Fonte: L'intellettuale dissidente

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20/06/2016

 

Quel che resta della Religione

di Matteo Mollisi

 

Il dibattito postmoderno sulla religione si differenzia dal passato già dalle sue fondamenta. Esso, infatti, non prende più le mosse alla domanda sull’esistenza di Dio, e lo spazio fondamentale nel quale esso si dispiega è ormai quello del mercato immaginato da Nietzsche, nel quale un uomo folle, recando in mano una lanterna accesa in pieno giorno, annunciava la dipartita divina. Ma l’annuncio nietzschiano della morte di Dio – ben lungi dall’essere consumato su un vacillante e anacronistico altare di un visionario, ma anzi ben saldo sugli imponenti pilastri ottocenteschi della sinistra hegeliana e del positivismo, e prima ancora sulle fondamenta gettate dall’Illuminismo – non ci consegna nulla di simile ad una certezza, schiudendoci un presente nel quale i quesiti sono moltiplicati, e l’orizzonte cancellato. La religione è adesso una carcassa ambigua, rifratta e sfigurata nella secolarizzazione che le è destinata. Tuttavia, essa non cessa di reclamare la propria autorità, rinnegando e dissimulando l’originaria natura dualista (chi, oggi, parla ancora di aldilà?) e vantando presunti meriti, specialmente in campo morale, che la Storia non potrebbe confutare, bensì soltanto avvalorare (la Chiesa “maestra di umanità”). Quasi nessuno osa avvicinarsi a questa maestosa reliquia, nessuno ha l’ardire di decifrarne i lineamenti nella squallida luce della contemporaneità. La domanda postmoderna sulla religione, dunque, diviene: che cosa dobbiamo farcene?

Thomas Huxley, oratore personale di Charles Darwin (che non amava parlare in pubblico), inventò il termine “agnostico” essenzialmente come schermo sociale per mascherare il proprio ateismo, dissimulando in questo modo il proprio orientamento – certamente controcorrente nel contesto dell’Inghilterra vittoriana, anglicana e conservatrice – dietro uno scetticismo prevalentemente di facciata, quello scetticismo che per definizione dovrebbe contraddistinguere un agnostico rispetto ad un ateo. Lo stesso Darwin avallò il discrimine terminologico, definendosi pubblicamente agnostico – salvo poi redigere privatissime un saggio di undici pagine, pubblicato postumo, volto a confutare ogni possibile argomento pro religionem, nonché dichiararsi ateo a tutti gli effetti nelle pagine personali delle sue memorie autobiografiche. La questione cambia radicalmente per quanto riguarda i darwinisti contemporanei, figli di un altro contesto storico e forti della tirannia incontestabile che la scienza esercita, indiscutibilmente, a spese della religione. Richard Dawkins, autore de Il gene egoista, caposaldo del neoevoluzionismo, in una ipotetica scala di ateismo – da 0 (assolutamente credente) a 7 (assolutamente ateo) – si è dichiarato ateo al livello 6.9. Dawkins è uno dei principali esponenti del cosiddetto Nuovo Ateismo, espressione che designa una comunanza di vedute tra alcuni uomini di scienza e filosofi contemporanei, concordi nel ritenere l’ateismo non solo una scelta personale, ma anche una vera e propria presa di posizione necessaria a livello pubblico. La religione sarebbe, infatti, un male a tutti gli effetti, una zavorra per l’umanità, in quanto ostacolerebbe il progresso di quest’ultima in molteplici ambiti, tra i quali certamente spicca quello scientifico (basti pensare alla polemica sulla persistenza del creazionismo nelle scuole degli Stati Uniti). L’ateismo assurge dunque a vero e proprio engagement; esso viene riconosciuto come un impegno, un compito da perseguire con ostinazione alla maniera di un ideale politico o umanitario, e non una scelta epicurea da confinare nei modesti spazi della propria individualità.

Dawkins, uno dei personaggi più attivi nel contesto di questa “missione atea”, non è l’unico nome celebre ad essere stato associato a questa tendenza. Michel Onfray, filosofo francese sostenitore di un materialismo e di un edonismo piuttosto radicali, ha scritto di recente un controverso Trattato di Ateologia. Altri pensatori considerati vicini a questo orientamento di pensiero sono il filosofo della mente americano Daniel Dennet, il noto astrofisico Stephen Hawking, e infine il nostro Piergiorgio Odifreddi. Un dibattito di questo genere sulla religione, capace di mettere in campo prospettive che spingono ad estrometterla in toto, derubricandola a mero fatto alienante, e privandola di qualsiasi componente valoriale, appare certamente attuale in un’epoca nella quale la principale minaccia esterna per l’occidente è rappresentata da una forma di terrorismo religioso che affonda le sue radici in uno stato, quello islamico, che si presenta nella forma di una teocrazia che l’occidente ritiene di aver superato da secoli. Dawkins e compagni non hanno mancato di prendere posizione. Nell’ottica del nuovo ateismo, poco importa che il Corano inneggi o meno al Jihad in forma diretta, esplicita: implicitamente il conflitto, in quanto forma specifica di un’alienazione complessiva, è già incluso nella religione stessa. Il cristianesimo rappresenterebbe una forma secolarizzata, e dunque in parte emancipata, di ciò che nel corso della Storia è opportuno relegare a tappa da superare. Tuttavia, come è facile comprendere, esso non può certamente rappresentare un motivo di vanto per l’occidente, come in molti hanno sostenuto; al contrario, esso deve apparire come un residuo incriminato di una civiltà che si guarda allo specchio, rivedendo nel suo corrispettivo non ancora emancipato, l’Islam religioso, il contesto esecrabile che corrisponderebbe ad una sorta di medioevo. Combattere la religione con la religione, vantando una presunta superiorità del cristianesimo in quanto religione dell’amore in contrapposizione al culto dell’odio rappresentato dall’Islam, non sarebbe dunque una risposta esaustiva. La vera salvezza dell’occidente corrisponde alla sua emancipazione da quella forma di alienazione costitutivamente incarnata da ogni forma religiosa. L’ateismo verrebbe dunque ad essere l’unico orizzonte di progresso.

