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Ottobre 27, 2013

In mezzo alla più grande persecuzione anticristiana dal XIV secolo, c’è una speranza. Reportage dall’Egitto
di Rodolfo Casadei

Ovunque rovine di chiese, il popolo egiziano delle periferie non ne può più: né degli islamisti, né del loro “amico” Obama. Ma la catena umana di musulmani che difendono i cristiani è uno spettacolo

Reportage da Asyut (Egitto). La galabia di un colore indefinito chiazzata del sangue del capretto che ha sgozzato stamattina presto, Fehmy sorride cerimonioso e ci invita a varcare la soglia della sua modesta casa. Padre Danial si schermisce, respinge gentilmente l’invito sorridendo a sua volta, mentre il nugolo dei figli del padrone di casa scruta incuriosito la lunga tunica nera del sacerdote. «Non voglio procurargli problemi», sussurra a bassa voce. «Se gira la voce che mi ha invitato dentro casa alla celebrazione dell’Eid al-Ahda, alla presenza delle donne di casa, qualcuno potrebbe avere da ridire. La sua famiglia e altre due che abitano adiacenti alla mia chiesa hanno già stiracchiato le regole abbastanza: ciascuna ha donato alla parrocchia uno degli animali che ha macellato. Canonicamente vanno donati ad altri musulmani».
Fehmy è uno delle migliaia di musulmani che fra il 14 e il 17 agosto scorso, quando i Fratelli Musulmani e i loro fiancheggiatori hanno reagito allo sgombero violento delle due piazze del Cairo che occupavano da settimane attaccando per rappresaglia edifici cristiani in tutto il paese, sono scesi per strada non per partecipare alle devastazioni, ma per impedirle. Qui a Donka, paesone di 70 mila abitanti alle porte di Asyut, i cristiani sono appena il 6 per cento della popolazione e dispongono di due chiese, una copta ortodossa e una copta cattolica intitolata a san Giorgio. Tutti gli edifici e i negozi che circondano la chiesa cattolica o le sono adiacenti, sono abitati da famiglie o negozianti musulmani. Sono loro che hanno formato una catena umana attorno alla parrocchia e un sistema di vedette armate, e con ciò hanno protetto l’edificio dalle bande di estremisti che per tre giorni hanno scorrazzato senza che le forze dell’ordine, numericamente insignificanti rispetto al numero degli assalitori, fossero in grado di opporre la pur minima resistenza.
Siamo nell’Alto Egitto, polizia ed esercito non sono equipaggiati ed addestrati come al Cairo o ad Alessandria, il territorio non è veramente sotto il controllo dello Stato: ogni famiglia ha in casa un’arma da fuoco per difendersi dai malintenzionati. Alcune famiglie di notabili musulmani ne hanno molte più di una. Si calcola che estremisti e fanatici ispirati dai Fratelli Musulmani (ma numerosi sono gli egiziani che parlano di manifestanti violenti pagati 800 sterline locali per agire e di criminali aggregati con la prospettiva di razzie) abbiano in pochi giorni distrutto o danneggiato 62 chiese e altri 15 edifici (scuole, librerie, curie) di proprietà ecclesiastica in tutto l’Egitto, per non parlare delle centinaia di negozi e di auto appartenenti a cristiani che sono stati dati alle fiamme (i primi previo saccheggio).
Qualcuno ha scritto che si è trattato della più grande ondata di persecuzione anticristiana in Egitto dal XIV secolo. Non ci sono dubbi. Ma c’è anche un altro scoop, di cui pochi hanno dato notizia: un numero analogo al primo di chiese e scuole cristiane si è salvato dalla devastazione grazie alla solidarietà popolare in quartieri e villaggi. E nella maggior parte dei casi il grosso dei volontari che hanno difeso i luoghi di culto e le opere dei cristiani copti ortodossi, cattolici e protestanti erano musulmani.

