La vita inaspettata.
Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto
di Telmo Pievani



Raffaello Cortina Editore 2011



Che storia ingarbugliata 
quella dei nostri antenati
di Pietro Greco


Telmo Pievani - La vita inaspettata
Recensione di Raffaele Carcano


http://www.unita.it

30 luglio 2011

Che storia ingarbugliata quella dei nostri antenati

di Pietro Greco

Era una bella storia – semplice, lineare, consolatoria – quella dell’evoluzione umana che abbiamo appreso a scuola e che si è conservata pura fino a una decina di anni fa. Ci narrava come in principio è venuto Homo habilis, 2 milioni e mezzo di anni fa o giù di lì, che si è distaccato dai rami delle Australopitecine, con un bel balzo cognitivo ha imparato a lavorare la pietra e ha così inaugurato il genere Homo. Poi mezzo milione di anni dopo è venuto Homo erectus, che ha raggiunto, anche come massa cerebrale, le nostre dimensioni, è uscito dall’Africa e ha colonizzato l’intero pianeta. Infine duecentomila anni fa, sempre in Africa, siamo venuti noi, gli Homo sapiens. Anche la nostra specie ha lasciato l’Africa, più o meno centomila anni fa, e ha preso progressivamente possesso di tutti i continenti. Certo, i nostri antenati hanno incontrato gli eredi degli erectus, di Neandertal. Ma senza mescolarsi con loro. In ogni caso loro, i neandertaliani, gli uomini antichi, si sono estinti, circa 40.000 anni fa, mentre noi sapiens, ormai soli in virtù delle nostre superiori capacità mentali, abbiamo acquisito il linguaggio vocale complesso, abbiamo inventato l’arte (la splendida arte rupestre) e abbiamo dato una brusca e decisiva accelerazione a all’evoluzione culturale.

Bene, questa bella storia in cui Homo sapiens arriva alla fine, sbaraglia tutti e sale in cima alla scala grazie alle sue superiori qualità, è stata completamente riscritta dagli scienziati grazie a nuovi ritrovamenti fossili e, soprattutto, allo studio del Dna. La nuova storia è molto più complicata. Ricca di nomi e di situazioni. Tortuosa e persino ingarbugliata. E ha un finale a sorpresa.

Ce ne fornisce un ottimo riassunto Telmo Pievani, filosofo della scienza, nel libro La vita inaspettata che ha da poco pubblicato con l’editore Cortina.

In primo luogo Pievani ci ricorda che a uscire dall’Africa e a disseminarsi per il globo in diverse ondate successive sono state almeno tre specie diverse del genero umano. Per primo è partito Homo ergaster (o Homo erectus) circa 1,9 milioni di anni fa e in poco millenni si è insediato in tutta l’Eurasia. Poi, mezzo milione di anni fa, è partita l’onda degli Homo heidelbergensis (o Homo rhodesiensis). È questa la specie cui appartengono i Neandertal. Infine dall’Africa è partito in almeno due ondate Homo sapiens. Una prima volta, tra 120 e 100.000 anni fa, ha raggiunto le coste dell’Arabia e si è disseminato per la penisola. Non sappiamo se è riuscito ad andare oltre. La seconda volta, tra 80 e 70.000 anni fa, ha attraversato il Sinai ed è giunto in Medio Oriente, da cui è partito seguendo almeno due strade diverse alla conquista (ma occorrerebbe parlare di semplice diffusione, perché non c’è nulla di militare in questi spostamenti di popolazioni di migranti) dell’Asia e dell’Australia. Dal Medio Oriente i sapiens sono partiti anche, intorno a 40.000 anni fa, per diffondersi in Europa.

Contrariamente a quanto si credeva, appunto, fino ad appena dieci anni fa, la nostra specie non ha incontrato solo i Neandertal, antichi eredi dei migranti heidelbergensis. E non li ha incontrati solo in Europa e in Medio Oriente.

Ma andiamo con ordine. Nell’anno 2003 nell’isola indonesiana di Flores sono stati trovati i resti di uomini molto diversi da noi: più bassi di statura e con un volume cerebrale pari a un quarto del nostro. Gli antropologi hanno ribattezzato Homo floresiensis quella specie sconosciuta di uomini e hanno dimostrato che sono discendenti della prima ondata migratoria, quella degli ergaster (o erectus). E che, per adattarsi all’ambiente dell’isola in cui sono giunti probabilmente 900.000 anni fa, hanno diminuito la massa corporea e cerebrale. Lo strano è che quei resti risalgono ad appena 13.000 anni fa. Quando a Flores erano giunti anche i sapiens. Dunque i nostri antenati hanno convissuto con un’altra specie umana fino a tempi recentissimi.

