Da no global a no war e ritorno UTET Universita', Torino, 2009 Tratto da http://www.tecalibri.it/ |
Pagina XIII Introduzione L'irrompere sulla scena politica e mediatica mondiale del movimento antiglobalizzazione è stato forse il fenomeno che più ha segnato il passaggio dal XX al XXI secolo. Quale inedito «movimento dei movimenti» ha dato voce a una varietà di categorie, popolazioni e gruppi sociali tanto ampia quanto lo è quella dei soggetti toccati dalle conseguenze negative della globalizzazione. Esso ha costituito una temuta minaccia per la credibilità e la legittimità e in molti casi per l'incontrollata libertà di agire di numerose multinazionali, dei principali organismi economici sovranazionali e anche di una serie di governi. Sennonché, dopo aver rappresentato per qualche anno la più aperta opposizione alla politica bellica dell'amministrazione Bush, è sembrato eclissarsi, tanto da scomparire dall' orizzonte mediatico. E da ricomparirvi come per incanto verso la fine del decennio (primavera 2009) in occasione del G20 di Londra. «Il movimento è morto!». L'epitaffio, in vari modi declamato nel corso del 2008 nelle file no global, a inizio 2009 è sostituito dall'annuncio: «il movimento è rinato!». Cosa è successo di tanto importante da tramutare una diagnosi infausta in una prognosi propizia? La sorpresa dei più non inganni: niente di miracoloso e di imprevedibile, benché poco o punto previsto. L'incontro di tre fenomeni: il quasi compimento di un ciclo di (azione di) movimento, la gravissima crisi finanziaria globale e l'avvento della presidenza Obama. Dire ciclo equivale sì a suggerire un'inversione di tendenza, ma anche a indicare una progressione. In altri termini, se mutamento c'è stato, è stato possibile perché il movimento, pur indebolito e alterato, morto non era veramente. I movimenti sociali non risuscitano, al più si trasformano. Pertanto, se sia rinato e con quale speranza di vita è difficile dire. Certo, per contro, è che esso è mutato nell'arco di un decennio, dalla protesta di Seattle tanto da perdere molti dei suoi caratteri originari per poi ritrovarli in parte. Ed è di questa trasformazione che in questo libro si parla. La storia del movimento globale può apparire come una storia minore, a fronte della «grande storia» tracciata dai potenti della politica e dell'economia o daforze impersonali come il mercato o la tecnologia. È una visione riduttiva e sbagliata sbagliata perché riduttiva. La verifica: si provi a togliere, per esercizio mentale, l'azione del movimento dal corso degli ultimi due decenni, e l'osservatore non prevenuto vedrà quanto andrebbe perso nella comprensione dei caratteri e dei cambiamenti rilevanti del mondo contemporaneo, come quelli relativi a: a) i modi di costruzione dello spazio pubblico e di espressione della società civile; b) i principi di legittimazione e delegittimazione del potere, economico e politico; c) la creazione e l'affermazione soprattutto in materia di diritti umani e di ambiente di valori, quali criteri di misura degli interessi, sia a scala globale che a scala locale; d) le forme di riconoscimento, difesa e valorizzazione o, all'opposto, di disconoscimento e repressione, delle diversità culturali; e) la lotta contro le crescenti disuguaglianze economiche e sociali. Ciò detto, i capitoli di questo libro non compongono una storia sistematica una storiografia del movimento globale. Intendono contribuire alla sua futura realizzazione fornendo approfondimenti analitici. Ciò significa che per ciascun tema si procede a una ricostruzione selettiva, finalizzata non alla completezza informativa, ma alla individuazione e all'interpretazione sociologica delle principali trasformazioni del movimento. Nella sostanza queste sono sintetizzabili nella formula «da no global a no war e ritorno». L'idea l'osservazione e l'ipotesi di partenza è stata, infatti, che in luogo di aversi un soggetto collettivo che nel tempo cambia obiettivi e cambiandoli rimane se stesso, si avesse la trasformazione della sua natura in ragione del cambiamento degli obiettivi. Alla luce di questa idea hanno lavorato gli autori dei diversi capitoli, assumendola criticamente, come un'ipotesi da verificare. Lo hanno fatto ciascuno nel proprio ambito tematico, ma muovendo da interrogativi comuni e discutendo collettivamente i propri elaborati in progress in appositi incontri, sulla falsariga di una precedente esperienza, i cui risultati sono pubblicati nel volume La democrazia dei movimenti, a cura di P. Ceri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. Nel libro vengono proposte alcune periodizzazioni, in parte simili, in parte differenti anche in ragione