Simboli religiosi nascosti
Un po’ dappertutto sono girate le immagini di poliziotti e civili di Sohag (una località non molto distante da Asyut) schierati a difesa della chiesa ortodossa di san Giorgio, dalla quale hanno allontanato i vandali che l’avevano seriamente danneggiata, e poi prosternati in preghiera secondo il rito musulmano. Sohag (che ha 250 mila abitanti) è il caso più noto e spettacolare di solidarietà islamo-cristiana di fronte agli attacchi orchestrati dai Fratelli Musulmani, ma non è affatto l’unico. A Nasareya, sull’altra sponda del Nilo di fronte ad Asyut, i cristiani sono molto pochi e i poliziotti in grado di tenere l’ordine pure: nei giorni del terrore a garantire l’incolumità di cose e persone ci ha pensato la famiglia più importante (musulmana) del quartiere, quella che aspira a un posto in parlamento per il primogenito del patriarca. «Hanno organizzato quattro gruppi di civili armati con kalashnikov e altre armi e li hanno collocati a difesa di luoghi e strutture che potevano essere assalite», dice padre Ignazio, il giovane parroco. «Non solo della mia chiesa di santa Maria, ma del posto di polizia, che sarebbe stato sopraffatto e svaligiato di tutte le armi se la milizia di quartiere non lo avesse difeso». Insomma, i musulmani della strada hanno dovuto difendere non solo le chiese, ma… persino i poliziotti!
Detto questo, nessuno si faccia illusioni: al di là dei brillanti esempi di solidarietà islamo-cristiana, la situazione generale è tutt’altro che rosea. Gli atti intimidatori e dimostrativi dei sostenitori dell’ex presidente Morsi, deposto e arrestato dai militari lo scorso 3 luglio, proseguono, più in provincia che nella capitale. La notte prima del nostro arrivo ad Asyut un gruppo di negozi proprietà di cristiani è stato saccheggiato e poi completamente devastato da un incendio doloso a Omar el Sharq, nel cuore della città, a poche centinaia di metri da due blindati dell’esercito. Tre giorni prima due lattine ripiene di esplosivo erano state ritrovate all’interno di una scuola pubblica adiacente al complesso scolastico gestito dai francescani (ben 1.600 studenti, cristiani per il 90 per cento, dalle elementari al liceo scientifico).
Tutte le insegne di negozi ed esercizi commerciali che che rimandano al cristianesimo sono state rimosse, per non attirare l’attenzione degli estremisti. Nei pressi di Deir Dronka, sulla strada che collega Asyut a Sohag da una parte e a Minya dall’altra, sorge un largo edificio circondato di verde dall’inconfondibile profilo alberghiero. Si tratta della Casa Madonna del divino Amore, la più grande struttura d’accoglienza della Chiesa cattolica copta ad Asyut, destinata a ospitare ritiri e feste di matrimonio. Ma nessuna indicazione aiuta a capire che mette a disposizione un ottimo servizio di ristorante e 400 posti letto: la grande insegna al neon, punto di riferimento notturno per gli automobilisti, è stata per prudenza smontata e deposta al suolo. Nessuna precauzione è servita a salvare la vita di quei due giovani cristiani che il 10 settembre scorso sono stati falciati da colpi di mitra sparati da un’auto in corsa davanti alla curia e alla cattedrale copta cattolica del Divino amore, dove noi veniamo ospitati. Sempre in centro città, la bella chiesa di sant’Antonio del deserto di padre Matteos, che ospita tre classi di catechismo in un pomeriggio dei tre giorni di festa dell’Eid al Ahdra, è tutta intatta grazie al gruppo di autodifesa del quartiere, quasi per intero cristiano. Ma sulle mura perimetrali esterne spiccano due scritte con lo spray nero: “Stato islamico” e “Al-Sisi assassino”.
È andata molto peggio alla chiesa di santa Teresa, santuario francescano a due isolati di distanza dalla parrocchia di sant’Antonio. È la struttura cristiana più danneggiata di tutta la città. Gli assalitori hanno distrutto alcune statue di santi all’interno della chiesa, profanato il Santissimo, rubato il calice e la patena e appiccato un inizio di incendio. Le fiamme hanno invece completamente carbonizzato la sacrestia, gli uffici di segreteria, l’edicola dei souvenir e alcune auto nel cortile. «La gente di città non è coraggiosa e incline alla prova di forza come quella dei villaggi e di certi quartieri», commenta malinconicamente padre David, direttore del vicino complesso scolastico francescano mentre guarda dalla finestra le vie transennate attorno alla chiesa e i due blindati con tanto di mitragliatrice pesante sulla torretta. «Qui gli abitanti sono quasi tutti cristiani, ma sono gente pacifica e sono stati presi alla sprovvista».
La spiegazione dei fatti, in realtà, è più articolata. I motivi che hanno spinto tanti musulmani a difendere le chiese e a chiedere e quindi approvare la deposizione del presidente proveniente dalle file dei Fratelli Musulmani, scendendo in strada il 30 giugno scorso in 17 milioni, sono essenzialmente due. Il primo è rappresentato dai buoni rapporti che molti parroci, soprattutto copti cattolici, hanno saputo creare negli ultimi anni con i maggiorenti musulmani di quartieri e villaggi. Storiche diffidenze che sfociavano in violenze sono state superate grazie all’arte del buon vicinato. «Per undici anni al posto della mia chiesa c’era un immondezzaio: non volevano lasciarci ricostruire il precedente edificio nonostante avessimo il permesso», spiega padre Danial. «Quando tre anni fa sono arrivato io, ho cominciato a visitare tutte le famiglie, a portare gli auguri per le feste musulmane, a fare le condoglianze per i lutti e ad accompagnare i malati all’ospedale con la mia auto. Il risultato di questo atteggiamento, che il nostro vescovo chiede a tutti i parroci, lo abbiamo visto il 14 agosto».