Ora, va notato come un tale dibattito non rappresenta certo una novità all’interno del corso della cultura europea. Già nel contesto della sinistra hegeliana la religione veniva analizzata da simili prospettive. Ma il discorso contemporaneo sull’ateismo non può certamente essere esaurito in quello strascico – certamente ricco di analisi di grande lucidità – delle ambiguità dell’hegelismo in ambito teologico-filosofico che portarono pensatori come Marx e Feuerbach a interrogarsi sull’essenza della religione. Come già detto, esso va necessariamente messo in connessione soprattutto con i progressi della scienza, e quindi con orientamenti di pensiero (positivismo, neopositivismo) volti a rimarcare una qualche forma di superiorità di quest’ultima. Tuttavia, presa nella sua versione degenerata, questa prospettiva rischia di sconfinare pericolosamente dai suoi limiti, andando a scapito non solo della religione, ma anche della filosofia, e nello specifico della metafisica, da sempre considerata una sorta di versione speculativa della teologia, una teologia nella filosofia. Il rischio latente è quello di una deriva scientista, implicita nel momento in cui lo scienziato esce dai propri confini, o in cui il filosofo si dimentica di fare il proprio mestiere. Ai suoi tempi, Comte parlava dei cosiddetti “stadi della conoscenza”, tappe nel progresso scientifico dell’uomo, rappresentate, nell’ordine, da religione, metafisica e scienza. Certe letture positiviste della Critica della ragion pura hanno assunto il kantismo come morte della metafisica, quando esso voleva (e in parte, riuscì) essere esattamente l’opposto: una sua rifondazione. Lo stesso Gene egoista di Dawkins, nonostante una sorta di iniziale epoché filosofica del suo autore, è pervaso da un eliminativismo (tendenza a non considerare reale tutto ciò che appartiene alla sfera della coscienza, del pensiero, della mente) di fondo, difficilmente trascurabile. Posizioni simili in ambito filosofico, tendenti ad un cieco materialismo e ad un ferreo determinismo, hanno riscosso un certo successo tra i pensatori analitici anglosasssoni, e continuano a riscuoterlo. Certe posizioni in filosofia della mente definiscono la coscienza un epifenomeno, ovvero un fenomeno non reale, privo di efficacia causale. Non è un caso che il termine “epifenomeno” sia stato inventato proprio da Thomas Huxley.

Le problematiche sollevate a suo tempo da Cartesio, le quali costituiscono la base della filosofia moderna, insegnano al contrario che un idealismo è molto più facile da sostenere rispetto ad un realismo, poiché l’essere, tra pensiero e realtà esterna, sta dalla parte del primo, ed è necessariamente tutto ciò che sta fuori dall’io, e non l’io stesso, ad essere messo in discussione. Eliminare il vissuto della coscienza, con tutte le problematiche ad esse connesse, significherebbe eliminare le fondamenta di ogni cosa, e distogliere lo sguardo nei confronti della domanda di senso che necessariamente ci si impone. Il superamento di Dio vuole essere una confutazione di una risposta a tali questioni ultime – risposta, con buona pace della Chiesa, che ha effettivamente perso molta della credibilità che l’aveva sorretta nei secoli passati. Ma la questione della religione non deve uscire da se stessa, poiché l’unica cosa che non può essere messa in questione è esattamente la questione stessa. La cancellazione dell’orizzonte non può cancellare latendenza ad un orizzonte. Cosa farcene di questa tendenza è precisamente il problema postmoderno, problema che in molti vorrebbero ignorare. Il rischio è quello di ridurci come certi libertini descritti da Pascal, che si accontentano di affermare allegramente, con sufficienza, che l’anima è solamente un soffio di vento. Il fatto che Pascal fosse un religioso, anche in un’epoca come la nostra che pretende di aver superato la religione, non conta. Pascal era anche uno scienziato, uno dei più grandi della sua epoca. Non per nulla, fu lo stesso Nietzsche a definirlo “l’unico cristiano logico”.

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