L’Orient le Jour

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31/10/2016

 

La prima messa senza fedeli nella città liberata di Qaraqosh

di Wilson Fache

reporter e corrispondente da Erbil

Traduzione e sintesi di Claudia Negrini.

 

La fuliggine spessa che copre i muri della chiesa non riesce a nascondere la scritta “Stato Islamico” dipinto a mano. Alcuni lastroni sono scoppiati per il calore, i banchi sono stati rovesciati e alcune parti della volta sono crollate, ma la cattedrale dell’Immacolata Concezione troneggia sempre nel centro di Qaraqosh. Dopo più di due anni di occupazione dei militanti di Daesh (ISIS), i canti religiosi armeni risuonano per la prima volta nella più importante città cristiana dell’Iraq.

“Questa chiesa è un simbolo per tutti noi. Vi dico onestamente che se non l’avessimo ritrovata così com’è, se fosse stata veramente distrutta, le persone non sarebbero rientrare a Qaraqosh”, assicura Mosignor Petros Mouché, arcivescovo siriano-cattolico di Mosul, Kirkuk e del Kurdistan. Accompagnato da quattro preti, l’arcivescovo sta tornando a Qaraqosh per dire la prima messa dopo la caduta della città e la fuga dei suoi abitanti. Nel suo sermone fa riferimento direttamente a coloro che hanno bruciato la città dov’è nato 73 anni fa.

“Siamo qui riuniti oggi per pulire questa città da ogni traccia di Daesh e dall’odio di cui siamo stati vittime. Non esistono uomini grandi e uomini piccoli, non esistono re e schiavi. Queste idee devono scomparire”, insiste, posando i suoi occhi azzurri su ogni membro del suo pubblico, composto a una manciata di combattenti cristiani e responsabili politici. Presto, il profumo d’incenso si mescola all’odore della cenere, quando, lungo la navata, i piedi fanno scricchiolare dei pezzi di legno bruciato.

Piena zeppa di soldati, ma priva dei suoi abitanti, la città, liberata poco più di una settimana fa, porta le stigmate di numerosi giorni di combattimenti feroci. Delle macchine completamente bruciate riposano su cumuli di macerie, di fronte a facciate di case crivellate dalle pallottole o annerite dalle fiamme. Gli spari si sentono ancora ogni tanto e il rombo degli aerei della coalizione non è mai troppo lontano. Padre Majeed Hazem, che ha spalle larghe, coperte da una lunga toga nera, sembra sicuro che questa prima messa segni “un nuovo inizio e dimostra al mondo la resistenza dei cristiani, malgrado le ingiustizie”.

Su una delle arcate della corte esterna della cattedrale, ci sono centinaia di bossoli per terra. Dall’altra estremità, dei manichini sfigurati stanno a mala pena in piedi: questo posto era usato come tirassegno dai militanti di Daesh. “Non rispettano nulla”, ringhia Imad Michael, che a 71 anni è entrato nelle Unità di protezione della piana di Ninive, milizia cristiana che fa da ufficio di polizia nella città fantasma. “In realtà, non sono dei musulmani, sono degli infedeli”, dice brandendo il suo kalashnikov.

“Molte organizzazioni umanitarie sono venute a trovarci per proporci di migrare in Libano, in Australia o in Canada, ma io ho rifiutato. Vogliamo che le nostre famiglie ritornino qui, vogliamo anche che chi è andato all’estero torni”, aggiunge Michael. Prima di tutto, però, le forze di sicurezza dovranno ripulire la città dalle bombe improvvisate che Daesh ha nascosto. Una chiesa vicina, dove sono impilati tubi metallici e sacchi di nitrato di potassio, era utilizzata come laboratorio per gli ordigni.

“In fondo al cuore, le persone voglio rientrare, ma vogliono che le infrastrutture vengano ricostruite prima. E prima di ricostruire le infrastrutture, la zona deve essere messa in sicurezza. Sappiamo che la città è piena di mine”, spiega Monsignor Mouché prima di riprendere la strada verso Erbil, dove vive, in esilio.

La strada che porta a Qaraqosh resta ancora chiusa ai civili, nonostante le proteste di qualche abitante che sperava di rientrare a casa. “Casa mia è stata bruciata, voglio solo rivederla”, sospira un padre di dieci bambini che non rientra a casa da più di due anni. “Proverò a tornare domani”, aggiunge, con un sorriso triste.

 

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