counterpunch.org Il disordine pianificato in Medio Oriente ed oltre La diabolica alleanza tra il complesso industriale della difesa e della sicurezza e la lobby israeliana Osservatori geopolitici delle turbolenze in Medio Oriente tendono ad addossare la colpa del caos che imperversa nella zona al presunto fallimento delle "incoerenti" "illogiche" o "contraddittorie" politiche degli Stati Uniti. Prove inconfutabili (alcune delle quali presentate in questo studio) suggeriscono, tuttavia, che in realtà il caos rappresenta il successo, non il fallimento, di quelle politiche architettate da chi trae beneficio dalla guerra e dalle operazioni militari nella regione, e oltre. Mentre le politiche americane nella regione mediorientale sono certamente irrazionali e contraddittorie dal punto di vista della pace internazionale, o anche dal solo punto di vista degli interessi nazionali degli Stati Uniti nel loro complesso, esse appaiono abbastanza logiche dal punto di vista dei beneficiari economici e geopolitici delle guerre e dei conflitti internazionali, vale a dire: (a) il complesso militare-industriale; (b) i militanti sionisti sostenitori del "grande Israele". I semi del disordine sono stati piantati circa 25 anni fa, con il crollo del Muro di Berlino. Poiché il fondamento logico del grande apparato militare cresciuto durante gli anni della Guerra fredda era la "minaccia del comunismo", i cittadini statunitensi hanno celebrato il crollo del Muro come la fine del militarismo e l'alba dei "dividendi della pace", con riferimento ai benefici che, si sperava, molti avrebbero goduto negli Stati Uniti a seguito di un riorientamento di parte del bilancio del Pentagono verso i bisogni sociali non militari. Ma mentre la maggior parte dei cittadini degli USA assaporavano i prospetti di quei "dividendi della pace" la cui venuta sembrava imminente, i potenti interessi coinvolti nell'aumento della spesa pubblica per ragioni militari e di sicurezza si sentivano minacciati. Non sorprendentemente, queste forze influenti si sono rapidamente mosse a fine di salvaguardare i loro interessi di fronte alla "minaccia della pace". Per soffocare le voci che chiedevano i "dividendi della pace", coloro che traevano guadagno da guerra e militarismo cominciarono a ridefinire metodicamente le "fonti di pericolo" successive alla guerra fredda nel più ampio contesto del nuovo mondo multipolare, prospettiva che va ben oltre la tradizionale "minaccia sovietica" del mondo bipolare ancorato alla Guerra fredda. La "minaccia" degli "stati canaglia" dell'islam radicale e del "terrorismo globale" avrebbe dovuto essere identificata come il nuovo nemico, in sostituzione della "minaccia comunista dell'era sovietica". Pubblicamente, la maggior parte delle riconsiderazioni del mondo dopo la Guerra fredda sono state sostenute dalle più alte gerarchie militari. Ad esempio, il generale Carl Vuno, capo di stato maggiore dell'Esercito degli Stati Uniti, così ha riferito ad una commissione della Camera dei rappresentanti nel maggio 1989: "Molto più problematica [di qualsiasi pericolo rappresentato dall'Unione Sovietica] è lo stato di pericolo che si sta sviluppando nel resto del mondo... In questo mondo sempre più multipolare, siamo di fronte alla possibilità di molteplici minacce provenienti da paesi e attori che stanno diventando sempre più sofisticati militarmente e politicamente più aggressivi" [2]. Il generale Colin Powell, allora capo dello stato maggiore unificato, allo stesso modo ha sostenuto davanti a una commissione del Senato che, nonostante il crollo dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti avrebbero avuto bisogno di continuare la crescita militare a causa di numerosi altri obblighi: "Con tutte queste sfide e le opportunità che si presentano alla nostra nazione, è impossibile per me credere