L’incapacità amministrativa
Il secondo motivo riguarda il rapporto fra politica e religione. Morsi ha deluso per l’incapacità amministrativa e per la faziosità delle nomine nei posti di potere, non ha preso provvedimenti di nessun tipo contro la crisi economica ed è apparso ai più responsabile della penuria di carburante e dei black-out elettrici (probabilmente organizzati ad arte dai suoi avversari negli apparati statali), ha allarmato l’opinione pubblica col decreto con cui si è reso immune a qualunque sentenza della Corte costituzionale e con le dimissioni in serie dei non islamisti dal suo governo e dall’assemblea costituente. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata un’altra.
«I miei colleghi musulmani hanno cominciato a ripetermelo: “Questo Morsi crede di essere musulmano solo lui! Ci vogliono costringere a praticare l’islam al modo dei Fratelli Musulmani!”». Akim è un italo-egiziano cristiano che lavora in una banca in un quartiere satellite del Cairo. «La gente si è arrabbiata per davvero quando i Fratelli Musulmani hanno cominciato a dire che chi non appoggiava il presidente non era un vero musulmano». Padre Lodato, un francescano egiziano del convento cairota del Muski che preferisce esser conosciuto col suo nome italiano, conferma: «L’egiziano è religioso, e i Fratelli Musulmani hanno giocato su questo: “votate per noi”, hanno detto, “siamo bravi musulmani, gente onesta”. Quando gli egiziani si sono accorti che agivano solo nel loro interesse, che avevano usato la religione per conquistare il potere politico e metterlo al servizio della loro setta, si sono arrabbiati e si sono ribellati». Da questa percezione è nata anche l’accusa più grave che oggi tutti, cristiani e musulmani, militari e gente semplice, fanno ai Fratelli Musulmani: «Avevano deciso di cedere il controllo del Sinai ai loro fratelli palestinesi di Hamas. In teoria per combattere meglio Israele, ma in realtà per fare un piacere a Obama e a Israele: il Sinai sarebbe diventata la terra dei palestinesi, per poter lasciare Israele tranquillo. È la vecchia idea di Kissinger di dare ai palestinesi altre terre arabe».

Al diavolo gli aiuti americani
È incredibile il tasso di ostilità nei confronti del presidente americano che la maggioranza degli egiziani ha sviluppato in pochi mesi. Si sente assolutamente di tutto contro di lui. I cristiani si dicono certi che si tratti di un musulmano che si è finto cristiano per poter vincere le elezioni. I musulmani affermano che si tratta di un complice dei Fratelli Musulmani, come dimostrerebbero i traffici del fratello per parte di padre Malik, secondo i detrattori curatore degli investimenti finanziari internazionali dei Fratelli Musulmani e l’ingresso di quattro o cinque non meglio precisati consiglieri seguaci dell’islam politico nei ranghi della Casa Bianca.
Mentre negozi e bancarelle del Cairo cominciano ad affollarsi di poster del ministro della Difesa Abdel-Fattah al-Sisi dall’aria presidenziale, qua e là spuntano immagini di Obama con la barba bianca e sottile tipica delle guide dei Fratelli Musulmani. Al-Yawm as-Sabi, un settimanale che fa campagna per al-Sisi presidente, ha commentato in prima pagina la sospensione degli aiuti militari americani con un “Al diavolo gli aiuti americani!”. Che fa il verso a un famoso “Toz fi Masr!”, cioè “Al diavolo l’Egitto!”, pronunciato dall’allora guida dei Fratelli Musulmani Mohammed Akif nel corso di un’intervista. Più chiaro di così.

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