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http://openrevolt.info Sulla Guerra Santa Nella tradizione islamica viene fatta una distinzione tra le due guerre sante, la "grande guerra santa" (el-jihadul-akbar) e la "piccola guerra santa" (el-jihadul-Ashgar). Questa distinzione ha avuto origine da un detto (hadith) del Profeta, che sulla via del ritorno da una spedizione militare disse: "Sei tornato da una minore guerra santa ad una grande guerra santa" La grande guerra santa è di natura interiore e spirituale; l'altra è la guerra materiale condotta esternamente contro una popolazione nemica con il particolare intento di portare popolazioni "infedeli" sotto il dominio della "legge di Dio" (al-Islam). Il rapporto tra la "maggiore" e "minore guerra santa", tuttavia, rispecchia il rapporto tra l'anima e il corpo; al fine di comprendere l'ascesi eroica o "percorso di azione", è necessario capire la situazione in cui i due percorsi si fondono, la "piccola guerra santa" può diventare il mezzo attraverso il quale un "grande guerra santa" si svolge, e viceversa: la "piccola guerra santa", o quella esterna, diventa un'azione rituale che esprime e testimonia la realtà della prima. In origine, l'Islam ortodosso fu concepito in una forma unitaria di ascesi: ciò che è collegato alla jihad o "guerra santa". La "grande guerra santa" è la lotta dell'uomo contro i nemici che porta dentro. Più esattamente, è la lotta del principio superiore dell'uomo contro tutto ciò che è meramente umano in lui, contro la sua natura inferiore e contro gli impulsi caotici e ogni genere di attaccamenti materiali. Questo è espressamente descritto in un testo di saggezza guerriera ariana: "conoscere lui dunque supera la ragione; e lasciare che la sua pace la tua pace. Essere un guerriero e uccidere il desiderio, il potente nemico dell'anima." (Bhagavad-gita 3.43) Il "nemico" che ci resiste e "l’infedele" dentro di noi devono essere sottomessi e messi in catene. Questo nemico è il desiderio e l'istinto animalesco, la molteplicità disorganizzata degli impulsi, le limitazioni imposte a noi stessi per mezzo del sé fittizio, e quindi anche la paura, la malvagità, e l'incertezza; questa sottomissione del nemico interno è l'unico modo per raggiungere la liberazione interiore o la rinascita in uno stato di profonda unità interiore e "pace", nel senso esoterico e di trionfo della parola. Nel mondo dell'ascesi guerriera tradizionale la "piccola guerra santa", vale a dire, la guerra esterna, è indicata e anche prescritta, come i mezzi per combattere questa "grande guerra santa"; in tal modo nell'Islam le espressioni "guerra santa" (jihad) e la "via di Allah" sono spesso usate come sinonimi. In questo ordine di idee l’azione esercita la funzione del rigore e il compito di un rito sacrificale e purificante. Le vicende esterne sperimentate nel corso di una campagna militare fanno sì che il "nemico" interiore emerga e opponga una resistenza feroce e una buona lotta, sotto forma di istinti animaleschi di auto-conservazione, paura, inerzia, compassione, o altre passioni; coloro che si impegnano in battaglie devono superare questi sentimenti dal momento in cui entrano nel campo di battaglia, se sdesiderano, di vincere e di sconfiggere il nemico esterno o "infedele". Ovviamente l'orientamento spirituale e la "retta intenzione" (niya), vale a dire, quella verso la trascendenza (i simboli utilizzati per fare riferimento alla trascendenza sono "cielo", "paradiso", "giardino di Allah" e così via), si suppone siano fondanti come le basi della jihad, per timore che la guerra perda il suo carattere sacro e degenerino in un affare selvaggio in cui vero eroismo venga sostituito con l'abbandono sconsiderato agli impulsi scatenati della natura animale. È scritto nel Corano: "Lasciate che chi voglia possa scambiare la vita di questo mondo per la lotta qui di seguito per la causa di Allah; che muoiano o vincano conquiste, dovremo ricompensarli riccamente."(Corano, 4:76) Il presupposto in base al quale è prescritto "Quando incontrate i miscredenti nel campo di battaglia tagliategli la testa, e quando li avrete calmati, fateli prigionieri con fermezza" (Corano 47: 4); oppure, "Non vacillate o chiedete la pace dopo aver preso il sopravvento" (Corano 47:37), "la vita di questo mondo, non è uno sport ne un passatempo" (Qu'an 47 : 37) "chi è ingeneroso verso questa causa è ingeneroso verso se stesso" (Corano 47:38). Queste dichiarazioni dovrebbero essere interpretate sulla falsariga del detto evangelico: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà" (Matteo 16,25). Ciò è confermato da un altro passo coranico: "Perché quando ti si dice: - marcia per la causa di Allah.