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S. Weil, Sulla Germania totalitaria di Federica Castelli dottoressa di ricerca in Filosofia Politica
All’interno del vasto panorama di riflessioni politiche che i primi anni del Novecento fornisce alle nostre riflessioni, gli scritti di Simone Weil, qui raccolti parzialmente seguendo due temi guida – le riflessioni sulla crisi tedesca degli anni 1932-1933 e l’analisi dell’hitlerismo – sembrano collocarsi su un piano peculiare e insolito. Distanziandosi dalle teorizzazioni politiche più categorizzanti e sistematiche che caratterizzano molte delle riflessioni del periodo, gli scritti di Weil, strettamente legati al contesto politico e sociale, pur proponendo formulazioni e intuizioni generali, si collocano nell’intersezione tra avvenimenti, esistenze, realtà sociali e riflessione sul Politico. Nonostante vi sia una forte continuità nell’atteggiamento critico del pensiero di Weil e nel legame stretto e indissolubile che intreccia tutte le analisi dell’autrice alle pratiche e all’esistenza, molti interpreti si sono impegnati a suddividere in modo netto il pensiero dell’autrice in due fasi ben distinte, seguendo i temi generali su cui Weil si concentra nell’arco della propria riflessione, la politica e il sociale nella prima fase, Dio e la morale nella seconda. Rimettendosi a tale distinzione, gli scritti della raccolta, connotati da un forte coinvolgimento pratico e attivo nel contesto politico contemporaneo all’autrice, rientrano pienamente in quella che è riconosciuta essere la sua prima fase di pensiero, in cui l’autrice lega un’inesauribile attività politica all’analisi critica delle strutture sociali e politiche. Proprio a questo proposito è opportuno considerare come questi scritti coincidano con il coinvolgimento attivo dell’autrice nelle lotte e negli scioperi operai, con il suo impegno all’interno della guerra civile spagnola e con gli anni passati in fabbrica come operaia, per potere, spiega Weil, fare reale e diretta esperienza di quel che i teorici del marxismo descrivevano nei propri testi e nei propri motti. Proprio in questo quadro di indissolubile intreccio tra teoria e pratica si inserisce questa raccolta sulla Germania totalitaria, divisa in due parti seguendo la periodizzazione degli scritti e i nodi concettuali su cui questi si soffermano. La prima parte del volume raccoglie delle riflessioni nate in seno ad un periodo di forte crisi economica, che, seguendo l’analisi weiliana, in virtù di un indissolubile legame che porta la dimensione economica ad intrecciarsi in modo inequivocabile con la sfera della politica, sfocia in una profonda crisi non solo istituzionale, ma anche sociale ed esistenziale. La politica, infatti, nella sua accezione più corretta e vera, si lega in Weil sempre all’esperienza concreta degli individui. La politica istituzionalizzata e burocratizzata, sganciata dalle esistenze, è, come vedremo, una degenerazione paralizzante e cancerosa. A partire dall’intreccio indissolubile tra questa accezione ampia di politica e la dimensione economica, che Weil riconosce come fondante della società del Novecento, l’autrice analizza le cause della paralisi sociale e politica della Germania dei primi anni Trenta, portata dalla crisi del sistema capitalistico all’inquietante bivio tra tra fascismo e rivoluzione. Difatti, spiega Weil, la crisi economica, dilagando nel discorso istituzionale in una «situazione di eccezione», porta ad un blocco del sistema politico, alla sua sclerotizzazione e allo sganciamento dalla realtà della prassi umana. La politica, allontanandosi dal presente, si sposta sul futuro, in teleologie illusorie che permettono distogliere lo sguardo dai problemi dell’oggi e in base al quale giustificare ogni azione o scelta politica. Tale sganciamento dal presente, tale decentramento dalle esistenze concrete e dalle reali oppressioni generate dal contesto contemporaneo, la cristallizzazione in affermazioni di carattere apodittico, spostate sul futuro e dunque non verificabili, in base al quale orientare le vite di oggi, caratterizzano sia l’ideologia fascista che quella rivoluzionaria, entrambe degenerazioni della politica nella sua accezione vera ed umana. Risulta evidente come, pur essendo una testimone esterna ai fatti sociali della Germania, nonostante i suoi lunghi periodi passati a Berlino, Weil dimostri capacità di analisi tale da andare a fondo nella realtà sociale tedesca tanto da