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http://www.timesofisrael.com
November 6, 2014

Gerusalemme nella morsa diabolica del fervore religioso
di David Horovitz

Ideologi incendiari e provocatori stanno giocando con il fuoco sul Monte del Tempio, e la città sta cominciando a bruciare

Nel suo libro dal titolo inquietante, "The End of Days: il fondamentalismo e la lotta per il Monte del Tempio" l’autore, Gershom Gorenberg, cita una conversazione incredibile che ha avuto luogo presso il Monte del Tempio subito dopo che è stato catturato dai paracadutisti israeliani il 7 giugno 1967 mentre i soldati vittoriosi ancora "vagavano sulla piazza come se stessero sognando."

Il Rabbino capo dell'esercito, Shlomo Goren, in seguito rabbino capo di Israele, si avvicinò al generale Uzi Narkiss, e disse: "Ora è il momento di mettere un centinaio di chili di esplosivo nella Moschea di Omar (Cupola della Roccia), e questo è quanto, una volta per tutte la faremo finita con esso."

"Rabbi, stop" ribatté Narkiss.

Ma Goren, che l'autore descrive come "un uomo che procedeva maestosamente quel giorno, l'araldo del Signore", non si sarebbe scoraggiato: "Non cogliere il senso immenso di questo" insisteva il rabbino, "Questa è un'opportunità che può essere sfruttata ora, in questo momento. Domani sarà impossibile"

Narkiss disse: "Rabbi, se non la smetti ora, ti porterò da qui in prigione."

Contrastato, Goren camminò via in silenzio.

Come dice Gorenberg, la ragione prevalse nei momenti culminanti di quella guerra. Il 10 giugno, il ministro della difesa Moshe Dayan incontrò le autorità musulmane in cima al monte, seduto con loro, con le scarpe, sui tappeti della Moschea di Al-Aqsa, dicendo loro che Israele si sarebbe, d'ora in poi, assunto la responsabilità della sicurezza per la spianata, ma l’avrebbe fatto da fuori. Le autorità musulmane arebbero mantenuto il controllo all'interno. Gli ebrei non sarebbero stati mai più esclusi dal luogo più sacro per loro, ma non sarebbe stato loro permesso di trasformarlo in un luogo di culto. Per quello, avevano ora il Muro Occidentale, quì sotto.

Come ministro israeliano delle religioni, in quel momento, Zerah Warhaftig, avrebbe detto a Gorenberg decenni più tardi, "il fervore messianico è il segreto dell'esistenza, è vero. Senza di esso, il fuoco si spegne. Ma la ragione deve controllarlo."

Quasi mezzo secolo dopo quei giorni della vittoria impossibile e delle decisioni epocali rapidamente improvvisate che si resero necessarie, la lucida risoluzione di Dayan sul destino del Monte del Tempio, in mano agli ebrei per la prima volta in 1900 anni, ma non accessibile agli ebrei per uso religioso, è tornata a perseguitarci.

La leadership di Israele nel 1967 fu in grado di concepire una politica di blocco della preghiera ebraica utilizzando comodamente il consenso halachico*, che gli ebrei non avrebbero contaminato il Santo sito del Tempio dei Santi salendo verso il monte a pregare, e quindi scongiurando una potenziale guerra santa tra ebraismo e Islam.

Quel consenso halachico esiste ancora, ma è stato messo sempre più in discussione negli ultimi tempi. Yehudah Glick, in lenta ripresa nello Shaare Zedek Hospital, dopo un tentativo di assassinarlo, di punto in bianco, lo scorso Mercoledì sera a Gerusalemme, è stato un esponente di rilievo dei diritti della preghiera ebraica sul Monte, anche se non è opportuno sottolineare, ad esclusione del diritto di preghiera musulmana.

Diversi membri di destra della Knesset condividono lo stesso obiettivo. Il Ministro israeliano per l’edilizia e la costruzione, Uri Ariel, del Partito ebraico della Casa degli Ortodossi Nazionalisti, ha assicurato coloro che si sono riuniti in un raduno di preghiera per Glick, lo scorso Sabato notte, che lo status quo fuori legge della preghiera ebraica sul Monte cambierà. Tre membri della Knesset; Moshe Feiglin, Tzipi Hotovely, e Shuli Moalem Refaeli, hanno girato per il cortile in uno spettacolo dimostrativo dell’autorità israeliana, nei giorni che sono seguiti all’aggresione di Glick, replicando, in scala minore la visita di alto profilo al Monte del Tempio nel mese di settembre 2000 dell'allora leader dell'opposizione Ariel Sharon. Quella visita 14 anni fa, subito dopo che Yasser Arafat aveva respinto le proposte di pace del primo ministro Ehud Barak a Camp David, è servita da pretesto ideale per i discepoli di Arafat e di altri gruppi terroristici per lanciare quella che divenne la seconda Intifada, o guerra terroristica, in cui più di 1.100 civili israeliani vennero uccisi. Dovrebbe essere ovvio che i successori di Sharon in visita al Monte del Tempio, stanno giocando con il fuoco. In entrambi i casi hanno la memoria corta, o anche loro sono nella morsa del tipo di fervore messianico che i leader israeliani, così saggiamente, cercarono di disinnescare nel 1967.