Ma le sorprese non sono finite. Perché nel 2008 nella grotta di Denisova, sui Monti Altai, in Siberia, è stato rinvenuto un dito con un Dna relativamente integro che ha consentito a Svante Pääbo, il maestro dell’antropologia molecolare, a Johannes Krause e a un folto gruppo di collaboratori del Max Planck Institute di Lipsia di confermare che lì è vissuta una specie umana, ribattezzata Homo di Denisova. Anche questa specie è una discendente degli ergaster, giunti da quelle parti oltre 1,5 milioni di anni fa. Il dito, tuttavia, è appartenuto a un individuo vissuto circa 40.000 anni fa. E il bello è che lì vicino, nelle valli dei Monti Altai, sono stati trovati anche resti sia di Neandertal sia di sapiens risalenti più o meno allo stesso periodo. Dunque nella Siberia meridionale sono vissuti contemporaneamente membri di tre specie umane diverse, partite dall’Africa in tre epoche diverse: 1,9 milioni di anni fa; 500.000 anni fa e 80.000 anni fa.

Non è finita. Perché, ricorda ancora Pievani, tra gli antropologi si sta facendo sempre più robusta la convinzione che un’altra specie umana, Homo erectus soloensis, discendente appunto degli antichi erectus, sia vissuta sull’isola di Giava fino a circa 40.000 anni fa.

Abbiamo, dunque, le prove che mentre noi sapiens stavamo acquisendo il linguaggio forbito e stavamo imparando a dipingere sulle pareti delle grotte, dividevamo il pianeta con almeno altre quattro specie appartenenti al genere Homo (Neandertal, Homo di Denisova, Homo erectus soloensis e Homo floresiensis). E che questa convivenza è durata, almeno con alcuni, fino a poche migliaia di anni fa.

Per la gran parte della nostra presenza sulla Terra, in Africa e anche fuori dall’Africa, non siamo stati dunque soli. E nessuno, in tutti questi millenni, avrebbe avuto fondati motivi per scommettere sul successo della nostra specie, invece che su quella di altre. Altro che inevitabile conseguenza di una storia lineare. Noi sapiens siamo usciti vincitori a seguito di una serie fortunata di circostanze, al termine di un lunghissimo gioco dall’esito mai scontato.

E non vi abbiamo ancora detto della sorpresa finale. Il primo ad analizzare il Dna (mitocondriale) dei Neandertal è stato, proprio una decina di anni fa, il già citato Svante Pääbo. Il quale sulla base dei dati disponibili aveva escluso che Neandertal e sapiens si fossero accoppiati. O, almeno, che accoppiandosi avessero avuto una progenie a sua volta prolifica. Insomma, una decina di anni fa avevamo buoni motivi per credere che il nostro Dna di uomini sedicenti sapienti fosse, per così dire, “puro”.

Ma proprio lo scorso anno Svante Pääbo ha presentato i risultati dell’analisi comparata del Dna di uomini di Neandertal e di uomini moderni. Scoprendo che nel Dna degli africani, discendenti di sapiens mai usciti dall’Africa, il Dna non presenta tracce di ibridazioni con quello dei Neandertal. È, per così dire, “puro”. Mentre il Dna degli europei e degli asiatici ci sono tracce (intorno al 4% del materiale genetico) ereditato da uomini di Neandertal. La nostra specie si è incrociata, più o meno saltuariamente, con quegli uomini più antichi e noi europei e asiatici ne conserviamo la traccia.

Le stessa cosa è avvenuta tra i sapiens asiatici e membri della specie Homo di Denisova, perché nel Dna di uomini moderni che vivono in Nuova Guinea e in Melanesia sono state trovate tracce (intorno al 5-8%) di quegli antichi discendenti degli ergaster.

Altro che Dna puro. Il nostro è, come scrive Telmo Pievani, un «Dna arlecchino». Frutto di una piccola promiscuità genetica che ha accompagnato una elevata promiscuità fisica con tante altre specie di uomini. Il nostro successo – la nostra fortuna – è anche il frutto di questa capacità di saper accettare e abbracciare «l’altro».

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Giugno 2011

Telmo Pievani - La vita inaspettata
Recensione di Raffaele Carcano

La vita inaspettata è un libro che parte da Darwin, definito come l’uomo che per primo ebbe il coraggio di «oltrepassare il segno»; riparte da dove si era fermato Gould concludendo La vita meravigliosa, e giunge infine ad aggiornare in maniera precisa lo stato dell’arte delle discussioni sull’evoluzione. Ha come trait d’union «il concetto centrale dell’evoluzione, la contingenza storica, che non è stato ancora accolto nei nostri sistemi di pensiero»: e rappresenta, dunque, anche un grande sforzo per cercare di colmare questa lacuna.

