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Novembre 3, 2013
Viaggio a Delga, che gli unni di Allah hanno proclamato per due mesi capitale del califfato.
di Rodolfo Casadei
Tutto ciò che era cristiano è stato distrutto o saccheggiato. I fedeli hanno dovuto pagare la tassa di sottomissione come nel VII secolo agli estremisti islamici
Delga (Egitto). Ayoub è la traduzione araba di Giobbe. E che padre Ayoub Youssef abbia dovuto fare sua la pazienza tormentata del personaggio biblico è il minimo che si possa dire. Nominato parroco copto cattolico di Delga tre anni fa, ha profuso grandi sforzi nell’allestimento del centro parrocchiale. Non sono tanti i cristiani nella cittadina del governatorato di Minya incistata nel deserto orientale: 15 mila, in grande maggioranza ortodossi, su un totale di 150 mila abitanti. Ma i servizi della parrocchia sono aperti a tutti.
A padre Ayoub si debbono le aule dell’asilo, i computer dello spazio informatico, il campo sportivo attrezzato, la biblioteca da 3 mila titoli e soprattutto il salone da 100 posti con proiettori e riflettori ricavato nel pianterreno della palazzina dell’asilo. Tutto inaugurato a metà del 2012, tutto distrutto il 3 e 4 luglio 2013. Razziato, devastato, bruciato.
Il generale Abdel-Fattah al-Sisi non aveva ancora finito il suo discorso che sanciva la presa del potere da parte dei militari, che già una folla di 500 uomini armati di mazze ma anche di fucili si lanciava contro la parrocchia di san Giorgio come un drago desideroso di incenerire tutto quello che non avrebbe potuto rubare. E sì che prima di appiccare l’incendio che ha reso inagibili forse per sempre molti locali della struttura gli invasori di cose ne hanno fatte sparire. Più che i condottieri islamici del passato, che pure razziarono e profanarono applicando regole del saccheggio condivise dagli eserciti di tutte le religioni, gli assalitori di Delga fanno venire in mente un altro riferimento dell’immaginario collettivo: Alì Babà e i 40 ladroni.
La lista dei beni che hanno rubato comprende 4 computer da tavolo e un pc, 2 stampanti, 3 letti, 2 armadi, 6 divani, 4 riflettori, un organo, un televisore, una pompa idraulica e il suo motore, una lavatrice, una fotocopiatrice, un frigorifero, una cucina a gas, un videoregistratore, un proiettore e il suo schermo, uno scaldabagno e la sua tubatura, 100 sedie, tutto l’impianto di amplificazione, tutti i giocattoli dell’asilo infantile e in più centraline e prese elettriche, contatori, infissi, rubinetterie. E una madonna di gesso a grandezza naturale: hanno dato alle fiamme quadri di soggetto sacro appesi a un muro del cortile che confina col perimetro di una moschea, ma la statua della Vergine l’hanno portata via, chissà dove.
Quel che resta è un panorama desolato di residui e scarti, di fogli strappati e sparsi e di libri calcinati, di prese elettriche non asportabili fracassate e di sanitari fatti a pezzi, di pareti annerite e di soffitti pericolanti. Raccolgo dal mucchio un Vangelo in arabo metà strappato e metà bruciato. Padre Yacoub mi dà il permesso di portarlo via, come ricordo del martirio della sua parrocchia. «Hanno incendiato anche la biblioteca e così hanno distrutto anche un Corano e decine di opere classiche di letteratura islamica», precisa il parroco scuotendo la testa. Ma è difficile che folle islamiche scendano in piazza ai quattro angoli del mondo per protestare contro l’evidente profanazione…
La storia di Delga è diversa da quella di tutti gli altri assalti a strutture ecclesiali in Egitto. Altrove quasi tutto è successo fra il 14 e il 17 agosto, come rappresaglia per lo sgombero con le maniere forti delle piazze occupate da settimane dai Fratelli Musulmani; qui l’attacco è arrivato con quaranta giorni di anticipo ed è sfociato in una vera e propria insurrezione, che ha trasformato per ben 72 giorni la cittadina in una enclave extraterritoriale, tanto che gli insorti hanno proclamato il califfato e hanno preteso il pagamento della jizah, la coranica tassa di sottomissione che cristiani ed ebrei devono versare per vivere nei territori governati dai musulmani.