E poi c'è l'altro lato di questo incendiaria rinascita di tensione, che riflette anche l'effetto cumulativo di tali decisioni epocali alla fine della Guerra dei Sei Giorni.

Scegliendo di abbandonare il pieno bottino della vittoria, optando non per realizzare la capacità del conquistatore di imporre la propria volontà, la leadership della nazione ebraica ha evidentemente minato, agli occhi del mondo musulmano, il diritto degli ebrei al Monte del Tempio. Come hanno potuto assistere, il possente Israele sceglie il compromesso piuttosto che la potenziale conflagrazione, molti musulmani possono aver apprezzato la moderazione, ma per molti altri ha segnalato una mancanza di attaccamento ebraico al luogo. Questo, a sua volta, ha garantito una più ampia risonanza tra i palestinesi e il mondo musulmano della folle e falsa narrazione di Yasser Arafat che "storicamente il Tempio non era in Palestina" e che, per estensione perniciosa, la nazione ebraica non ha legittimità storica sovrana in questa parte del mondo.

In mezzo alla terribile recrudescenza attuale di terrorismo e violenza a Gerusalemme, l’aggressione a Giuda Glick, l'ondata di attacchi dell’autista suicida, i disordini nei quartieri arabi di Gerusalemme Est, gli scontri sul Monte del Tempio stesso, è profondamente sconcertante vedere intervista dopo intervista televisiva con passanti palestinesi nei quartieri arabi cosparsi di pietra, uomini anziani non coinvolti nella violenza, esortare Israele di stare lontano da Al-Aqsa, di non andare a pregare ad Al-Aqsa, di fare qualsiasi cosa, ma non usurpare al-Aqsa. Al Monte del Tempio, il luogo più sacro del giudaismo, è chiaro, gli ebrei non hanno legittimazione alcuna per molti comuni cittadini palestinesi.

Hamas, per cui Israele non ha alcuna legittimità, sta facendo tutto il possibile per montare le passioni intorno al falsamente presunto pericolo di Al-Aqsa, gonfiando ed esagerando e travisando ogni scintilla di attrito, nella speranza di innescare la guerra santa nel tentativo di far scomparire Israele. Quindi, anche i provocatori all'interno della comunità araba di Israele, in particolare nel ramo settentrionale del Movimento islamico. Alcuni membri arabi della Knesset sono anche colpevoli di esagerare e stravolgere le vere dimensioni di ciò che è stato camminare per il Monte del Tempio nelle ultime settimane. Il sempre più estremista presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas ha aggiunto benzina sul fuoco.

Le rassicurazioni giornaliere del primo ministro Benjamin Netanyahu che il suo governo non ha alcuna intenzione di cambiare i parametri stabiliti da Dayan nel 1967 vengono ignorate, sotto-riportate, o distorte.

Mercoledì scorso, dopo che il movimento Fatah di Abbas aveva invitato i sostenitori alla difesa di Al-Aqsa, il terzo sito più sacro per l'Islam, contro una visita da parte dei sostenitori di Yehudah Glick, gli scontri sul monte, come riferito, hanno portato il personale di sicurezza israeliano a caccia di rivoltosi nella moschea, dove hanno visto pietre, bottiglie e bombe molotov accatastate ed empiamente disponibili. Questa incursione atipica, a sua volta ha spinto gli amari reclami delle autorità musulmane, portando la Giordania a minacciare di rivalutare il trattato di pace che dura da 20 anni con Israele, e senza dubbio a concedere un'ulteriore motivazione omicida Mercoledì, a Ibrahim al-Akary, autista suicida di Hamas, la cui pagina di Facebook traboccava di messaggi che inveivano contro la presenza ebraica sul Monte del Tempio. Il messaggio finale di Akary su Facebook, pubblicato Martedì sera dal Times di Israele, era l'immagine di un documento rilasciato dal Comitato Supremo islamico di Gerusalemme, che elencaca i turni per i volontari palestinesi di essere presenti Mercoledì per proteggere la moschea di Al-Aqsa.