delle specificità degli aspetti esaminati nei vari capitoli. Esse sono ricomprese in una più ampia periodizzazione (ancorché temporalmente contenuta) in tre fasi e due trasformazioni (passaggi di fase): da movimento antiglobalizzazione a movimento pacifista (secondo una parte dei militanti: movimento anti-guerra) e da questo di nuovo con esiti e sviluppi aperti e perciò incerti a movimento antiglobalizzazione. Se dovessimo scegliere delle parole d'ordine in quanto espressive delle tre fasi, chi scrive suggerirebbe le seguenti. Per la prima fase: «Not in my body», a indicare, nel riferimento agli organismi geneticamente modificati, il rifiuto della mercificazione della vita e dei beni pubblici. Per la seconda: «Not in my name» , a significare l'opposizione alla guerra in Iraq. Per la terza fase: «Stop fooling about with our future», a denunciare l'avidità parassitaria irresponsabile di un'intera consorteria finanziaria internazionale. Sono parole d'ordine che, come nella maggior parte dei casi, dicono no, si oppongono a qualcosa o a qualcuno. Può apparire un limite. Non sempre lo è. Dire « no » non equivale sempre e soltanto ad « agire contro»; può voler dire anche «agire per» quando, opponendo la non negoziabilità delle istanze, si affermano valori potenzialmente universali. Più dei movimenti del passato in primis il movimento operaio i movimenti contemporanei sono offensivi anche quando sembrano difensivi. Il loro miglior attacco è la difesa: degli altri, cioè dei deboli, degli oppressi, degli sfruttati, dei mercificati, degli offesi, dei manipolati. Da qui l'importanza, la centralità, dei diritti umani e dei diritti culturali. Nel breve giro di un decennio il primo del nuovo millennio sono accadute tante cose, drammatiche: il terrore islamista, il terrore della guerra al terrore, una devastante crisi economico-finanziaria. A posteriori non si può che riconoscere la ragione di molte critiche e istanze avanzate in passato dal movimento globale. O almeno da quella parte che, non affetta da antiamericanismo e dal mito della rivoluzione e della violenza liberatrice, è capace di distinguere la globalizzazione dalla sua versione neoliberale e il mercato dal capitalismo. Capace di pensare e annunciare in modo non ideologico o utopico che «un altro mondo è possibile». Se le élites mondiali sapranno dimostrare, per parte loro, che «yes we can», sarà anche in forza del messaggio conflittuale espresso dal movimento globale. Pagina 111 5.4 Pace e guerra: da no global a no war? Il tema caratterizzato da maggiore visibilità entro il dibattito del movimento dei no global, a partire dal 2001 e fino a tutto il 2007, è senz'altro quello della guerra. Dopo gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono l'11 settembre del 2001, infatti, il governo americano di Bush intraprende un'intensa politica militare per combattere il terrorismo internazionale, dapprima con le operazioni belliche in Afghanistan partite il 7 ottobre 2001 e poi con gli attacchi all'Iraq iniziati il 20 marzo 2003. In seguito a questi eventi, il movimento dei no global sposta progressivamente la propria attenzione da temi quali la povertà nel mondo, la violazione dei diritti umani, i problemi ambientali ecc. a quello della guerra. In questo modo, è venuto ad assumere, almeno per un certo periodo, caratteristiche che sono proprie di un movimento pacifista, trasformandosi, come già accennato in precedenza, da movimento sociale, legato ai cambiamenti del tipo di società, in movimento storico, legato alle nuove caratteristiche del processo di sviluppo capitalistico, e definendo, di conseguenza, i propri avversari in termini sempre più politico-militari, anziché economicosociali (Ceri, 2003b, p. 3; 2004a, p. 174). Che la contestazione degli interventi bellici statunitensi e di tutte le guerre in corso costituisca una delle caratteristiche principali del movimento antiglobalizzazione emerge anche dai documenti emanati durante i più importanti incontri internazionali dei no global. Ad esempio, già nel documento ufficiale approvato nel corso del secondo social forum di Porto Alegre nel 2002 si legge: L'11 settembre ha segnato una svolta drammatica. Dopo gli attacchi terroristici, che condanniamo assolutamente, così come condanniamo tutti gli altri attacchi sui civili in altre parti del mondo, il governo degli Stati Uniti e i suoi alleati hanno lanciato una massiccia operazione militare. In nome della «guerra al terrorismo» vengono attaccati in tutto il mondo i diritti civili e politici. Con la guerra contro l'Afghanistan, in cui sono stati usati anche metodi terroristici e con le nuove che si preparano, ci troviamo di fronte a una