Tra le macerie
Padre Ayoub spiega così i primati di Delga: «Questa è la cittadina più povera dell’Egitto. L’analfabetismo supera il 70 per cento (la media egiziana è del 48 per cento fra gli uomini e del 53 fra le donne, ndr). Dopo l’agricoltura, la professione più diffusa è quella del robivecchi: raccolgono stracci e metalli qui e nei paesi intorno e li vanno a vendere a Minya. Non c’è neanche un ospedale, l’acqua pubblica non è potabile, i giovani si fanno crescere la barba e le famiglie mettono il niqab alle figlie perché salafiti e wahabiti dell’Egitto e del Golfo li pagano per questo. A comandare sono 70 famiglie, e fra queste le più importanti sono sostenitrici accanite di Gamaa Islamiya».
Cioè di un gruppo più radicale dei Fratelli Musulmani e ad essi alleato. A ciò si potrebbe aggiungere che la parrocchia cattolica è diventata bersaglio del furore della folla perché quel giorno ha perduto la vita un manifestante musulmano e delle sua morte è stata incolpata una famiglia di copti cattolici. Almeno venti famiglie della stessa confessione sono dovute fuggire in quell’occasione e le loro case sono state capillarmente razziate e date alle fiamme. La chiesa di san Giorgio invece si è salvata per motivi logistici: è incastonata fra edifici abitati da musulmani, raggiungibile solo percorrendo un vicolo sterrato a forma di elle che sfocia direttamente, senza alcun portone, nell’arco di destra del presbiterio. Incendiarla voleva dire bruciare le case di decine di musulmani.
Gli islamici radicali hanno cessato di esigere il pagamento della tassa di sottomissione (fra le 5 e le 10 mila sterline egiziane a seconda della famiglia, cioè fra i 500 e i 1.000 euro, cifre molto onerose per i livelli di reddito locali) il 14 agosto, la data della seconda ondata di attacchi. Stavolta a subire il saccheggio e gli incendi sono state, oltre a 40 famiglie ortodosse che hanno dovuto abbandonare la località, le strutture della Chiesa copta ortodossa, tutte raccolte nello stesso recinto murato: si tratta delle tre chiese di san Giorgio, sant’Abramo e della Vergine Maria e di un imponente fabbricato a ferro di cavallo di recente costruzione, una cinquantina di appartamentini su due piani destinati a ospitare i partecipanti a ritiri ed esercizi spirituali. L’edificio più grande fra quelli devastati è anche il più recente.
L’ampia chiesa di san Giorgio, costruita cinquant’anni fa, è stata non solo spogliata di tutti i suoi arredi e poi data alle fiamme: sono state asportate persino le grandi piastre di marmo del pavimento e i rivestimenti marmorei delle colonne interne! Ma l’esperienza più straziante è la visita a quel che resta della chiesa della Vergine Maria, un gioiello architettonico del IV-V secolo composto di una serie di cupole maggiori e minori che sovrastano perimetri murari seminterrati. Qui gli invasori non si sono limitati al loro consueto mestiere di portare via tutto, cioè icone, statue, portoni, grate, infissi e marmi. Hanno pure avuto l’idea di far collassare la maggior parte delle cupole, tanto che ora dall’interno la chiesa pare essere stata colpita da una pioggia di obici che l’hanno crivellata.
Hanno scavato dappertutto sotto i pavimenti alla ricerca di tesori archeologici da trafugare, col solo risultato di portare alla luce le ossa di decine di monaci e vescovi qui sepolti da secoli; mani pietose hanno raccolto i resti sparsi in quattro grandi ceste. In un angolo giace un bassorilievo di epoca romana che, non essendo trasportabile, è stato schiantato, ma il vandalismo peggiore di tutti è senz’altro quello che è stato riservato a un’antichissima colonna: il Venerdì Santo la sua superficie, stando alle testimonianze copte, da secoli trasudava acqua e olio. È stata puntigliosamente scalpellata su tutta la sua superficie, al palese scopo di rendere impossibile il miracolo.
Fuori, su una una parete del pensionato saccheggiato, i copti hanno vergato due scritte col carbone: “Dio è qui” e “Dio è carità”. Dentro alla sala che sta oltre quella parete, invece, si legge sul muro una scritta lasciata dai saccheggiatori. È la prima sura del Corano: “Non c’è altro Dio all’infuori di Dio”.
L’impotenza della polizia
I 150 poliziotti di stanza nella cittadina non hanno fatto nulla per impedire le razzie e la presa del potere da parte degli insorti. Se ne sono rimasti rintanati nel loro commissariato. Il 16 settembre l’esercito ha messo la parola fine al califfato di Delga, catturando 200 islamisti in armi, mentre altri 300 si davano alla macchia. Ma in città è rimasta l’ala politica del movimento, che organizza proteste quotidiane. Mentre nelle altre città egiziane di solito le manifestazioni dei Fratelli Musulmani avvengono nel pomeriggio del venerdì (sfidando il coprifuoco che ufficialmente inizia quel giorno alle ore 19), a Delga tutte le sere alle 21 la folla si riunisce nella piazza principale e invoca il ritorno del califfato e la restaurazione di Morsi.
