziosi alberi tagliati, le loro strade chiuse, quando gli sarà concesso di uscire per comprare cibo e medicine, o quando gli sarà impedito. Vivono senza uno straccio di dignità. Con poche speranze. Non controllano le loro terre, gli apparati di sicurezza, le strade, i mezzi di comunicazione, gli acquedotti. E così quando vengono firmati gli accordi e pronunciate parole come «autonomia», o perfino «stato», viene da chiedersi: che genere di autonomia, che tipo di stato, che razza di diritti avranno i suoi cittadini? I giovani palestinesi che non sanno frenare la rabbia si trasformano in bombe umane e imperversano nelle strade e nei locali pubblici israeliani, facendosi saltare in aria, uccidendo gente comune, seminando il terrore nella vita quotidiana e alimentando il sospetto e l'odio reciproco nelle due società. Ogni attentato suscita una spietata rappresaglia e causa ulteriori sofferenze al popolo palestinese. Ma gli attentati suicidi sono un atto di disperazione individuale, non una tattica rivoluzionaria. Se gli attacchi palestinesi seminano il terrore fra i civili israeliani, forniscono anche il paravento ideale per le incursioni quotidiane del governo di Israele nei territori palestinesi, il pretesto ideale per il vecchio colonialismo mascherato da guerra del XXI secolo. Il più fedele alleato politico e militare di Israele è sempre stato il governo degli Stati Uniti; insieme a Israele ha vanificato quasi tutte le risoluzioni dell'ONU rivolte a trovare una soluzione equa e pacifica al conflitto; ha sostenuto quasi tutte le guerre che Israele ha combattuto. Quando Israele attacca la Palestina, sono i missili americani ad abbattersi sulle case palestinesi. E ogni anno Israele riceve parecchi miliardi di dollari dagli USA. In aggiunta ai tre miliardi e passa di dollari di aiuti militari, il governo degli Stati Uniti sostiene Israele attraverso l'assistenza economica, i prestiti, la tecnologia, il commercio di armi. Quale lezione dovremmo trarre da questo tragico conflitto? È veramente impossibile per gli ebrei, che hanno sofferto tanto - molto più, forse, di qualsiasi altro popolo - capire la fragilità e le aspirazioni di quelli che hanno disperso? La sofferenza estrema accende sempre la crudeltà? Che speranza può lasciare tutto questo all'umanità? Cosa succederebbe al popolo palestinese se si affermasse il suo disegno? Quando una nazione senza stato ne proclama finalmente uno, che razza di stato nasce? Quali orrori saranno commessi sotto la sua bandiera? È per uno stato autonomo che dobbiamo combattere, o per il diritto a una vita libera e decorosa per tutti, indipendentemente dall'appartenenza etnica e dalla religione? La Palestina un tempo era un baluardo della laicità in Medio Oriente. Ma ora la debole, autoritaria, indubbiamente corrotta eppure non settaria Organizzazione per la liberazione della Palestina sta perdendo terreno nei confronti di Hamas, che sostiene un'ideologia apertamente settaria e combatte in nome dell'Islam. Citiamo dal suo statuto: «Noi saremo i suoi soldati e la legna da ardere del fuoco che brucerà i nemici». Il mondo è chiamato a condannare gli attentatori suicidi. Ma possiamo ignorare il lungo viaggio che hanno compiuto prima di giungere a questa destinazione? Dall'11 settembre 1922 all'11 settembre 2002: per una guerra, ottant'anni sono fin troppi. Ci sono consigli che il mondo può dare al popolo della Palestina? Qualche brandello di speranza che possiamo offrirgli? Deve accontentarsi delle briciole che gli vengono gettate e comportarsi come le cavallette o le bestie a due gambe alle quali è stato accostato? Deve accettare i suggerimenti di Golda Meir e mettercela tutta per scomparire dalla faccia della terra? In un'altra area del Medio Oriente l'11 settembre tocca una ferita aperta da poco. L'11 settembre 1990 George Bush Senior, allora presidente degli USA, tenne un discorso davanti al Congresso riunito in seduta congiunta per annunciare la decisione del suo governo di dichiarare guerra all'Iraq. Il governo statunitense affermò che Saddam Hussein era un criminale di guerra, un