poterne intuire gli esiti futuri. Nella sua analisi non solo politica ma soprattutto esistenziale dei disoccupati e dei lavoratori tedeschi, Weil mostra chiaramente il radicamento nell’esistenza della condizione di crisi economica e politica della società tedesca. Oltre al dramma della disoccupazione, i lavoratori tedeschi patiscono infatti l’oppressione della funzione, esercitata su di loro attraverso il taylorismo e la divisione del lavoro fordista, la burocratizzazione dell’industria, sezionata in consigli di tecnici e in dipartimenti non comunicanti tra loro. La fabbrica razionalizzata diviene l’eloquente specchio di una società in crisi, totalmente burocratizzata e in cui viene a mancare ogni visione di insieme che possa porre le basi di un pensiero critico. Approfondendo il discorso sulla crisi della politica tedesca, Weil fa un’analisi critica della burocratizzazione delle forze rivoluzionarie, che porta alla sclerotizzazione del potenziale socialmente e politicamente eversivo della classe operaia come forza politica. Tale processo porta ad un progressivo distacco dal reale da parte del partito, ad una gerarchizzazione paralizzante, all’immobilità e all’incapacità di azione politica, alla completa passività. Il partito perde la propria presa sul reale, sia a livello pratico che epistemologico. Gli slanci e le esistenze concrete che hanno originato il movimento rivoluzionario sbiadiscono in dogmi e sterili rituali politici. In tale contesto gli interessi divergono, tra il partito e la società si crea incomunicabilità. L’esistenza concreta diviene muta, mero supporto strumentale di una figura istituzionale; la rivoluzione diviene religione. Non vi è più riflessione, la rivoluzione si allontana dai bisogni, dalle forze che l’hanno originata, dando vita ad una nuova oppressione. In questo modo il comunismo diviene dogma e contemporaneamente inazione, debolezza, assenza di spirito critico e di libertà di espressione. Il partito è semplice macchina amministrativa. «Lungo tutto il corso della storia – leggiamo nel testo – alcuni uomini hanno lottato, hanno sofferto e sono morti per emancipare gli oppressi. I loro sforzi, quando non sono risultati vani, hanno sempre avuto come unico effetto quello di sostituire un regime oppressivo con un altro» (p. 164) Weil si rivolge così verso nodo fondamentale e inaggirabile di ogni analisi sulle rivoluzioni che voglia essere critica e calata nel reale, portando sulla scena la contraddizione interna ad ogni movimento rivoluzionario: il bivio tra fallimento e tradimento. Una volta che lo slancio rivoluzionario viene immesso nella realtà storica con successo, suggerisce Weil, esso, istituzionalizzandosi, lasciandosi scivolare nell’amministrazione di partito, nella burocrazia, si trova a tradire le proprie premesse, sganciandosi da esse, costringendole sotto il diktat di un futuro da inverare. La rivoluzione è uno stato temporaneo che non può, almeno secondo i parametri politici tradizionali, non sfociare nella burocratizzazione o nel dissipamento delle forze. La rivoluzione, insiste Weil, è una trasformazione attraverso la prassi, un compito pratico, che non può arrestarsi in un compito amministrativo, né in formule e parole d’ordine sganciate dal reale.«La rivoluzione scrive Weil – non è una religione rispetto alla quale un cattivo credente sarebbe meglio di un incredulo; è un compito pratico» (p.139) Vi è poi, sottolinea Weil, una ulteriore contraddizione in seno alla prassi rivoluzionaria, che ne pregiudica l’attualizzazione e che snatura ogni sentimento di rivolta che sfoci in rivoluzione; quando uno strato sociale, mosso da qualsiasi ambizione e slancio politico, dopo aver lottato per un cambiamento, si trova ad ottenere potere e viene immesso nelle istituzioni, viene preso dalla sua logica e tende a mantenerne il monopolio, qualunque esso sia, con la forza, conservandolo finché non venga scalzato dallo sviluppo storico. Ritroviamo qui la riflessione sulla forza come essenza prima dei rapporti umani, politici e non, che accompagna sottotraccia tutto il pensiero weiliano e che trova compiuta realizzazione nel suo La prima radice, del 1943. La società stessa, spiega Weil, è una forza della natura, cieca come le altre e particolarmente oppressiva. Ogni potere esclusivo e non controllato diviene per sua natura oppressivo, il cui fine risiede nel potere stesso e non nella felicità o il benessere dei membri della comunità che lo origina. All’interno