Tutte le strade di Delga sono sterrate e tortuose, non si vede nemmeno un metro di asfalto, e la cosiddetta piazza non fa eccezione. Un rettangolo irregolare cosparso di rifiuti (come il resto dell’abitato), con qualche albero con l’aiuola intorno rincalzata, unici testimoni di una parvenza di cura dello spazio pubblico. «Dopo gli attacchi molti musulmani sono venuti a esprimermi il loro rincrescimento, ma non si sentono in grado di opporsi ai violenti», spiega padre Ayoub.
«Qua Gamaa Islamiya e Fratelli Musulmani sono sempre stati forti, ma hanno cominciato a comportarsi in modo minaccioso con i cristiani e coi musulmani che non si allineavano con loro solo dopo l’elezione di Morsi. Con tanti musulmani locali, compresi gli imam delle moschee, siamo sempre andati d’accordo, e venerdì ci incontreremo con loro a Minya per discutere la convivenza nella nostra città dopo quello che è accaduto. E che ancora accade: perché la situazione non è per nulla tranquilla».
No, la situazione non è tranquilla. Fra il 30 giugno e il 20 ottobre a Delga e dintorni sono stati rapiti cinque cristiani, fra i quali un bambino di 4 anni per la cui liberazione sono state chieste 70 mila sterline. Chi siano i rapitori, tutti qui lo sanno. La mattina stessa della nostra visita, nella vicina cittadina di Deir Mawas è stato sequestrato il direttore dell’ospedale locale, l’unico della regione, un medico cristiano.
Per lui sono stati chiesti ben 5 milioni di sterline. Se si allarga il discorso all’intero governatorato di Minya, i cristiani rapiti e liberati al prezzo di onerosi riscatti dall’inizio dei disordini sono 36. Non tutti vittime degli islamisti: pare che le milizie locali del tempo di Mubarak si siano riciclate in questa forma di attività criminale, caratteristica di tutti i paesi arabi nei momenti di crisi dello Stato centrale (Iraq e Siria insegnano).
Asyut e Minya sono i due governatorati dove il maggior numero di strutture cristiane sono state attaccate e distrutte per tre ragioni convergenti fra loro: sono le due aree con la maggiore concentrazione di popolazione cristiana (20 per cento contro la media nazionale del 10) e sono anche quelle dove più numeroso è l’insieme formato da salafiti, Fratelli Musulmani e Gamaa Islamiya; infine, sono le due regioni più povere dell’Egitto. La miscela perfetta per la deflagrazione dell’agosto scorso e le tensioni odierne.
«Qui in città gli attacchi sono arrivati quasi tutti da sud, cioè dalla cintura dei quartieri più poveri dove gli islamisti sono fortissimi», spiega Nady Abd El Saied Khalil, responsabile delle opere sociali dell’arcivescovado copto cattolico di Minya. «Sono venuti verso il Nilo e hanno attaccato le chiese ortodosse di Mar Tadros e Mar Mousa. A essi va aggiunto il quartiere centrale di Abu Hilal, che è diventato il focolaio dell’estremismo in città perché lì opera da anni una moschea di Gamaa Islamiya. La prima chiesa bruciata a Minya è stata quella evangelica del quartiere, poi hanno assalito il centro gesuita, benché ospiti opere educative e sociali che servono un gran numero di musulmani».
«Ho capito la strategia dei Fratelli Musulmani osservando come si comportavano gli assalitori del 14 agosto», spiega il padre Bimal Kerketta, direttore della scuola gesuita di Minya. Lui ha avuto l’inaudito coraggio di mettersi a discutere coi razziatori quel giorno.
Nessuna pietà
«Dovevano evitare di causare perdite di vite umane ma razziare o distruggere tutto ciò che aveva a che fare coi cristiani. Dovevano pure evitare di causare danni alle proprietà dei musulmani, perciò si sono astenuti dall’incendiare certi negozi di cristiani che hanno razziato, perché il fuoco si sarebbe esteso ai musulmani confinanti. Ma avevano l’ordine di danneggiare quanto più possibile le opere sociali promosse e gestite da cristiani, anche se gli utenti dei servizi in maggioranza erano musulmani».
Una strategia di cui rende scandalosa testimonianza una catasta di carrozzine per portatori di handicap che i 200 assalitori del centro gesuita hanno distrutto. Non hanno discriminato fra disabili cristiani e musulmani: li hanno danneggiati tutti indistintamente.