che la smobilitazione o l'affossamento dell'esercito americano sia un percorso fattibile di azione per il futuro. Il vero 'dividendo di pace' è la pace stessa… La pace viene attraverso il mantenimento della forza" [3]. Mentre gli alti vertici militari, spesso indossando eleganti e sgargianti uniformi, hanno preso pubblicamente il centro della scena nella lotta contro il ridimensionamento del complesso militare-industriale, i militaristi civili, lavorando dentro e attorno al Pentagono insieme ai "think-tank" vicini ai "falchi", hanno tramato da dietro le quinte. Tra questi, l'allora segretario alla Difesa Dick Cheney, il suo sottosegretario Paul D. Wolfowitz, Zalmay Khalilzad, in seguito collaboratore di Wolfowitz e I. Lewis "Scooter" Libby, poi vice sottosegretario alla Difesa per la strategia. Questo gruppo di uomini, insieme ai loro opinionisti di riferimento e collaboratori (come Richard Perle, Douglas Feith, Michael Ladeen, Elliott Abrams, Donald Rumsfeld, William Kristol, John Bolton e altri) hanno lavorato diligentemente insieme al fine di scongiurare i tagli alla spesa militare del periodo successivo alla Guerra fredda. "Quello di cui avevamo paura era che la gente ad un certo punto dicesse: 'Portiamo tutte le truppe a casa e abbandoniamo le nostre posizioni in Europa'", ricordava Wolfowitz in un'intervista [4]. Sebbene questi organizzatori militari sono stati ufficialmente affiliati al Pentagono e/o all'amministrazione Bush (padre), essi anno altresì strettamente collaborato con un certo numero di associazioni e gruppi di interesse sciovinisti come l'Istituto per l'iniziativa americana [American Enterprise Institute], il Progetto per un nuovo secolo americano [Project for the New American Century] e l'Istituto ebraico per gli affari di sicurezza nazionale [Jewish Institute for National Security Affairs], creati a servizio sia della lobby degli armamenti che della lobby di Israele o di entrambi. Anche uno sguardo superficiale ai dati identificativi di questi think-tank - la loro appartenenza, le loro fonti finanziarie, le loro strutture istituzionali e altro - mostra che gli stessi sono stati creati per agire essenzialmente sui fronti istituzionali e per camuffare le incestuose relazioni politiche e di affari tra il Pentagono, i suoi principali contraenti, i vertici militari, la lobby israeliana e altre analoghe forze scioviniste dentro e attorno al governo [5]. Con uno sforzo attentamente calcolato al fine di ridefinire il mondo post-Guerra fredda come un mondo "più pericoloso", e di conseguenza predisporre una nuova "Strategia di sicurezza nazionale" [National Security Strategy] per gli Stati Uniti, questo team di pianificatori militari e think-tank militaristi ha prodotto un nuovo documento geopolitico militare per il periodo immediatamente successivo al crollo dell'Unione Sovietica, documento poi conosciuto come "Guida alla pianificazione della difesa" [Defense Planning Guidance] o "Strategia di difesa per gli anni '90" [Defense Strategy for the 1990s.]. Il documento, presentato alla Casa bianca nei primi anni 1990 ancor prima che al Congresso, era incentrato sul tema dei "punti turbolenti imprevedibili del Terzo Mondo" come nuove fonti di attenzione per la potenza militare degli Stati Uniti nell'era successiva alla guerra fredda: "Nella nuova era, prevediamo che il nostro potere militare resterà un sostegno essenziale per l'equilibrio globale… che le più probabili occasioni per l'utilizzo delle nostre forze militari possono non interessare l'Unione Sovietica mentre potrebbero verificarsi nel Terzo Mondo, dove potrebbero essere richieste nuove capacità ed approcci" [6]. Per rispondere alle "turbolenze nelle regioni più attive", la nuova situazione richiedeva una strategia di "deterrenza discriminata", una strategia militare che avrebbe dovuto "contenere e sedare i conflitti regionali o locali nel Terzo Mondo con velocità fulminea e travolgente efficacia prima che sfuggano di mano". Nel mondo successivo alla Guerra fredda, delle "molteplici fonti di minaccia", gli Stati Uniti dovevano essere pronti a combattere guerre di "bassa" e "media intensità". I concetti di bassa o media intensità non si riferiscono al livello di potenza di fuoco e alla violenza impiegata, ma alla scala geografica dei conflitti che va da una guerra totale alla più piccola guerra regionale capace di turbare il commercio internazionale o paralizzare i mercati globali. La "Strategia di difesa per gli anni '90" ha affrontato anche l'argomento del mantenimento e dell'espansione della "profondità strategica" dell'America, un termine coniato dall'allora segretario alla Difesa Dick Cheney. "Profondità strategica" conteneva una connotazione geopolitica, significando che, all'indomani del crollo del Muro di Berlino, gli Stati Uniti dovessero estendere la loro presenza globale - in termini di basi militari, installazioni di ascolto e/o di intelligence e tecnologia militare - in aree precedentemente neutrali o sotto l'influenza dell'Unione Sovietica. Le indicazioni politiche di queste profezie che si autoavverano erano inconfondibili: avendo così interpretato (e successivamente creato) il mondo successivo alla Guerra fredda come un luogo pieno di "molteplici fonti di minaccia per l'interesse nazionale degli Stati Uniti", i potenti beneficiari del budget del Pentagono sono riusciti a mantenere la spesa militare sostanzialmente ai livelli della Guerra fredda. I fautori di questo perdurante militarismo "si muovevano con notevole velocità per garantire che il crollo [dell'Unione Sovietica] non incidesse sul bilancio del Pentagono o sulla nostra 'posizione strategica' nel globo che avevano presidiato in nome dell'anti-comunismo" [7]. Per realizzare la così delineata "Strategia di sicurezza nazionale" nel mondo dopo la Guerra fredda, gli organizzatori dei piani militari americani hanno avuto bisogno di pretesti, il che ha significato spesso inventare o fabbricare nemici. I beneficiari dei dividendi di guerra a volte scoprirono "nemici e minacce esterne" per definizione, "decidendo unilateralmente quali azioni in tutto il mondo costituiscono atti di terrorismo", o qualificarono arbitrariamente alcuni paesi come "sostenitori del terrorismo" come ammise Bill Christinson, ex consulente CIA ormai in pensione [8]. Essi crearono anche attriti internazionali per mezzo di politiche insidiose volte a provocare rabbia e violenza, giustificando così la guerra e la distruzione, le quali attiveranno ulteriori atti di terrore e violenza, in modo da creare un circolo vizioso. Naturalmente, l'obiettivo della nefasta forza motrice che muove questa strategia autoavverante della guerra e del terrorismo è di mantenere gli elevati dividendi del business della guerra. Il defunto Gore Vidal ha satiricamente caratterizzato questa malvagia necessità dei signori della guerra e del militarismo di venire costantemente a contatto con nuove minacce e nemici come un "club del nemico del mese: ogni mese ci troviamo di fronte un nuovo nemico orrendo che dobbiamo colpire prima che ci distrugga" [9]. Una piccola guerra qui, una piccola guerra là, una guerra di bassa intensità nel paese x, e una di media intensità nel paese y - cinicamente descritte come "guerre controllate" - divengono strategie in grado di mantenere alti gli stanziamenti militari che scorrono nelle casse del blocco di interessi economici militari-industriali, senza causare un conflitto importante o di scala mondiale che possa paralizzare del tutto i mercati mondiali. In questo contesto - il crollo dell'Unione Sovietica, la "minaccia dei dividendi della pace" portata agli interessi del complesso militare-industriale