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Now Lebanon
16/09/2014

La fede può veramente fare politica in Medio Oriente e Nord Africa?
di Harry Hagopian

E' un mito che il benessere dei cristiani nella regione MENA dipende dalla loro alleanza con i regimi dittatoriali

Piuttosto notoriamente, Joseph Stalin chiese una volta ad un consigliere, sprezzante: «Quante divisioni ha il Papa?" Questa citazione, riferendosi a Pio XII, compare anche in "The Gathering Storm", il primo volume di Sir Winston Churchill sulla Seconda Guerra Mondiale .

Ho ricordato questa citazione infame, all'inizio della settimana, mentre seguivo un vertice inaugurale organizzato da In Difesa dei Cristiani, presso l'hotel Omni Shoreham a Washington DC, il cui presidente è il libanese-americano Toufic Baaklani. La conferenza ha attratto il buono, il grande e il possente, stabilendo di provvedere una voce per i cristiani in Medio Oriente, per scoprire come si può fare la differenza.

Secondo l'obiettivo dichiarato, lo scopo primario di questo vertice era quello di portare tutti i membri della diaspora cristiana insieme ad un senso di ritrovata unità. Piuttosto un compito immane, come anche chiamare ortodossi o cattolici, evangelici, copti, maroniti, siriaci, armeni, caldei e assiri, tutti i cristiani del Medio Oriente ad unirsi insieme in solidarietà e a rafforzare i loro sforzi di advocacy per raggiungere i responsabili politici degli Stati Uniti, i funzionari eletti e il pubblico americano. In sostanza, è stato concepito per essere un lodevole tentativo di riunire i popoli di buona volontà in difesa degli indifesi, e di diventare una voce per coloro che sono senza voce.

Ammetto con tutto il cuore che un tale incontro, anche se ostentatamente etichettato come un "summit" semplicemente a causa della presenza di cinque patriarchi del Medio Oriente, è una buona cosa. Gli Stati Uniti e gran parte dell’occidente hanno spesso un’imressione sbagliata sul MENA, nonostante anni di storia e di politica coloniale disordinata. Dopo tutto, chi potrebbe biasimare un obiettivo così alto?

Ma permettetemi di sondare un po’ più in profondità questo evento. Agli appassionati ecumenici o politici che l’hanno seguito, senza dubbio non è sfuggito quel piccolo battibecco dopo un discorso del senatore Ted Cruz, che è stato infastidito quando ha affermato che i cristiani non hanno maggiore alleato di Israele per il loro futuro salvifico, una pillola amara da ingoiare per molti partecipanti. Se così non fosse, avrebbero applaudito il presidente Obama e Susan Rice alla Casa Bianca, come se tutti i cristiani fossero ormai al sicuro in Iraq, Siria, Egitto, e altrove nel Medio Oriente e in Nord Africa, alla fine di questo incontro di 40 minuti!

Ma lasciatemi smettere di essere così eccessivamente critico, prima che qualcuno mi urli che critico l’uva perché non posso coglierla.

Il mio vero scopo con questo "summit" è duplice. Per primo, c'è il mito propagato da alcuni gerarchi religiosi, il solo benessere che permette la loro pura sopravvivenza, dipende dalla loro alleanza con i regimi dittatoriali della regione. Per ingraziarsi questi regimi sanguinari, non battono ciglia mentre applaudono l’arresto di qualcuno, la tortura e la fine della sua esistenza, questi gerarchi sembrano pensare che i cristiani della regione MENA se la passeranno meglio.

Intendiamoci, il loro argomento diventa più plausibile quando si assiste al terrore esecrabile perpetrato dal cosiddetto Stato islamico (ISIS) in parti dell'Iraq e della Siria e dei suoi atteggiamenti esclusivisti nei confronti della religione nella regione. E se non ISIS, poi il pandemonio rabbioso creato dai Fratelli Musulmani in Egitto e altrove. Ma mentre ISIS gode del sostegno di un numero considerevole di musulmani sunniti, uomini e donne che si sentono marginalizzati ed esclusi, sia politicamente che economicamente, sono ancora una piccola percentuale che non rappresenta in alcuna forma reale la capacità di plasmare il più grande corpus dell’Islam che, certamente, guarda ancora al suo collegio elettorale come ad un ampia ummah proprio come i cristiani fanno la loro comunione globale.

Quindi questo indolente esercizio intellettuale esportato come leadership religiosa da alcuni cristiani del MENA è codardo, e l'apertura di alcuni leader cristiani occidentali ad accettarlo a scatola chiusa è corrispondentemente alla loro pochezza intellettuale.

La mia seconda preoccupazione è una propensione, ancora una volta, aggravata dai crimini mascherati di ISIS che si nutre di ideologie e teologie in terre desolate, in base alla quale alcuni gerarchi cristiani ora guardano alle realtà cristiane; speranze, dolori o preoccupazioni isolate dalle altre comunità. Permettetemi di ricordarvi umilmente quei capi che non rappresentano sempre la vox populi cristiana e che i cristiani in tutto l'insieme delle regioni MENA e del Golfo, in gran parte in Egitto e in Libano, costituiscono non più del 10% della popolazione complessiva. La tesi che i cristiani indigeni sono una realtà separata dagli altri uomini e donne della regione, o addirittura li ritraggono come non-vicini di casa, è indifendibile. Rimbalzerà su quei cristiani come un boomerang sui loro interessi a lungo termine, una volta che l'incubo di ISIS sarà scomparso, come succederà alla fine.