crudele despota militare che si era macchiato di genocidio contro il suo stesso popolo. Si trattava di una descrizione piuttosto accurata del personaggio. Nel 1988 Saddam Hussein aveva raso al suolo centinaia di villaggi nell'Iraq settentrionale e aveva usato le armi chimiche e l'artiglieria per uccidere migliaia di curdi. Oggi sappiamo che nello stesso anno il governo statunitense gli aveva fornito 500 milioni di dollari per acquistare prodotti agricoli americani. L'anno dopo, nel 1989, quando Saddam aveva vittoriosamente portato a compimento la sua campagna genocida, il governo USA gli raddoppiò gli aiuti portandoli a un miliardo di dollari. Gli fornì anche batteri di antrace di ottima qualità, elicotteri e altri equipaggiamenti utili a produrre armi chimiche e biologiche. Ora sappiamo che, mentre Saddam Hussein stava commettendo le sue peggiori atrocità, i governi degli USA e del Regno Unito erano suoi stretti alleati. Ancora oggi il governo della Turchia, che per quanto riguarda le violazioni dei diritti umani ha precedenti raccapriccianti, è uno dei maggiori alleati del governo americano. Il fatto che il governo turco abbia per anni oppresso e sterminato il popolo curdo non ha impedito al governo americano di imbottire la Turchia di armi e di aiuti. Quindi non era stata la preoccupazione per il popolo curdo a provocare il discorso del presidente Bush davanti al Congresso. Cos'era stato? Nell'agosto del 1990 Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait. Il suo peccato non era tanto quello di aver commesso un atto di guerra, ma di aver agito autonomamente, senza prendere ordini dai suoi padroni. Questa manifestazione di indipendenza bastò a sconvolgere l'equilibrio del potere nel Golfo. E così fu deciso che Saddam Hussein doveva essere soppresso, come un cagnolino sopravvissuto al padrone. Il primo attacco alleato contro l'Iraq ebbe inizio nel gennaio 1991. Il mondo seguì la guerra in prima serata sugli schermi della TV. In India in quei giorni i programmi della CNN si potevano seguire solo negli alberghi di lusso. In un mese di bombardamenti devastanti furono uccise decine di migliaia di persone. Quello che molti non sanno è che la guerra non finì allora. La furia iniziale si diluì, trasformandosi nel più lungo attacco aereo contro un paese dai tempi della guerra del Vietnam. Nell'ultimo decennio le forze americane e britanniche hanno lanciato migliaia di missili e di bombe sull'Iraq. Il territorio iracheno e i suoi campi agricoli sono stati bombardati con 3000 tonnellate di uranio impoverito? Durante i loro raid aerei, gli «alleati» hanno colpito e distrutto impianti di depurazione dell'acqua, consci del fatto che non avrebbero potuto essere riparati senza l'assistenza estera. Nel sud dell'Iraq, la diffusione dei tumori tra i bambini è quadruplicata. Nel decennio di sanzioni economiche successivo alla guerra, i civili iracheni si sono visti negare cibo, medicinali, apparecchiature ospedaliere, ambulanze, acqua potabile: le cose più essenziali. A causa delle sanzioni, mezzo milione di bambini ha perso la vita. Di loro Madeleine Albright, ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, disse: «Credo che sia una scelta difficile, ma ne vale la pena». Chi ha criticato la guerra in Afghanistan è stato tacciato di «relativismo morale». Madeleine Albright non può essere accusata di relativismo morale; le sue affermazioni si devono a schietta algebra. Un decennio di bombardamenti non è riuscito tuttavia a far sloggiare Saddam Hussein, la «belva di Baghdad». Circa dodici anni dopo, il presidente George W. Bush ricicla quella retorica. Propone una guerra totale il cui obiettivo è addirittura un cambiamento di regime. Sul «New York Times» si legge che l'amministrazione Bush sta «seguendo una strategia meticolosamente pianificata per convincere l'opinione pubblica, il Congresso e gli alleati della necessità di scongiurare la minaccia di Saddam Hussein». Andrew Card, il capo dello staff presidenziale, ha spiegato come l'amministrazione sviluppava i piani di guerra per l'autunno: «Se consideriamo il