Chi odia Israele "vuole semplicemente sradicarci da qui" ha detto Netanyahu alla Knesset Mercoledì pomeriggio. "Essi cercano di riscrivere la storia, negare la nostra coraggiosa affinità per Gerusalemme, sostenendo che stiamo cercando di cambiare lo status quo sul Monte del Tempio, e diffondendo menzogne che vogliamo danneggiare o distruggere al-Aqsa o modificare le modalità di preghiera per i musulmani sul Monte. Non c'è più grande menzogna di questa".

Ma in assenza di un dialogo costruttivo israelo-palestinese, con il vuoto riempito in questi ultimi mesi, da agitatori religiosi e ideologi incendiari, le falsità si stanno diffondendo. Come sempre, le soluzioni si trovano nel campo dell'istruzione tollerante, responsabilità dei media, sensibilità politica, e saggia guida spirituale. Come sempre, tutti questi valori scarseggiano.

Gerusalemme sta iniziando a bruciare. Il fervore religioso si sta intensificando. La ragione, come ha detto giustamente Zerah Warhaftig nel 1967, deve controllare il fervore religioso. Urgentemente.


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November 6, 2014

Jerusalem in the unholy grip of religious fervor
By David Horovitz

Incendiary ideologues and provocateurs are playing with fire over the Temple Mount, and the city is starting to burn

In his ominously titled book, “The End of Days: Fundamentalism and the Struggle for the Temple Mount,” author Gershom Gorenberg quotes a staggering conversation that took place at the Temple Mount immediately after it was captured by Israeli paratroopers on June 7, 1967, while the victorious soldiers still “wandered about the plaza as if they were dreaming.”

The army’s chief rabbi, Shlomo Goren, later Israel’s chief rabbi, came up to Gen. Uzi Narkiss, and said, “Now’s the time to put one hundred kilos of explosives in the Mosque of Omar (the Dome of the Rock), and that’s it, once and for all we’ll be done with it.”

“Rabbi, stop,” Narkiss retorted.

But Goren — whom the author describes as “a man swept away that day, the herald of the Lord” — would not be deterred: “You don’t grasp the immense meaning of this,” the rabbi persisted. “This is an opportunity that can be exploited now, this minute. Tomorrow it will be impossible.”

Said Narkiss: “Rabbi, if you don’t stop now, I’m taking you from here to jail.”

Thwarted, Goren walked silently away.

As Gorenberg tells it, reason prevailed in the culminating moments of that war. On June 10, defense minister Moshe Dayan met with the Muslim authorities atop the mount, sitting with them, shoes off, on the carpets of Al-Aqsa

Mosque, and telling them that Israel would henceforth take overall security responsibility for the compound, but would do so from without. The Muslim authorities would retain control within. Jews would no longer be banned from the place most sacred to them, but they would not be permitted to turn it into a place of worship. For that, they now had the Western Wall, below.

As Israel’s minister of religions at the time, Zerach Warhaftig, would tell Gorenberg decades later, “Messianic fervor is the secret of existence, it’s true. Without it, the fire goes out. But reason has to control it.”

Almost half a century after those brief days of impossible victory and the swiftly improvised, momentous decisions they necessitated, Dayan’s clear-headed resolution of the fate of the Temple Mount — in Jewish hands for the first time in 1900 years, but not accessible for Jewish religious use — has returned to haunt us.

Israel’s leadership in 1967 was able to conceive a policy of barring Jewish prayer by conveniently utilizing the halachic consensus that Jews should not risk defiling the site of the Temple’s Holy of Holies by ascending to the Mount, and thus Israel headed off a potential holy war between Judaism and Islam.

That halachic consensus still holds, but it has been increasingly challenged of late. Yehudah Glick, slowly recovering in Shaare Zedek Hospital from a point-blank assassination attempt last Wednesday night in Jerusalem, was a prominent advocate of Jewish prayer rights on the Mount (though not, it should be stressed, to the exclusion of Muslim prayer rights).