e la conseguente necessità dei signori dei dividendi di guerra di trovare surrogati della "minaccia comunista" del tempo della Guerra fredda - il governo degli Stati Uniti affrontò gli attacchi efferati dell'11 settembre come un'opportunità per la guerra e le aggressioni e ciò non avrebbe dovuto essere una sorpresa per chiunque avesse familiarità con i malvagi bisogni del militarismo. Gli attacchi mostruosi sono stati trattati non come crimini ma come "guerra all'America". Una volta stabilito che gli Stati Uniti erano "in guerra", la crescita della spesa militare e le aggressioni militari imperialiste seguirono di conseguenza. Come ha ammesso Chalmers Johnson, alla fine la tragedia del 11 settembre è "giunta come la manna dal cielo per una amministrazione determinata a far decollare i bilanci militari" [10]. I campioni delle guerre a prelazione statunitense avevano già etichettato come "ostili" governi come quelli al potere in Iran, Iraq, Siria, Libia e Corea del Nord e come stati canaglia e/o sostenitori del terrorismo che richiedevano un "cambio di regime". Prima degli attacchi del 11 settembre, tuttavia, tali etichette demonizzatrici non erano evidentemente sufficienti a convincere il popolo americano a sostenere tali guerre e proprio la tragedia del 11 settembre è servita ai militaristi da pretesto giustificativo. Per tale motivo, il cambiamento di regime in Iraq, sarà seguito da cambiamenti simili di regimi "ostili" in molti altri paesi della regione e di tutto il mondo. Proprio come i beneficiari dei dividendi di guerra ed il complesso militare-sicuritario-industriale, vedono la pace e la stabilità come ostile ai loro interessi, così anche i militanti sionisti sostenitori del "Grande Israele" percepiscono la pace tra Israele e i suoi vicini arabi- palestinesi come pericolo per il loro obiettivo di ottenere il controllo sulla "terra promessa". La ragione di questa paura della pace è che, secondo una serie di risoluzioni delle Nazioni Unite, la pace significherebbe il ritorno di Israele ai suoi confini pre-1967, cioè il ritiro dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza. Ma poiché i sostenitori del "Grande Israele" non sono disposti a ritirarsi da questi territori occupati, essi sono quindi terrorizzati dalla pace, di qui i loro continui tentativi di sabotare gli sforzi di pacificazione ed i negoziati. Per lo stesso motivo, questi sostenitori visualizzano la guerra e i conflitti (o, come ha detto David Ben-Gurion, uno dei principali fondatori dello Stato di Israele, "l'atmosfera rivoluzionaria") come opportunità che favoriscono l'espulsione dei palestinesi, la semplificazione geografica della regione, ai fini di un'espansione del territorio di Israele. "Quello che è inconcepibile in tempi normali - sottolineava Ben-Gurion - è possibile in tempi rivoluzionari; e se in questo momento l'occasione è persa e ciò che è possibile non viene portato avanti, tutto un mondo è perduto" [11]. Facendo eco al malvagio pensiero per cui lo scioglimento e la frammentazione degli Stati arabi in un mosaico di gruppi etnici è possibile solo in condizioni di guerra e di conflitti socio-politici, il noto falco Ariel Sharon ha altresì sottolineato, il 24 marzo 1988, che "se la rivolta palestinese fosse continuata, Israele avrebbe dovuto fare la guerra ai suoi vicini arabi. La guerra - ha dichiarato - avrebbe fornito la 'circostanza' per l'espulsione di tutta la popolazione palestinese della Cisgiordania e di Gaza e anche dall'interno del territorio di Israele propriamente detto" [12]. Il punto di vista che la guerra avrebbe "offerto la circostanza" per l'espulsione dei palestinesi dai territori occupati si fondava sull'aspettativa che gli Stati Uniti avrebbero condiviso quest'idea e avrebbero di conseguenza sostenuto le pretese di espansione di Israele nel