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10 Agosto 2013

La via difficile per la democrazia in Libia
di Davide Vannucci

Assassinii politici, bombe, la produzione petrolifera che precipita. Tripoli senza pace a due anni dalla rivoluzione. Ma i libici restano «ottimisti»

L’Egitto è sull’orlo della guerra civile, la Tunisia è in preda al caos, con il parlamento sospeso e una linea di demarcazione sempre più netta tra laici e islamisti. E la Libia? I radar occidentali difficilmente la intercettano, se non fosse stato per l’attentato di Bengasi, che l’11 settembre 2012 tolse la vita a quattro americani, tra cui l’ambasciatore Christopher Stevens, la comunità internazionale avrebbe già dimenticato di avere combattuto una guerra in Nordafrica e di avere defenestrato un regime.

La stabilizzazione del paese dovrebbe essere una priorità per l’Occidente. Eppure l’obiettivo appare lontano, se si legge l’ultimo rapporto di Human Rights Watch: cinquantuno omicidi politici solo nelle due città più “calde”, Bengasi e Derna. Assassinii che hanno preso di mira funzionari di polizia, membri della sicurezza interna, personale dell’intelligence militare, giudici, attivisti, come il noto avvocato Abdelsalam al Mismari, uno dei leader del fronte anti-islamista. A luglio c’è stata una netta recrudescenza delle violenze, che resteranno impunite, perché un sistema giuridico funzionante non è stato ancora messo in piedi.

La Cirenaica resta la regione più instabile, tra tendenze secessioniste ed inquietudine islamiste, ma un po’ ovunque le milizie che hanno rovesciato Gheddafi stentano ad accettare lo scioglimento nel nuovo esercito nazionale. Le vendette sono all’ordine del giorno, le armi, che viaggiano sull’asse Algeria-Tunisia-Libia-Egitto, sono una moneta piuttosto diffusa, lo stato di diritto è un miraggio. I fatti di Bengasi – dove tra l’altro, due settimane fa, una maxi-evasione ha liberato dal carcere mille persone – hanno spinto il premier Ali Zeidan a promettere un rimpasto di governo, ma la politica non sembra in grado di mantenere il controllo delle forze in campo. Shashank Joshi, analista del londinese Royal United Services Institute (Rusi) è pessimista: «La situazione è peggiorata e le prospettive non sono incoraggianti. Il problema è il rispetto della legittimità dello stato centrale da parte dei vari gruppi. Quanto più il governo consentirà questo stato delle cose, tanto più perderà terreno a favore delle milizie».

La paralisi rischia di estendersi all’economia. La produzione di petrolio ha toccato i minimi dalla guerra civile, a causa di una serie di scioperi iniziati a fine luglio, a cui si sono unite le proteste dei disoccupati. I due fondamentali terminal di Es Sider e Ras Lanuf sono chiusi, così come il porto di Zuetina. Se a pochi mesi di distanza dalla caduta di Gheddafi l’output petrolifero aveva raggiunto i livelli prebellici, 1,6 milioni di barili al giorno, adesso si è scesi a 600mila. L’oro nero copre il 95 per cento del reddito nazionale, per cui è piuttosto facile misurarne l’impatto. Le riserve monetarie libiche sono ancora sufficienti a garantire una certa tenuta, ma se la crisi dovesse prolungarsi le conseguenze potrebbero rivelarsi catastrofiche.

Il bilancio statale, 51 miliardi di dollari, è in buona parte assorbito dai sussidi e dai salari destinati ai veterani di guerra, e il premier ha chiesto un extra-budget di ulteriori 11 miliardi. Sarebbe vitale aumentare il flusso degli investimenti stranieri, ma le grandi compagnie sono caute, per via della sicurezza. L’affidabilità di Tripoli come fornitore sui mercati internazionali si è appannata, con il rischio che le major possano decidere di rivolgersi altrove.

Da altri punti di vista, la Libia ha lanciato segnali importanti. Nelle elezioni del 7 luglio 2012 l’Alleanza delle forze nazionali dell’ex premier Jibril – la forza più “liberale” – ha ottenuto un successo nettamente superiore a quello degli islamisti (anche se il Congresso è formato in buona parte da candidati indipendenti). C’è sempre maggiore insofferenza nei confronti dell’Islam politico e soprattutto verso il suo sponsor, il Qatar.

In un recente sondaggio pubblicato dalla rivista Foreign Affairs, l’81 per cento degli intervistati si è detto ottimista sul futuro del proprio paese e l’83 per cento si è dichiarato d’accordo con l’affermazione, dal sapore churchilliano, secondo cui «la democrazia ha i suoi problemi, ma è il migliore di tutti i regimi». A differenza di tunisini ed egiziani, che vedono la democrazia in termini di uguaglianza economica, i libici la identificano con altri concetti: libertà civili e politiche, a partire dal voto, diritti umani. Un programma ambizioso di governo, possibile solo quando il potere di Tripoli avrà conquistato piena legittimità.

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