Personalmente faccio fatica con la mia fede cristiana, perché spesso provo ad accrescerla e rafforzarla. Ma ho un problema con i leader della chiesa, sacerdoti o organizzazioni di base, alcuni di loro amici, che saltano sul carro dei vincitori per fare politica, quando il loro lavoro dovrebbe essere esemplificare la compassione, la misericordia e il supporto per i loro popoli.

Ho iniziato con il dispregiativo di Stalin, circa le divisioni del papa. Se fossi stato allo stesso tavolo e avessi avuto il coraggio profetico di rispondere al tiranno, avrei semplicemente replicato: «Di quante divisioni ha bisogno il Papa?" La mia risposta ipotetica a Stalin fornisce un base etica per i cristiani che criticano gli altri per poi inondare di politica i loro domini religiosi. Se dobbiamo rispondere se la fede può fare politica nella regione del MENA, la cosa più importante che possiamo dire è che non richiede divisioni!


Now Lebanon
16/09/2014

Can faith truly do politics in MENA?
By Harry Hagopian

It is a myth that the well-being of Christians in the MENA region depends on their alliance with the dictatorial regimes

Rather famously, Joseph Stalin once asked an advisor dismissively: “How many divisions does the Pope have?” This quotation, referring to Pius XII, later also featured in “The Gathering Storm”, the first volume of Sir Winston Churchill’s The Second World War.

I recalled this infamous quotation earlier in the week as I followed an inaugural summit organised by In Defence of Christians, whose president is the Lebanese-American Toufic Baaklani, and which met at the Omni Shoreham hotel in Washington DC. It attracted the good, the high and the mighty and purported that it “provides a voice for Christians in the Middle East” to “discover how you can make a difference.”

According to the stated objective, the primary purpose of this summit was to bring all members of the Christian Diaspora together in a newfound sense of unity. Quite a mammoth task, but whether Orthodox or Catholic, Evangelical, Coptic, Maronite, Syriac, Armenian, Chaldean or Assyrian, all Middle Eastern Christians were called on to join together in solidarity to strengthen their advocacy efforts and reach out to US policy makers, elected officials, and the American public. In essence, it was meant to be a laudable attempt to congregate peoples of good will in defense of the defenseless, and to become a voice for those who are voiceless.

I admit wholeheartedly that such a gathering, even though ostentatiously labelled a “summit” simply because of the presence of five Middle Eastern patriarchs in its midst, is a good thing. The US and much of the West often gets it wrong on MENA despite years of history, colonialism and messy politics. After all, who could decry such a lofty goal?

But let me probe a tad further into this event. For those ecumenical or political aficionados who followed it, they will have no doubt been aware of the little spat following a speech by Senator Ted Cruz, who was heckled when he stated that Christians have no greater ally than Israel for their salvific future – a hard pill to swallow for many participants. If it were not, they would have applauded the meeting with President Obama and Susan Rice at the White House as if all Christians were now safe and secure in Iraq, Syria, Egypt, and elsewhere in MENA on the back of this 40-minute meeting!

But let me stop being unduly critical before someone yells “sour grapes” at me.

My real beef with this “summit” is two-fold. For one, there is a myth being propagated by some religious hierarchs that their well-being, let alone sheer survival, depends on their alliance with the dictatorial regimes of the MENA region. By cosying up with these bloody regimes – which don’t bat an eye about clapping someone in gaol, torturing them and snuffing out their existence – these hierarchs seem to think that Christians in the MENA region will fare better.

Mind you, their argument becomes more plausible when one witnesses the execrable terror perpetrated by the so-called Islamic State (ISIS) in parts of Iraq and Syria and its exclusivist attitudes toward religion in the region. And if not ISIS, then the rabid pandemonium created by the Muslim Brotherhood in Egypt and elsewhere. But whilst ISIS enjoys the support of considerable numbers of Sunni Muslim men and women who feel marginalised and disenfranchised both politically and economically, they are still a tiny percentage that does not represent in any real form or shape the larger corpus of Islam that, admittedly, still looks at its constituency as a broad ummah just as Christians do their own global fellowship.

So this indolent intellectual exercise exported as religious leadership by some MENA Christians is lily-livered, and the openness of some Western Christian leaders to accept it lock, stock and barrel is correspondingly parvanimous.

My second concern is a propensity – again, exacerbated by the undisguised crimes of ISIS that feeds on ideological and theological wastelands – whereby few Christian hierarchs now look squarely at Christian realities, hopes, woes or concerns in isolation from other communities. Let me humbly remind those leaders they do not always represent the Christian vox populi and that Christians throughout the whole of the MENA and Gulf regions (due largely to Egypt and Lebanon) constitute no more than 10% of the overall demographic population. To start highlighting the indigenous Christians as a separate reality from the other men and women of the region, or even portraying them as non-neighbours, is indefensible. It will rebound on those Christians and boomerang on their long-term interests once the finite nightmare of ISIS subsides – as it will eventually do.

I personally struggle with my own Christian faith because I often test it so as to grow and strengthen it. But I have a problem with church leaders, priests or grassroots organisations – some of them friends – who jump on convenient bandwagons to play politics when their job should be one which exemplifies compassion, mercy and support for their peoples.

I started off with Stalin’s derogatory aside about the Pope’s divisions. Had I been at the same table and had the prophetic courage to respond to the totalitarian politician, I would have simply retorted: “How many divisions does the Pope need, anyway?” My hypothetical response to Stalin provides an ethical backbone for Christians who criticise others for suffusing politics in their religious domains. If we’re to answer whether faith can do politics in the MENA region, the foremost thing we can say is that it doesn’t require divisions!


Dr Harry Hagopian is an international lawyer, political analyst, and ecumenical advisor based in London.

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