Several right-wing Knesset members share the goal. Israel’s minister of housing and construction, Uri Ariel, of the Orthodox-nationalist Jewish Home party, assured those who gathered at a prayer rally for Glick last Saturday night that the status quo outlawing Jewish prayer on the Mount would change. Three MKs — Moshe Feiglin, Tzipi Hotovely, and Shuli Moalem-Refaeli — have toured the compound in a demonstrative show of Israeli authority in the days since Glick was shot, replicating on a smaller scale the high-profile visit to the Temple Mount in September 2000 by then-opposition leader Ariel Sharon. That visit 14 years ago, immediately after Yasser Arafat had rejected prime minister Ehud Barak’s peace proposals at Camp David, served as the ideal pretext for Arafat’s disciples and other terror groups to launch what became the Second Intifada, or terror war, in which more than 1,100 Israeli civilians were killed. It should be obvious that Sharon’s Temple Mount-visiting successors are playing with fire. Either they have very short memories, or they too are in the grip of the kind of messianic fervor Israel’s leaders so wisely sought to defuse in 1967.

And then there’s the other side of this incendiary revival of tension, which also reflects the cumulative effect of those momentous decisions at the end of the Six-Day War.

By choosing to relinquish the full spoils of victory, by opting not to realize the conqueror’s capacity to impose its will, the leadership of the Jewish nation self-evidently undermined the Jews’ claim to the Temple Mount in the eyes of the Muslim world. As they witnessed mighty Israel choose compromise over potential conflagration, many Muslims may have appreciated the restraint, but for many too it can only have signaled a lack of Jewish attachment to the place. This, in turn, ensured the resonance among Palestinians and the wider Muslim world of Yasser Arafat’s foul false narrative that “historically the Temple was not in Palestine” — and that, by pernicious extension, the Jewish nation has no historical sovereign legitimacy in this part of the world at all.

Amid the awful current upsurge in terrorism and violence in Jerusalem — the shooting of Yehudah Glick, the spate of “suicide driver” attacks, the riots in East Jerusalem’s Arab neighborhoods, the clashes on the Temple Mount itself — it has been profoundly dismaying to watch interview after TV interview with Palestinian bystanders in stone-strewn Arab neighborhoods, older men not involved in the violence, urging Israel just to stay away from Al-Aqsa, not to pray at Al-Aqsa, to do anything but encroach upon Al-Aqsa. At the Temple Mount, the holiest place in Judaism, it is clear, the Jews have no legitimacy whatsoever for many ordinary Palestinians.

Hamas, for whom Israel has no legitimacy at all, is doing everything it can to whip up passions around the falsely alleged dangers to Al-Aqsa, inflating and exaggerating and misrepresenting every spark of friction in the hope of igniting the holy war it seeks in order to bring about Israel’s demise. So, too, provocateurs within Israel’s own Arab community — notably in the northern branch of the Islamic Movement. Some Arab Knesset members are also guilty of exaggerating and mischaracterizing the true dimensions of what has been playing out in and around the Temple Mount in recent weeks. The increasingly extremist Palestinian Authority President Mahmoud Abbas has been adding fuel to the fire.

Prime Minister Benjamin Netanyahu’s near daily assurances that his government has no intention of changing the parameters set by Dayan in 1967 are ignored, under-reported, or skewed.

On Wednesday, after Abbas’s Fatah movement had urged supporters to defend Al-Aqsa, the third-holiest site in Islam, against an anticipated visit by supporters of Yehudah Glick, clashes on the mount reportedly led to Israeli security personnel chasing rioters into the mosque (where they saw stones, bottles and Molotov cocktails stacked in most impious readiness). This atypical incursion in turn prompted bitter complaints from the Muslim authorities, leading Jordan to threaten to reassess its 20-year peace treaty with Israel, and doubtless providing further murderous motivation to Ibrahim al-Akary, Wednesday’s Hamas suicide driver, whose Facebook page overflowed with posts railing against the Jewish presence on the Temple Mount. Akary’s final Facebook message, posted Tuesday night, The Times of Israel reported, was an image of a document issued by the Islamic Supreme Committee of Jerusalem, listing shifts for Palestinian volunteers to be present to protect Al-Aqsa Mosque on Wednesday.

The Israel-haters “simply want to uproot us from here,” Netanyahu said in the Knesset Wednesday afternoon. “They try to rewrite history, deny our brave affinity for Jerusalem and claim that we are trying to change the status quo on the Temple Mount, spread lies that we want to harm or destroy the al-Aqsa Mosque or change the prayer arrangements for Muslims on the Mount. There is no greater falsehood than this.”

But in the absence of constructive Israeli-Palestinian dialogue, with the vacuum filled these past few months by religious agitators and incendiary ideologues, the falsehoods are spreading. As ever, the solutions are to be found in tolerant education, responsible media, political sensitivity, and wise spiritual leadership. As ever, all of these are in short supply.

Jerusalem is starting to burn. Religious fervor is intensifying. Reason, as Zerach Warhaftig said so rightly of 1967, “has to control it.” Urgently.

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