marketing, è meglio non lanciare nuovi prodotti ad agosto». Questa volta lo slogan per promuovere i «nuovi prodotti» di Washington non fa leva sui problemi dei kuwaitiani ma sull'affermazione che l'Iraq dispone di armi di distruzione di massa. Dimentichiamo «l'inconcludente moralismo delle 'lobby della pace'» ha scritto Richard Perle, capo del Defense Policy Board; gli Stati Uniti agiranno «da soli se necessario» e ricorreranno a un «attacco preventivo» se sarà nei loro interessi. I rapporti degli ispettori dell'ONU sulle armi di distruzione di massa dell'Iraq sono contraddittori; molti ispettori hanno detto chiaramente che l'arsenale di Saddam è stato smantellato e che il paese non è in grado di costruirne un altro. In compenso non ci sono dubbi sull'entità e sulla portata dell'arsenale di armi nucleari e chimiche dell'America. Il governo statunitense accoglierebbe eventuali ispezioni? Lo farebbero la Gran Bretagna o Israele? Ma anche se l'Iraq avesse l'arma nucleare, sarebbe giustificato un attacco preventivo americano? Gli Stati Uniti hanno il più grande arsenale di armi nucleari del mondo. Sono l'unico paese al mondo ad averlo usato contro popolazioni civili. Se gli Stati Uniti hanno il diritto di lanciare un attacco preventivo contro l'Iraq, allora ogni potenza nucleare ha il diritto di attaccare preventivamente altri paesi. L'India potrebbe attaccare il Pakistan e viceversa. Se il governo degli Stati Uniti sviluppa un'avversione per il primo ministro indiano, può liquidarlo con un attacco preventivo? Recentemente gli Stati Uniti hanno avuto un importante ruolo nello spingere India e Pakistan sull'orlo della guerra. Gli costa molto farsi i fatti propri? Chi è colpevole di inconcludente moralismo? Chi invoca la pace mentre prepara la guerra? Gli Stati Uniti, che George W. Bush definisce «un paese pacifico», sono stati in guerra con una nazione o un'altra per ognuno degli ultimi cinquant'anni. Le guerre non sono mai combattute per ragioni altruistiche. Di solito a provocarle sono la volontà egemonica e gli interessi economici. E poi naturalmente c'è l'affare costituito dalla guerra stessa. Per gli Stati Uniti è fondamentale rafforzare il controllo sulle riserve mondiali di petrolio. I recenti interventi militari americani nei Balcani e in Asia centrale hanno a che fare con il petrolio. Sembra che Hamid Karzai, il presidente marionetta insediato dagli USA alla guida dell'Afghanistan, sia stato un dipendente dell'Unocal, una società petrolifera con sede negli Stati Uniti. Il paranoico pattugliamento del Medio Oriente da parte del governo statunitense è dovuto al fatto che la regione dispone dei due terzi delle riserve petrolifere mondiali. Il petrolio permette ai motori americani di ronzare dolcemente. Il petrolio permette al libero mercato di funzionare. Chi controlla il petrolio mondiale controlla il mercato mondiale. E come si controlla il petrolio? Nessuno lo ha detto con più eleganza di Thomas Friedman, editorialista del «New York Times». In un articolo spiega che «gli Stati Uniti devono rendere chiaro all'Iraq e ai loro alleati che [...] l'America userà la forza senza negoziati, senza esitazioni e senza l'approvazione dell'ONU». Il suo consiglio è stato seguito, nelle guerre contro l'Iraq e l'Afghanistan così come nelle umiliazioni pressoché quotidiane che il governo statunitense infligge alle Nazioni Unite. Nel suo libro sulla globalizzazione, Le radici del futuro, Friedman scrive: «La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza un pugno invisibile. McDonald's non può prosperare senza McDonnell Douglas [...]