di questo quadro l’adesione all’ideale rivoluzionario diviene mera accettazione di un dogma che si traduce spesso in un sacrificio liberamente accettato in nome di un’idea sradicata dall’esistenza. Proprio per questo, afferma con convinzione l’autrice, la liberazione dall’oppressione dei lavoratori non può assolutamente essere demandata o affidata ai militanti, ma deve essere opera dei lavoratori stessi. Il radicamento nell’esistenza e nella prassi rappresenta dunque per l’autrice l’unica alternativa al bivio tra fallimento e tradimento. Come già anticipato, il nesso tra politica e esistenza è fondante all’interno dell’analisi di Weil. La politica, in senso generale ed ampio, deve radicarsi negli individui, e nelle esistenze, non risiedere unicamente nello Stato e nella sua amministrazione. In tal senso cultura e pensiero critico rappresentano l’unico elemento salvifico e di speranza all’interno del quadro della crisi tedesca e e conferiscono dignità al popolo tedesco. Libertà e democrazia, per Weil, risiedono nel loro senso autentico solo nell’esercizio del pensiero critico libero dal dogma politico e nel radicamento concreto nell’esistenza dei singoli. Lo stesso ordine civile è fondato sulla libertà degli individui e non può allontanarsi da essa senza negarsi nei propri presupposti. Anziché la collettività, il valore supremo della politica risiede per Weil nell’individuo libero in una società libera e giusta . La libertà non si esercita però nel mero esercizio di un arbitrio sganciato da qualsivoglia costrizione (per intenderci, essa non è la «libertà di…»), ma è anzi libertà costruita attraverso il lavoro e il libero giudizio critico, reso arduo , come accennato, all’interno del contesto sociale in cui Weil è immersa dalla divisione del lavoro, non solo all’interno dell’azienda, ma che dilaga anche in campo intellettuale. L’autrice denuncia infatti la frammentazione del sapere in caselle teoriche non comunicanti, come una delle cause del torpore in cui le masse giacciono. Gli effetti della mancanza di un pensiero reale, profondo, non incasellato in ruoli e schemi, ma che voglia abbracciare il reale nella sua interezza dilagano ovunque, dalla fabbrica al partito. In particolare esso è evidente negli operai che aspettano un cambiamento dall’alto, fatalmente, nella divisione delle forze politiche, nello smembramento degli interessi politici in partiti ripiegati su se stessi, che si aggiungono al dramma di forze del cambiamento sociale logorate da condizioni esistenziali e lavorative della società. Proprio sullo sfondo di tali considerazioni si staglia la lucida analisi di Weil delle forze politiche del tempo e della loro composizione, che ne delinea limiti e promesse non mantenute. La seconda parte del volume si concentra su un’analisi dell’hitlerismo e sul suo rapporto di stretta somiglianza con la politica portata avanti da Roma ai tempi dell’Impero.Partendo da una chiara messa in discussione dell’idea di pax romana e di Roma come civiltà e patria del diritto, Simone Weil descrive Roma nei suoi accessi totalitari ed oppressivi. L’uso strumentale della propaganda, la crudeltà metodica, che ella rintraccia nella storia romana avvicinano la realtà tedesca al contesto politico romano, per il quale l’autrice ricorre a termini quali «perfidia» e «barbarie». Terribili precursori, i romani furono i primi a rivestirsi di un’aura, a concepirsi seriamente come popolo eletto destinato ad una missione, padrone e dominatore per natura, assioma di fronte al quale chiunque non voglia sottomettersi è un ribelle, da epurare o punire. L’oppressione e la conquista diventano un dovere. In Germania come a Roma, la cultura si piega al servizio del potere, oscillando tra l’esaltazione propagandistica e il mero intrattenimento privo di contenuti, fatto di bassezze e trivialità. La sottomissione che si richiede all’Impero è assoluta; in virtù della superiorità del fine politico che la classe dirigente persegue, dei suoi ideali e dei suoi dogmi, si autorizza la manipolazione delle masse, e lo Stato viene posto come unico oggetto d’adorazione. Per questo, spiega Weil, a Roma, come in Germania non c’è veramente cultura. L’individuo scompare dalle parole d’ordine della politica, dai suoi fini. È assente persino nel diritto. «Sarebbe estremamente difficile – spiega Weil – sostenere sulla base dei testi che i romani abbiano concepito il diritto come emanazione degli individui e in grado di stabilire un limite