guerra globale permanente, scatenata dal governo degli Usa e dai suoi alleati per stabilire il loro dominio. Questa guerra rivela l'altra faccia del neoliberismo, la più brutale e inaccettabile. [...] I movimenti sociali condannano con forza la violenza e il militarismo quali strumenti di risoluzione dei conflitti; [...] il commercio di armi e la crescita delle spese militari (Documento finale del Forum Sociale Mondiale del 2002; corsivi nostri). In seguito agli interventi militari degli USA e di altri Paesi alleati, il tema della guerra e della pace acquista sempre più spessore entro il dibattito dei no global. Ancora più forti sono, ad esempio, le istanze di pace avanzate dopo l'inizio della guerra in Iraq, come dimostra il testo del manifesto finale del quarto Forum Sociale Mondiale svoltosi nel 2004 a Mumbai, in India: [...] reiteriamo la nostra opposizione al sistema neoliberista che genera crisi economiche, sociali, ambientali e conduce alla guerra. L'occupazione dell'Iraq ha mostrato a tutto il mondo il vincolo esistente tra il militarismo e la dominazione economica da parte delle corporazioni multinazionali e ha confermato le ragioni che ci hanno fatto mobilitare contro la guerra. [...] Noi movimenti sociali riaffermiamo il nostro impegno di lotta contro la globalizzazione neoliberista, l'imperialismo, la guerra, il razzismo [...] (Manifesto conclusivo del Forum Sociale Mondiale 2004, corsivi nostri). Dai documenti riportati emerge come i no global considerino la guerra uno strumento per continuare ed affermare le politiche del neoliberismo. Con lo spostamento dell'interesse del movimento soprattutto verso le istanze relative alla guerra e alla pace, l'«Impero», cioè l'insieme dei fautori della globalizzazione neoliberista, non viene più identificato con soggetti economici, ma piuttosto politici. Infatti, se prima degli interventi militari americani l'Impero trovava di volta in volta i propri rappresentanti in organismi economici internazionali o nelle corporation multinazionali o ancora in alcuni governi dei Paesi sviluppati, in seguito tende ad essere identificato con gli Stati Uniti e, in particolare, con l'amministrazione Bush (Becucci, 2003, p. 8; Fruci, 2003, p. 66). Questa situazione pare mutare a partire dalla fine del 2007 e per tutto il corso del 2008, dapprima con le speranze generate dalla candidatura alla presidenza degli Stati Uniti da parte dell'afroamericano Barak Obama, ed in seguito con la sua vittoria alle elezioni. Attualmente l'interesse, dapprima molto forte, del movimento per la tematica della guerra sembra perdere un po' di vigore per lasciare spazio ad un ritorno a temi di tipo socio-economico. Pagina 149 CAPITOLO 7 Le istituzioni internazionali: che farne? 7.1 Introduzione Il movimento no global è portatore di una forte critica nei confronti degli organismi internazionali politici, militari e commerciali, sotto i quali bisogna intendere sia organizzazioni europee, in particolare l'Unione Europea, la Banca Europea, la Corte di Giustizia Europea, sia quelle sovranazionali, come l'OMC, l'ONU, la Banca Mondiale, il G8, l'OCSE, la NATO, il Tribunale dell'Aja. Già a partire dal 1984 si sono svolte riunioni di controvertici durante i G7 per opporsi alle politiche economiche delle istituzioni governative. Un momento di svolta per la costituzione di una piattaforma organizzata di protesta è rappresentato dalle campagne contro il MAI (Multilateral Agreement for Investement), a partire dalla seconda metà degli anni Novanta: il MAI, che avrebbe condotto ad un accordo dei 29 paesi dell'Ocse da estendere a tutti gli stati aderenti all'OMC, avrebbe avviato, secondo il direttore generale dell'OMC, Renato Ruggiero, un'economia mondiale unificata. Dal successo ottenuto attraverso la campagna contro il MAI, il movimento antiglobalizzazione ha tratto la sua forza per continuare a sostenere le campagne contro gli accordi commerciali settoriali come il NAFTA (North American Free Trade Agreement), il FTAA (Free Trade Areas of Americas), il MERCOSUR (Mercato comune del cono del Sud) e perfino il Mercato Comune Europeo, in alcuni casi. Oltre alla critica contro questi accordi settoriali che liberalizzano il mercato, abbattono le barriere doganali e permettono a grandi multinazionali di intervenire massicciamente nelle economie nazionali, il movimento antiglobalizzazione ha svolto un'azione di protesta politica contro il livello di democratizzazione e l'impatto delle politiche degli organismi internazionali già citati: l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, i G7 e poi G8, la NATO, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e anche in alcuni casi