caso in cui fosse contemplata una guerra. L'aspettativa non è affatto stravagante o inusuale, dal momento che chi trae vantaggio dalla guerra e dalla spesa militare degli Stati Uniti rafforza tale aspettativa e volentieri ne fa un obbligo, di qui l'alleanza di fatto tra i gruppi di interesse economico militare-industriale e la lobby ebraica. Poiché gli interessi di queste due potenti lobby convergono sul fomentare la guerra e il conflitto politico in Medio Oriente, una sinistra e potente alleanza è stata forgiata tra loro, e ciò è inquietante perché la possente macchina da guerra degli Stati Uniti è ora completata dalle quasi impareggiabili capacità di pubbliche relazioni dei falchi della lobby pro-Israele negli Stati Uniti. La convergenza e/o interdipendenza degli interessi del complesso militare-industriale e quelle del sionismo militante sulla guerra e il conflitto politico in Medio Oriente è al centro del ciclo perpetuo di violenza nella regione. L'alleanza tra il complesso militare-industriale e la lobby israeliana non è ufficiale ed è un'alleanza di fatto; essa è sottilmente forgiata attraverso una complessa rete di potenti "think tank" militaristi come: l'Istituto per l'iniziativa americana [The American Enterprise Institute], il Progetto per un nuovo secolo americano [Project for the New American Century], il Comitato America-Israele per gli affari pubblici [America Israel Public Affairs Committee], l'Istituto per la ricerca sui media in Medio Oriente [Middle East Media Research Institute], l'Istituto di Washington per la politica del Vicino Oriente [Washington Institute for Near East Policy], il Forum per il Medio Oriente [Middle East Forum], l'Istituto nazionale per le politiche pubbliche [National Institute for Public Policy], l'Istituto ebraico per gli affari di sicurezza nazionale [Jewish Institute for National Security Affairs] e il Centro per le politiche di sicurezza [Center for Security Policy] Nel periodo immediatamente successivo alla guerra fredda, questi think tank militaristi con i loro operatori dentro e attorno al governo hanno pubblicato una serie di documenti politici, che chiaramente e con forza hanno sollecitato l'adozione di piani di cambiamento dei confini, piani per il cambiamento demografico e per il cambiamento di regime in Medio Oriente. Ad esempio, nel 1996, un influente think tank israeliano, l'Istituto per gli studi avanzati strategici e politici [The Institute for Advanced Strategic and Political Studies], ha promosso e pubblicato un documento politico intitolato "Un taglio netto: Una nuova strategia per la messa in sicurezza del Regno", il quale ha sostenuto che il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu "dovrebbe 'dare un taglio netto' con il processo di pace di Oslo e riaffermare il diritto di Israele in Cisgiordania e Gaza. Si presentava un piano in base al quale Israele avrebbe 'plasmato il suo ambiente strategico', iniziando con la rimozione di Saddam Hussein e l'installazione di una monarchia hashemita a Baghdad, come primo passo verso l'eliminazione dei governi anti-israeliani in Siria, Libano, Arabia Saudita e Iran" [13]. In una "Lettera aperta al Presidente" (Clinton), datata 19 febbraio 1998, alcuni think tank militaristi ed altri soggetti rappresentanti il complesso militare-industriale e la lobby israeliana, hanno raccomandato "una strategia politica e militare globale per abbattere Saddam e il suo regime". Tra i firmatari della lettera vi sono i seguenti personaggi: Elliott Abrams, Richard Armitage, John Bolton, Douglas Feith, Paul Wolfowitz, David Wurmser, Dov Zakheim, Richard Perle, Donald Rumsfeld, William Kristol, Joshua Muravchik, Leon Wieseltier e l'ex deputato Stephen Solarz [14]. Nel settembre 2000, un altro think tank militarista, chiamato Progetto per il nuovo secolo americano [PNAC, Project for the New American Century], ha pubblicato un rapporto, intitolato "Ricostruire le difese dell'America: strategia, forze e risorse per un nuovo secolo" che ha raffigurato esplicitamente un ruolo imperiale degli Stati Uniti in tutto il mondo. In esso si dichiara, per esempio: "Gli Stati Uniti hanno per decenni cercato di svolgere un ruolo più permanente nella sicurezza regionale del Golfo [Persico]. Mentre il conflitto irrisolto con l'Iraq fornisce una giustificazione immediata, la necessità di una presenza sostanziale delle forze americane nel Golfo trascende la questione del regime di Saddam Hussein". I sostenitori del rapporto includevano Richard Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Lewis Libby e William Kristol, che era anche co-autore del rapporto [15]. L'influente Istituto ebraico per gli affari di sicurezza nazionale [JINSA, Jewish Institute for National Security Affaire], ha anche occasionalmente rilasciato dichiarazioni e documenti politici che hanno fortemente sostenuto "cambiamenti di regime" in Medio Oriente. Il suo consigliere Michael Ladeen, il quale è stato anche ufficiosamente consulente dell'amministrazione Bush sulle questioni mediorientali, ha apertamente affermato che era giunta l'era della "guerra totale" indicando che gli Stati Uniti dovrebbero espandere la loro politica di "cambiamenti di regime" in Iraq così come in altri paesi della regione, come l'Iran e la Siria. "Nel suo sostegno fervente per la linea dura, a favore degli insediamenti e dei coloni, delle politiche anti-palestinesi in stile Likud in Israele, l'Istituto essenzialmente ha raccomandato che 'il mutamento di regime' in Iraq dovrebbe essere solo l'iniziale pedina del domino per rovesciare a cascata l'attuale domino in Medio Oriente" [16]. In breve, vi sono prove schiaccianti (e inconfutabili) che il disordine che imperversa in Medio Oriente, Nord Africa, Europa Orientale ed Ucraina non è causa delle "errate" politiche degli Stati Uniti e dei loro alleati, come molti critici e commentatori tendono a sostenere. E' piuttosto un effetto voluto delle politiche premeditate e accuratamente costruite e di volta in volta perseguite da una diabolica alleanza tra il complesso degli interessi economici militari-industriali e la lobby israeliana nel mondo post Guerra fredda. * Ismael Hossein-Zadeh è professore emerito di Economia alla Drake University Note [1] Extensive excerpts from my book, The Political Economy of U.S. Militarism, especially from chapters 4 and 6, are used in this essay. [2] Quoted in Sheila Ryan, "Power Projection in the Middle East," in Mobilizing Democracy, edited by Greg Bates (Monroe, Maine: Common Courage Press, 1991), p. 47. [3] Ibid., p. 46. [4] James Mann, "The True Rationale? It's a Decade Old," Washington Post, Sunday (7 March 2004), page B02. [5] For a detailed exposition of this dubious relationship see Ismael Hossein-zadeh, The Political Economy of U.S. Militarism (Palgrave-Macmillan 2007), chapter 6. [6] Chalmers Johnson, The Sorrows of Empire (New York, NY: Metropolitan Books, 2004), pp. 20-21. [7] Ibid., p. 20. [8] Bill Christison, "The Disastrous Foreign Policies of the United States," Counterpunch.org (9 May 2002), <http://www.counterpunch.org/christison0806.html>. [9] Gore Vidal, Perpetual War for Perpetual Peace: How We Got To Be So Hated (New York: Thunder's Mouth Press/Nation Books, 2002), pp. 20-1. [10] Chalmers Johnson, The Sorrows of Empire (New York, NY: Metropolitan Books, 2004), p. 64. [11] Quoted in Stephen J. Sniegoski, "The War on Iraq: Conceived in Israel," <http://vho.org/tr/2003/3/Sniegoski285-298.html>. [12] Ibid. [13] Ibid. [14] Ibid. [15] Ibid. [16] William D. Hartung, How Much Are You Making on the War, Daddy? (New York: Nation Books, 2003), p.109.
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