alla sovranità dello Stato nei suoi rapporti con essi» (p. 262). Scomparsa l’esistenza, la violenza è giustificata: tra i campi di concentramento, la schiavitù e il circo non vi è alcuna differenza sostanziale. Roma, come Berlino, è retta da un regime totalitario. Weil innesca in questo modo un andirivieni tra l’Impero e gli anni Trenta tedeschi, che prolifera agli occhi del lettore contemporaneo in un triplo movimento che include l’attualità della crisi globale. Pregio indiscutibile dell’opera weiliana, che pur sembrerebbe concentrarsi esclusivamente sul proprio contesto, è proprio questa possibilità di ampliamento dell’analisi in una riflessione che si mostra efficace ed attuale anche aldilà del periodo totalitario e fordista. Non solo infatti l’analisi di Weil mostra sconvolgenti tratti di realismo e chiarezza di vedute, tanto da mostrarsi in molteplici occasioni quasi una «predizione esatta» dall’imminente futuro dell’Europa degli anni ’30, ma porta allo sguardo del lettore le inquietanti affinità che il dramma politico e sociale tedesco intrattiene con l’attualità della crisi del sistema economico mondiale. Attraverso i suoi scritti, Weil sembra parlarci in modo pertinente e attuale anche della società post-statuale, immersa nel panorama della globalizzazione e della nuova crisi che il sistema capitalistico attraversa all’interno di esso. Esempio fra molti, l’analisi della condizione operaia, che sembra in alcuni punti coincidere con le attuali analisi sull’antropologia del precariato e sulle risonanze politiche che esso ha all’interno del quadro sociale. Come per i disoccupati tedeschi, il precariato assume oggi una dimensione anzitutto esistenziale. Citando l’autrice, «La crisi ha spezzato tutto ciò che consente ad ogni uomo di porsi fino in fondo il problema del proprio destino, ovvero le abitudini, le tradizioni, la stabilità della struttura sociale, la sicurezza; soprattutto tale crisi, in quanto non è, in generale, considerata come una interruzione passeggera nello sviluppo economico, ha chiuso qualsiasi prospettiva per il futuro ad ogni singolo individuo» (p. 39). La disoccupazione come il precariato sfibra il potenziale eversivo dei lavoratori, toglie loro l’energia per qualsivoglia dissenso. Il lavoro non viene più considerato un diritto, né un attività indispensabile alla produzione. Esso, per il lavoratore, diviene un favore accordato dall’azienda, qualcosa di cui essere indebitamente riconoscenti. In questo modo, nei lavoratori si insinua il sentimento di un privilegio accordato immeritatamente e i disoccupati vivono la propria condizione percependosi come parassiti del corpo sociale. Inutile dire infine che la riflessione di Weil risuona particolarmente al lettore moderno nel momento in cui si sofferma sulla crisi e sullo svuotamento della politica istituzionale che, sradicata dalle esistenze vere e dagli individui, si radica in modo degenerato nel personalismo politico, nell’informazione come mera diffusione di vicende personali e scandalistiche legate al mondo politico ma dai contenuti tutt’altro che politici. Nonostante l’inattualità del contesto in cui Weil scrive, quello della burocratizzazione di uno Stato-Nazione dall’accentramento crescente, che sembra pregiudicare il dialogo con una dimensione politica completamente altra com’è quella del panorama globale, in cui lo Stato-Nazione si disgrega in un intreccio indissolubile di locale e globale che rende impossibile la coincidenza di un’organizzazione statale (e non) con il proprio suolo nazionale, colpisce l’attualità della riflessione dell’autrice, che riesce a prevedere in modo impressionante alcune delle caratteristiche della nostra politica contemporanea, arrivando persino a parlare di una futura onnipervasività del potere (non solo statale), messa in seguito in rilievo da molte delle recenti analisi sulla biopolitica. Risulta così in modo evidente e concreto l’importanza dell’analisi di Weil portata avanti in questi scritti, la possibilità che essa offre oggi di leggere il presente con gli occhi del passato, possibilità feconda non tanto in virtù di un blando magistrae vitae, ma perché la riflessione di queste pagine riesce a cogliere quelle caratteristiche strutturali della società europea del secolo scorso che, seppur apparentemente superate o esplicitamente rinnegate, in realtà permangono solidamente alla base delle strutture sociali mondiali.
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