l'Organizzazione delle Nazioni Unite e l'Unione Europea. La critica è più virulenta nei confronti dell'OMC, della BM, del FMI, e dei G8 oltre che della NATO, mentre una considerazione scettica o negativa delle istituzioni europee e dell'ONU si sviluppa solo negli ultimi anni ed è, inoltre, relativamente più rara. Come si vedrà, l'attacco all'Unione Europea e all'ONU diviene più ricorrente dopo l'inizio degli interventi in Afganistan e in Iraq. A tal proposito si potrebbe ipotizzare che essa sia legata alla critica della politica estera statunitense e all'appoggio mostrato dall'Europa alla politica aggressiva americana, così come all'impotenza dell'ONU, responsabile di non aver potuto evitare la guerra. Al contrario, la protesta contro la Banca Mondiale, il FMI e l'OMC è più radicale, perché mette in questione non solo la loro posizione e le loro politiche specifiche, ma anche la loro funzione e la loro stessa ragion d'essere. In altre parole molti no global, pur attaccando le decisioni e l'atteggiamento dell'UE nei confronti dell'intervento americano armato in Afganistan e Iraq, non mettono in dubbio le ragioni della nascita e del progetto politico dell'Unione Europea. Molti no global però, lottano per l'abolizione della BM e dell'OMC, considerati come strumenti dell'imperialismo americano e del potere delle multinazionali. Si distinguono, allora, diversi tipi di critica no global, che verranno analizzati oltre: 1. l'opposizione radicale economica e politica, la quale mette in dubbio non solo il funzionamento, ma la rappresentatività, la democraticità e infine la stessa ragion di essere di istituzioni come il FMI e l'OMC; 2. la critica che riguarda aspetti economici, nei casi degli accordi MAI, MERCOSUR, NAFTA e FTAA; 3. un confronto politico più blando che mira a denunciare la mancanza di democraticità di alcune istituzioni, considerate, però, di per sé riformabili (l'ONU e l'UE). Come si nota, si passa da un atteggiamento di rifiuto totale di alcune istituzioni internazionali e di alcuni accordi, a proposte di riforma che democratizzino e, in alcuni casi, perfino potenzino organismi come l'ONU. È necessario puntualizzare che questi atteggiamenti non sono ugualmente presenti in tutte le reti associative componenti il movimento no global e che si distribuiscono sia in base all'appartenenza a gruppi e movimenti specifici, sia in base alla provenienza geografica. In questo contributo ci si limiterà a considerare i contesti europeo e nordamericano. In queste aree geografiche si tratteranno i movimenti più diffusi. Essi verranno scelti per la loro «tipicità», e cioè per il fatto di rappresentare degli «idealtipi»: la posizione di rifiuto radicale, quella di riforma radicale e quella di dialogo con le istituzioni. Inoltre, il campo verrà ulteriormente ristretto poiché l'oggetto di questo contributo saranno le proteste contro organismi e iniziative politiche e non quelle dirette contro le imprese multinazionali. Nella prima parte del capitolo verrà ricostruita per grandi linee la storia delle proteste antiglobalizzazione contro gli organismi internazionali, così da delineare le tendenze e il cambiamento dei temi e dei bersagli. Si potrà rilevare nella periodizzazione un cambiamento nell'opposizione ad alcuni organismi in connessione con eventi internazionali. Tanto che si rileva una maggiore insistenza sull'ONU, a partire dallo scoppio della guerra in Iraq, mentre, la critica all'OMC rimane costante. Nella seconda parte verranno individuati alcuni atteggiamenti tipici all'interno del movimento e ne verrà delineata la storia. In particolare si ricostruiranno le posizioni che vanno dalle proposte di riforma al rifiuto netto delle organizzazioni: esse saranno contestualizzate all'interno dei gruppi specifici politici e saranno analizzate da un punto di vista diacronico. Gli interrogativi posti attengono alla possibilità dì riforma o al rifiuto completo di organismi internazionali e alle modalità di miglioramento che vengono individuate. Nel capitolo saranno poste alcune questioni, riguardanti l'idea di democrazia e di deficit democratico diffusa in gran parte del movimento no global. In particolare ci si porrà i seguenti quesiti: che cosa intendono i movimenti no global per mancanza di democrazia: l'esclusione di alcuni paesi, di categorie, di classi socio-economiche negli organismi decisionali? La mancanza di democraticità delle procedure? L'obsolescenza e la non rappresentatività degli organismi, e cioè l'incapacità di rappresentare i veri sviluppi politici ed economici? La sudditanza dall'egemonia dell'America? L'inefficacia delle decisioni? |
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