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14 settembre 2018

San Tommaso d’Aquino e l’11 settembre
di Marco Galloni.

A distanza di 17 anni, la menzogna dell’11 settembre può continuare indisturbata a fare danni. Troppo esiguo il numero di persone disposte a testimoniare quella terribile verità.

«Che cos’è la verità?»: è la domanda che, secondo il Vangelo di Giovanni, Pilato rivolge a Gesù durante il processo (Gv 18,38). Gesù tace, sembra non rispondere. In realtà il Figlio dell’uomo risponde, solo che la sua risposta non è di tipo dialettico argomentativo bensì personale e performativo: la verità non è una teoria, una formula, una categoria politica né niente del genere, ma una persona capace di testimonianza e di coerenza. Nel caso di Gesù, come sappiamo, questa coerenza giunge fino alle estreme conseguenze: il Nazareno rimane fedele a se stesso e alla propria missione anche quando questo lo espone al rischio – anzi alla certezza – di una morte terribile.

La verità come corrispondenza tra intelletto e realtà 
Milleduecento anni dopo quella morte, uno dei più grandi teologi e filosofi della cristianità, san Tommaso d’Aquino, darà della verità una definizione destinata a diventare classica: la verità è «adaequatio intellectus et rei», vale a dire corrispondenza tra intelletto e realtà (S. theol., I q 21 a 2 c); se la “ratio” di una persona aderisce pienamente a una cosa così come essa è in se stessa, allora quella persona è nella verità, ha trovato la verità. Questa definizione ha tuttavia il limite di rimanere esclusivamente sul piano logico razionale e di valere solo per una parte della verità, di ciò che esiste realmente: non per la verità tutta intera. Per questo l’Aquinate, come ricorda Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazareth, formula altre due definizioni più rigorose ed estensive. La prima suona così: «La verità è nell’intelletto di Dio in senso vero e proprio e in primo luogo (“proprie et primo”); nell’intelletto umano, invece, essa è in senso vero e proprio, e derivato (“proprie quidem et secundario”)» (De verit., q 1 a 4 c). La seconda formulazione, che Ratzinger definisce «lapidaria», è quella che si avvicina di più a ciò che Gesù intende per verità: Dio è «ipsa summa et prima veritas», cioè “la stessa somma e prima verità” (S. theol., I q 16 a 5 c). Il senso di queste affermazioni è che gli uomini e il mondo, nei quali verità e menzogna sono pressoché inestricabilmente mescolate, diventano tanto più veri quanto più rispecchiano Dio, il senso della creazione, il Lògos eterno da cui sono scaturiti.

Se l’Aquinate fosse vivo oggi
Ma anche senza scomodare Dio – e per limitarci alla definizione classica della verità come «adaequatio intellectus et rei» – ci chiediamo, in occasione della diciassettesima ricorrenza dell’11 settembre: se Tommaso d’Aquino fosse vivo oggi, cosa direbbe degli attentati alle torri gemelle e al Pentagono? Per quanti sforzi facesse, l’Aquinate non riuscirebbe in alcun modo ad adeguare l’intelletto alla “res”, alla cosa: il suo intelletto si rifiuterebbe categoricamente di credere che due edifici alti oltre 400 metri, peraltro colpiti in punti molto diversi della struttura, possano collassare in quasi perfetta verticale e con tempi vicini alla caduta libera, che il WTC7 sia crollato da solo per solidarietà, che quell’oggetto sottile e velocissimo che trapassa il Pentagono sia un velivolo di linea, che gli aerei, quando precipitano, scavino buche come quella di Shanksville e via dicendo. San Tommaso d’Aquino ne dedurrebbe che quegli eventi – la “res”, la cosa in sé – devono necessariamente avere una spiegazione diversa da quella fornita dalla versione ufficiale.

La verità ha bisogno di noi
Tutto risolto, dunque? È così evidente che i fatti dell’11 settembre sono delle operazioni “false flag”, degli auto-attentati, che prima o poi tutti se ne renderanno conto? Purtroppo no, come sappiamo: la maggior parte delle persone non è dotata dell’acume e della coerenza di Tommaso d’Aquino. Il problema è che la verità non è qualcosa di puramente oggettivo che si impone alla coscienza umana. La verità nasce piuttosto dalla relazione tra un’oggettività e una soggettività e ha bisogno di noi per esistere: perché possa esservi «adaequatio intellectus et rei» occorre che vi sia il giudizio, quell’atto della ragione in cui si uniscono soggetto e predicato per formare frasi o pensieri del tipo «i corpi sono estesi» (giudizio analitico a priori) oppure «le torri gemelle sono state abbattute con la tecnica delle demolizioni controllate». Soltanto nel giudizio, ci ricorda ancora Tommaso (De verit., q 1 a 3), può esserci verità; se questo giudizio manca, propriamente parlando non c’è neanche verità.

Ecco perché, a distanza di 17 anni, la menzogna dell’11 settembre può continuare indisturbata a fare danni, a seminare guerra, morte e distruzione, a causare indicibili sofferenze a intere popolazioni innocenti: perché il numero di persone disposte a testimoniare la verità, quella terribile verità, rimane troppo esiguo. La verità, che è umile, discreta, inerme come Gesù davanti a Pilato, ha bisogno del nostro coraggio per agire nel mondo e rinnovarlo.