. E il pugno invisibile che garantisce la sicurezza del mondo e delle tecnologie della Silicon Valley si chiama esercito, aeronautica, marina e corpo dei marines degli Stati Uniti». Forse questa frase è dovuta a un eccesso di franchezza, ma è sicuramente la descrizione più sintetica e precisa del progetto di globalizzazione neoliberista che abbia mai letto. Dopo l'11 settembre 2001 e la guerra al terrorismo, la mano e il pugno invisibili sono venuti allo scoperto e ora abbiamo una chiara visione dell'altra arma dell'America, il libero mercato, che si abbatte sul mondo in via di sviluppo esibendo il suo sorriso stiracchiato. Il «compito che non ha fine» è la guerra perfetta dell'America, il veicolo adatto all'infinita espansione dell'imperialismo americano. In urdu faeda vuol dire «profitto»; qaeda vuol dire invece «parola, parola di Dio, legge». Perciò in India alcuni di noi hanno ribattezzato la guerra al terrorismo «al Qaeda contro al Faeda», «la parola contro il profitto» (ogni riferimento alla famigerata al Qaeda è puramente casuale). Per il momento sembra che al Faeda sia destinata ad avere la meglio. Ma non si può mai dire. Negli ultimi dieci anni di sfrenata globalizzazione neoliberista, il reddito totale del mondo è aumentato in media del 2,5 per cento all'anno. Eppure il numero dei poveri è aumentato di cento milioni. Delle cento maggiori economie mondiali, 51 non sono stati, ma multinazionali. Il reddito totale dell'1 per cento più ricco del mondo è uguale al reddito totale del 57 per cento più povero, e la disparità è in aumento. Ora, sotto la copertura sempre più vasta della guerra al terrorismo, questo processo è in via di accelerazione. I burocrati hanno una fretta indecente. Mentre le bombe ci piovono addosso e i missili Cruise solcano il cielo, mentre si ammassano armi nucleari per rendere più sicuro il mondo, si firmano contratti, si registrano brevetti, si costruiscono oleodotti, si saccheggiano le risorse naturali, si privatizza l'acqua e si minacciano le democrazie. In paesi come l'India, l'«aggiustamento strutturale» e la globalizzazione neoliberista affliggono la vita delle popolazioni. Progetti di «sviluppo», privatizzazione generalizzata e «riforme» del lavoro espellono i lavoratori dalle campagne e dalle industrie, con il risultato di una barbara spoliazione che ha pochi precedenti nella storia. Mentre nel mondo il libero mercato protegge spudoratamente le economie occidentali e costringe i paesi in via di sviluppo ad abbattere le barriere, i poveri si impoveriscono e i ricchi si arricchiscono. Nel villaggio globale la rivolta civile sta per esplodere. In paesi come l'Argentina, il Brasile, il Messico, la Bolivia e l'India, crescono i movimenti contro la globalizzazione neoliberista. Per contenerli i governi intensificano i controlli. I contestatori vengono bollati come «terroristi» e trattati come tali. Ma la rivolta civile non comprende solo marce, manifestazioni e proteste contro la globalizzazione. Purtroppo vede anche una deriva verso il crimine e il caos, verso la disperazione e la disillusione che, come la storia ci insegna e come abbiamo visto con i nostri occhi, diventano progressivamente un fertile terreno di coltura per il nazionalismo, il fanatismo religioso, il fascismo e, naturalmente, il terrorismo. Fenomeni che ben si sposano con la globalizzazione neoliberista. Sempre più si diffonde la leggenda che il libero mercato abbatterà le barriere nazionali e che l'obiettivo finale della globalizzazione neoliberista è una sorta di paradiso hippy dove il cuore sarà l'unico passaporto e noi tutti vivremo insieme felicemente come in una canzone di John Lennon (Imagine there's no country...). Tutte sciocchezze. Il libero mercato non minaccia la sovranità nazionale, ma la democrazia. Mentre la differenza fra ricchi e poveri aumenta, il pugno invisibile sa perfettamente cosa fare. Le multinazionali a caccia di enormi profitti sanno di non poter sviluppare i loro progetti nei paesi in via di sviluppo senza l'attiva connivenza , della macchina statale: la polizia, i tribunali, a volte perfino l'esercito. Oggi la globalizzazione economica ha bisogno di una confederazione internazionale di governi asserviti, corrotti e preferibilmente autoritari nei paesi più poveri, che approvino riforme impopolari e soffochino le sommosse. Ha bisogno di una stampa che finga di essere libera. Ha bisogno di tribunali che fingano di dispensare giustizia. Ha bisogno di bombe nucleari, di eserciti, di leggi più severe sull'immigrazione e di efficaci controlli costieri per accertarsi che siano