- Indugi pigramente nel tuo paese? Siete contenti di questa vita piuttosto che della vita futura" (Corano, 09:38) "Di: Stai aspettando che accada qualcosa tra noi, che non sia la vittoria o il martirio?" (Corano, 9: 52). In un altro passo altrettanto rilevante si legge: "Combattere è obbligatorio per voi, per quanto non ti piaccia. Ma si può odiare una cosa anche se è un bene per voi, e amare una cosa anche se è un male per voi. Allah conosce ciò che voi non sapete"(Corano, 2: 216). Questo passaggio deve essere collegato anche con il seguente: "Erano contenti di essere con quelli che rimasero indietro: un sigillo è stato fissato nei loro cuori, lasciandoli privi di comprensione. Ma l'Apostolo e gli uomini che hanno condiviso la sua fede, combattuto con i loro beni e i loro uomini. Questi saranno premiati con le cose buone. Essi certamente prospereranno. Allah ha preparato per loro giardini irrigati da ruscelli, in cui potranno restare per sempre. Questo è il trionfo supremo" (Corano, 9:88 - 9:89). Questo luogo di "riposo" (paradiso) simboleggia gli stati superindividuali dell'essere, la cui realizzazione non si limita solo al post-mortem, come indica il seguente passaggio: "Quanto a coloro che sono stati uccisi per la causa di Allah, Egli non permetterà alle loro opere di perire. Egli li guiderà e nobiliterà il loro stato; Egli li farà entrare nel paradiso che gli ha fatto conoscere" (Corano, 47: 5-7). Nel caso di una vera morte in battaglia, troviamo l'equivalente dei Mors Triumphalis che si trovano nelle tradizioni classiche. Coloro che hanno sperimentato la "grande guerra santa" durante la "minore guerra santa", hanno risvegliato un potere che molto probabilmente li aiuterà a superare la crisi della morte; questo potere, che li ha già liberati dal "nemico" e "dall’infedele", li aiuterà ad evitare il destino dell’inferno. È per questo che nell'antichità classica la speranza del defunto e la pietà dei suoi parenti hanno spesso prodotto figure di eroi e di vincitori da essere iscritti sulle lapidi. E' possibile, tuttavia, di passare attraverso la morte e la conquista, così come realizzare, l’ascesi e di salire al "regno celeste", mentre si è ancora in vita. http://openrevolt.info On Holy War In the Islamic tradition a distinction is made between two holy wars, the “greater holy war” (el-jihadul-akbar) and the “lesser holy war” (el-jihadul-ashgar). This distinction originated from a saying (hadith) of the Prophet, who on the way back from a military expedition said: “You have returned from a lesser holy war to a great holy war.” The greater holy war is of an inner and spiritual nature; the other is the material war waged externally against an enemy population with the particular intent of bringing “infidel” populations under the rule of “God’s Law” (al-Islam). The relationship between the “greater” and “lesser holy war”, however, mirrors the relationship between the soul and the body; in order to understand the heroic asceticism or “path of action”, it is necessary to understand the situation in which the two paths merge, the “lesser holy war” becoming the means through which a “greater holy war” is carried out, and vice versa: the “little holy war”, or the external one, becomes almost a ritual action that expresses and gives witness to the reality of the first. Originally, orthodox Islam conceived of a unitary form of asceticism: that which is connected to the jihad or “holy war”. The “greater holy war” is man’s struggle against the enemies he carries within. More exactly, it is the struggle of man’s higher principle against everything that is merely human in him, against his inferior nature and against chaotic impulses and all sorts of material attachments. This is expressly outlined in a text of Aryan warrior wisdom: “Know Him therefore who is above reason; and let his peace give thee peace. Be a warrior and kill desire, the powerful enemy of the soul.” (Bhagavad-Gita 3.43) The “enemy” who resists us and the “infidel” within ourselves must be subdued and put in chains. This enemy is the animalistic yearning and instinct, the disorganized multiplicity of impulses, the limitations imposed on us by a fictitious self, and thus also fear, wickedness, and uncertainty; this subduing of the enemy within is the only way to achieve