Nonostante i tentativi di Letizia Moratti, a scuola la teoria dell’evoluzione è insegnata: quantomeno nelle scuole pubbliche e perlomeno per sommi capi. Scarsa è invece l’attenzione prestata a molti suoi aspetti che vengono erroneamente considerati minori. Uno di questi, di un’evidenza quasi palmare, è che «la vita ha sperimentato strategie indipendenti e “ci ha provato” più volte». Il tempo profondo, ricorda Pievani, è invece «pieno di ipotesi di vite alternative che hanno fallito per ragioni forse non sempre connesse a una loro inadeguatezza». I perdenti, tutto sommato, «spesso non erano così malaccio»: i vincenti, come pikaia, uno dei più antichi cordati, erano invece sparuti e  molto gracili, rispetto alle altre specie coeve.

Vale anche per noi, perché «in almeno una fase della nostra storia evolutiva ci siamo ritrovati davvero in pochi: bande sparse di ominini, mobili e intraprendenti, ma con numeri che oggi rasenterebbero il rischio estinzione». Potevamo dunque non esserci, così come potevano essere alquanto diversi: non dimentichiamo che fino a 13.000 anni fa viveva ancora l’homo floriesensis, alto poco più di un metro e alquanto diversi da noi. Sembra proprio non essere mai successo che «il vessillo dell’umanità fosse eroicamente imbracciato da una specie solitaria»: anche non ci facciamo caso, ci sono stati altri uomini che hanno visto «laghi, fiumi, foreste e praterie verdi nel Sahara». Gli hominina sono passati per sperimentazioni adattative durate sei milioni di anni nelle quali sembra proprio difficile «rintracciare una qualche tendenza inevitabile, una direzione, una traiettoria privilegiata, una freccia del tempo». Siamo invece «figli contingenti di “sola storia”, cioè di una sequenza di eventi irripetibili e generosi».

I meccanismi del cambiamento evolutivo sono ormai noti: la mutazione, la selezione, la deriva genetica, la migrazione e gli schemi evolutivi su larga scala. Alla base vi sono tre fattori: «vincoli interni (strutture); pressioni selettive esterne (funzioni di sopravvivenza in un ambiente); eventi storici peculiari». C’è ovviamente ancora molto da studiare, ma c’è relativamente poco da discutere. All’interno del mondo scientifico il confronto continua, e il testo vi dedica una certa attenzione (per esempio analizzando i teorici della complessità). Il problema è che continua anche la messa in discussione della teoria evolutiva. Per quanto i sostenitori dell’intelligent design non siano riusciti a far avanzare granché le proprie tesi nel corso degli ultimi anni, l’attenzione che raccolgono in molti ambienti è tuttora massiccia.

Pievani sottolinea come, forse, sia «proprio la nostra solitudine a farci veder l’evoluzione in modo lineare e progressivo. In mondi controfattuali alternativi dove non fossimo soli, faticheremmo a concepirci come i predestinati e forse capiremmo ancora meglio che cosa significhi davvero essere umani». Siamo abituati a pensare in questo modo, ed occorrerà molto tempo prima che queste implicazioni siano colte anche all’esterno del mondo scientifico. Non è un caso che le critiche alla teoria evolutiva abbondino sulla scrivania di chi scienziato non è - anche se magari è costretto a far ricorso ad argomentazioni pseudo-scientifiche per tentare di rendere plausibile un ragionamento fallato in partenza. Ambienti in cui si continua a cianciare dell’impossibilità di un’evoluzione «per puro caso», quando ben pochi ricercatori sostengono ormai una posizione così estrema. L’autore deve così ribadire, ancora una volta, che «l’assenza di una direzione e di una necessità intrinseca non consegna l’evoluzione al “cieco caso” e alla fredda democraticità del puro calcolo delle probabilità, bensì a un’interrelazione fra elementi casuali e storici, funzionali e strutturali, che produce una molteplicità di storie possibili. Non infinite, possibili».