solo i soldi, le merci, i brevetti e i servizi a essere globalizzati, non la libera circolazione delle persone, il rispetto dei diritti umani, i trattati internazionali sulla discriminazione razziale o sulle armi chimiche e nucleari, sulle emissioni dei gas serra, sul cambiamento del clima o sulla giustizia. Come se anche un piccolo passo verso una forma di responsabilità internazionale potesse far crollare l'intera baracca. Quasi un anno dopo l'avvio ufficiale della guerra al terrorismo sulle rovine dell'Afghanistan, paese dopo paese le libertà vengono limitate in nome della difesa della libertà, i diritti civili vengono calpestati in nome della difesa della democrazia. Ogni dissenso viene definito «terrorismo» e per affrontarlo vengono approvate leggi d'ogni tipo. Osama bin Laden sembra essere svanito nel nulla. Si dice che il mullah Omar sia riuscito a fuggire in motocicletta. I taliban sono forse scomparsi, ma il loro spirito e il loro sistema di giustizia sommaria stanno riaffiorando nei posti più disparati: in India, in Pakistan, in Nigeria, in America, in tutte le repubbliche centroasiatiche guidate da ogni genere di despota e naturalmente nell'Afghanistan governato dall'Alleanza del Nord con il sostegno degli Stati Uniti. Intanto, nel centro commerciale qui sotto c'è una svendita di mezza stagione. È tutto scontato - oceani, fiumi, petrolio, catene di DNA, api impollinatrici, fiori, infanzia, fabbriche di alluminio, compagnie telefoniche, buonsenso, riserve naturali, diritti civili, ecosistemi, aria - ovvero tutti i 4.600 milioni di anni di evoluzione. Sono confezionati, sigillati, etichettati, prezzati ed esposti sugli scaffali (e non possono essere restituiti). Quanto alla giustizia, mi dicono che sia anch'essa in offerta. Con il denaro potete procurarvi il meglio che offre il mercato. Donald Rumsfeld ha affermato che il suo ruolo nella «guerra contro il terrore» è stato quello di convincere il mondo che gli americani devono essere liberi di coltivare il loro stile di vita, la loro way of Life. Quando il re impazzito batte i piedi, gli schiavi tremano nei loro alloggi. Non è facile, ma si deve affermare che l' American way of life è semplicemente insostenibile. Perché non tiene conto che oltre all'America c'è un mondo. Fortunatamente il potere ha una sua durata. Quando arriverà il momento, forse questo possente impero, come altri prima di lui, farà il passo più lungo della gamba e imploderà. Pare che alcune crepe strutturali siano già comparse. Mentre la guerra al terrorismo allarga la sua rete, il cuore multinazionale dell'America è in piena emorragia. Malgrado le interminabili parole vuote sulla democrazia, oggi il mondo è guidato da tre delle istituzioni più occulte del pianeta, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l'Organizzazione mondiale per il commercio, tutte e tre a loro volta controllate dagli Stati Uniti. Le loro decisioni vengono prese in segreto. Le persone che le dirigono vengono nominate a porte chiuse. In realtà nessuno sa nulla di loro, della loro politica, delle loro idee, delle loro intenzioni. Nessuno li ha eletti. Nessuno ha detto che potevano prendere decisioni in nostro nome. Un mondo guidato da una manciata di avidi banchieri e da amministratori delegati che nessuno ha eletto non può durare. Il comunismo sovietico è fallito non perché fosse intrinsecamente malvagio, ma perché era malato. Concentrava troppo potere nelle mani di pochissime persone. Il capitalismo americano del XXI secolo fallirà per le stesse ragioni. Sono due edifici costruiti dall'intelligenza umana, ma minati alle fondamenta dalla natura umana. «È arrivato il momento» disse il Tricheco di Alice. Forse la situazione peggiorerà ancora, prima di migliorare. Forse c'è una piccola dea lassù, nel cielo, che si sta preparando per noi. Un altro mondo non è solo possibile: la dea è già in viaggio. Forse molti di noi non saranno qui ad accoglierla, ma in una giornata tranquilla, se rimango in ascolto, riesco a sentire il suo respiro. 18 settembre 2002
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