inner liberation or the rebirth in a state of deeper inner unity and “peace” in the esoteric and triumphal sense of the word. In the world of traditional warrior asceticism the “lesser holy war”, namely, the external war, is indicated and even prescribed as the means to wage this “greater holy war”; thus in Islam the expressions “holy war” (jihad) and “Allah’s way” are often used interchangeably. In this order of ideas action exercises the rigorous function and task of a sacrificial and purifying ritual. The external vicissitudes experienced during a military campaign cause the inner “enemy” to emerge and put up a fierce resistance and agood fight in the form of the animalistic instincts of self-preservation, fear, inertia, compassion, or other passions; those who engage in battles must overcome these feelings by the time they enter the battlefield if they wish to win and to defeat the outer enemy or “infidel”. Obviously the spiritual orientation and the “right intention” (niya), that is, the one toward transcendence (the symbols employed to refer to transcendence are “heaven”, “paradise”, “Allah’s garden” and so on), are supposed as the foundations of jihad, lest war lose its sacred character and degenerate into a wild affair in which true heroism is replaced with reckless abandonment and what counts are the unleashed impulses of the animal nature. It is written in the Qu’ran: “Let those who would exchange the life of this world for the hereafter fight for the cause of Allah; whether they die or conquer, We shall richly reward them.” (Qu’ran, 4:76) The presupposition according to which it is prescribed “When you meet the unbelievers in the battlefield strike off their heads, and when you have laid them low, bind your captives firmly” (Qu’ran 47:4); or, “Do not falter or sue for peace when you have gained the upper hand” (Qu’ran 47:37), is that “the life of this world is but a sport and a past-time” (Qu’an 47:37) and that “whoever is ungenerous to this cause is ungenerous to himself” (Qu’ran 47:38). These statements should be interpreted along the lines of the evangelical saying: “Whoever wishes to save his life shall lose it: but whoever loses his life for my sake shall find it” (Matthew 16:25). This is confirmed by yet another Koranic passage: “Why is it that when it is said to you: ‘March in the cause of Allah.’ you linger slothfully in the land? Are you content with this life in preference to the life to come?” (Qu’ran, 9:38) “Say: ‘Are you waiting for anything to befall us except victory or martyrdom?'” (Qu’ran, 9:52). Another passage is relevant as well: “Fighting is obligatory for you, as much as you dislike it. But you may hate a thing although it is good for you, and love a thing although it is bad for you. Allah knows but you do not.” (Qu’ran, 2:216). This passage should also be connected with the following one: “They were content to be with those that stayed behind: a seal was set upon their hearts, leaving them bereft of understanding. But the Apostle and the men who shared his faith fought with their goods and their persons. These shall be rewarded with good things. They shall surely prosper. Allah has prepared them gardens watered by running streams, in which they shall abide forever. That is the supreme triumph.” (Qu’ran, 9:88 9:89) This place of “rest” (paradise) symbolizes the superindividual states of being, the realization of which is not confined to the post-mortem alone,as the following passage indicates: “As for those who are slain in the cause of Allah, He will not allow their works to perish. he will vouchsafe them guidance and ennoble their state; He will admit them to the paradise He has made known to them.” (Qu’ran, 47:5-7). In the instance of real death in battle, we find the equivalent of the mors triumphalis found in classical traditions. Those who have experienced the “greater holy war” during the “lesser holy war”, have awakened a power that most likely will help them overcome the crisis of death; this power, having already liberated them from the “enemy” and from the “infidel”, will help them avoid the fate of Hades. This is why in classical antiquity the hope of the deceased and the piety of his relatives often caused figures of heroes and of victors to be inscribed on the tombstones. It is possible, however, to go through death and conquer, as well as achieve, the superlife and to ascend to the “heavenly realm” while still alive.
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