Si continua a mettere in dubbio la validità dell’impianto darwiniano anche insistendo sugli anelli mancanti, come se dall’Ottocento a oggi non fosse cambiato nulla, e nonostante molti vuoti stiano pian piano cominciando a essere occupati grazie alla continua scoperta di nuovi fossili. Secondo Pievani, insistendo sugli anelli mancanti gli antievoluzionisti commettono un doppio errore, di pensare che il quesito non abbia una risposta «e di inferire da ciò che sia necessario arrendersi chissà perché al subitaneo miracolo interventista di un disegnatore intelligente». A suo dire «è uno schema di ragionamento, tipicamente umano, che fa sì che ciò che appare molto improbabile ci sembri anche impossibile, e che come tale debba allora essere spiegato attraverso un disegno, un piano, l’intenzione di qualcuno». Quando si partecipa insieme ad altri milioni di persone a una lotteria si sa che la vincita è un evento altamente improbabile, e pur tuttavia si sa anche che un vincitore ci sarà.

Toccherebbe a chi sostiene la tesi dell’intelligent design trovare «elementi che mostrino come il suo esito attuale fosse non soltanto l’unico possibile, ma addirittura il fine ultimo del processo stesso», dimostrando che «il presente realizzato ha causato il processo stesso, attirandolo a sé fin dall’inizio». L’onere della prova grava su chi afferma. Non la pensano così le gerarchie ecclesiastiche, le cui posizioni Pievani sintetizza efficacemente così: «è creazionismo, ma non si può dire». I loro testi contengono infatti «premesse imposte d’autorità, postulati assoluti, fonti parziali, definizioni arbitrarie dei termini, dichiarazioni apodittiche e conclusioni che in molti casi non discendono comunque dalle premesse». Una «ragione ideologica», la loro, «che strumentalizza fonti e argomenti per avvalorare una tesi preconcetta». Più o meno la stessa «Ragione creatrice» che Benedetto XVI ha posto all’origine dell’universo, senza ovviamente portare evidenze a supporto: ma lamentandosi, nello stesso tempo, che «la teoria dell’evoluzione non è dimostrabile sperimentalmente in modo tanto facile perché non possiamo introdurre in laboratorio 10.000 generazioni». Peccato che esperimenti sul batteri del tipo escherichia coli (così tanto di moda) abbiano oltrepassato da tempo le 40.000 generazioni.

Ma il papa non si smentisce mai. In tutti i sensi. In troppi ambiti si continua a ritenere legittimo che, a ogni domanda senza risposta, la risposta giusta sia quella religiosa. La Chiesa sembra ormai far esplicitamente proprio il concetto di Dio tappabuchi: e non lo fa solo il papa, ma anche teologi eterodossi come Mancuso e Küng. Peccato che, oltre un secolo e mezzo dopo le riflessioni di Darwin, sia difficilissimo trovare riflessioni teologiche sugli icneumonidi.

E peccato, anche, che ogni tanto le domande inevase trovino qualche risposta, invariabilmente diverse da quelle data fino a quel momento. Man mano che «franano le evidenze di finalità, e si fa sempre più fatica a difendere la somma saggezza dell’autore del mondo con gli argomenti tradizionali», allora, scrive Pievani, «si sposta l’attenzione sul piano psicologico e si paventa il fatto che la contingenza spalancherebbe su di noi una visione infelice e malinconica dell’umanità e del suo posto nella natura». Quell’umanità «disperata» di cui parla spesso il papa.

Non è affatto così, spiega Pievani nel finale del libro, in cui si toccano temi più decisamente etici. Certo, la contingenza è più impegnativa delle due alternative estreme, «il puro caso» e «la dura necessità», entrambe «deresponsabilizzanti»: la prima perché conduce al fatalismo, l’altra invece al finalismo fideista che sostiene che, poiché la nostra esistenza «non può essere frutto del caso, dunque non resta che abbandonarci fiduciosi al disegno». La contingenza storica non fornisce scorciatoie. Al contrario, «ci prende gentilmente per le spalle e ci chiede di guardare dritte negli occhi le evidenze raccolte, per il momento, dalla scienza»: «se il passato era aperto, e a maggior ragione lo è il futuro, le scelte contano, la storia si può cambiare».

Non c’è quindi alcun motivo per abbandonarci al disorientamento: anche se la chiamata alla responsabilità personale a molti non piace, la contingenza possiede «un senso liberatorio» e ci offre «un’occasione di consapevolezza e di maturità». Perché «la rivoluzione darwiniana, riletta attraverso le evidenze di oggi, arricchisce, aggiorna e riempie di nuovi significati la grande tradizione della saggezza naturalistica di Spinoza e di Leopardi».

Ci si duole spesso di quanto la prevalenza delle scienze umanistiche noccia, in Italia, alla ricerca scientifica. È quasi un dato di fatto, e costituisce sicuramente un problema. Ma ci si dimentica che porta anche alla pubblicazione di libri di impianto divulgativo (ma non solo) scritti decisamente meglio che altrove.

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