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04/7/13

 

Zero privacy, il futuro progettato dal vero potere mondiale

 

Secondo Marlon Brando, la privacy non era «semplicemente un diritto, ma un prerequisito assoluto per vivere». Bei tempi. Oggi, «proteggere è veramente un parolone, anche un po’ improprio», accusa Glauco Benigni: «Ciò che appare è che la sfera pubblica globalizzata, i governi, i militari, i trader, i tecnocrati, vogliono impedire che la raccolta e il trattamento dei dati sia ostacolata dal sacrosanto bisogno di riservatezza, e per far questo hanno organizzato un sistema molto complesso di protezione regolata, al quale è impossibile sottrarsi e nel quale è quasi impossibile intervenire». Ma allora Orwell aveva ragione? «La domanda ormai appare retorica». Governi ossessionati dalla sicurezza, trader ossessionati dal guadagno e tecnocrati facilitatori del controllo formano una terna che non consente scampo: «La privacy è stata abbindolata, sedotta e stuprata da bambina. E ora, i suoi stupratori travestiti da padri di famiglia ne fanno mercimonio».

Inutile scandalizzarsi per il caso Snowden: da anni siamo diventati tutti “trasparenti”, a nostra insaputa. «Telecamere, smartphone, Internet e in generale ogni technodevice digitale, unitamente alla velocità di raccolta, consultazione, riproducibilità dati e alla loro archiviazione – scrive Benigni nel suo blog – hanno sgretolato la barriera che la privacy tentava di erigere». Così, «il diritto è diventato un sogno infantile e la protezione evocata si è sostituita al problema». “No one can hide”, nessuno può nascondersi: lo dicono i guru digitali, ma la gente ancora non ci crede fino in fondo. «Se cominciasse a farlo si sentirebbe “spellata” e indifesa, in balia di forze estranee. E questo la gente non lo vuole, e non lo vogliono neanche le forze estranee».Sicché, si preferisce «abbandonarsi al sogno della privacy, salvo svegliarsi di quando in quando e agitarsi e indignarsi inutilmente, come nel recente caso Datagate che ha scosso la National Security Agency statunitense».

E’ evidente che la dimensione mediatica al suo evolversi modifica il concetto di privacy. Tant’è che oggi, chiunque ricerchi un po’ di notorietà sta rinunciando – inconsapevolmente – a un pezzo di riservatezza. Architrave del nuovo sistema, i trattati internazionali: secondo l’articolo 11 della Costituzione italiana, limitano la sovranità dello Stato e, al dunque, anche la sovranità individuale. Nel 1989, ricorda Benigni, si era proceduto a prime modifiche delle norme italiane in ottemperanza alla Convenzione di Strasburgo del 1981. «Il vero cambio di paradigma, comunque, era già avvenuto nel 1988 con l’adozione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo». Quella “Carta” stabiliva, è vero, «barriere per evitare ingerenza di autorità pubbliche sul diritto alla privacy», precisando però: «A meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge, necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute e della morale e per la protezione dei diritti e delle libertà altrui».

Il testo della Convenzione, scritto nel 1950, era solo un modo più accattivante di affermare quello che diceva la legge italiana del 1956. In sostanza: essendo molto labili i confini tra libertà personali e sicurezza, prevenzione reati, protezione diritti altrui, “non vi fate illusioni”, la vostra privacy è solo un pixel di un vasto mosaico, nel quale interessi pubblici e soggetti dominanti considerano la difesa del diritto solo uno slogan elettorale. «La privacy – dice l’uomo dei poteri forti – è un prodotto di massa della democrazia liberale da sgranocchiare oggi di fronte al computer». La gente però ci credeva, nella privacy, e accolse con plauso gli accordi di Schengen e la Carta dell’Unione Europea, in cui all’articolo 8 la privacy, da “prevalente diritto alla riservatezza”, diventava “prevalente diritto alla protezione dei dati”. Questo sterminato agglomerato di informazioni doveva essere trattato «lealmente, a seguito di consenso espresso», e diventava magicamente un corpus esterno alla persona. Come dire: tu intanto diventi consapevole e acconsenti al fatto che qualcuno raccolga i tuoi dati, puoi chiedere di sapere tutto quello che sappiamo di te e puoi anche pretendere di dargli un’aggiustata, basta che ti rivolga all’autorità preposta.

Per istituire l’autorità, continua Benigni, il Parlamento italiano fece una legge nel 1996, sostituita nel 2003 da un decreto legislativo, detto “Codice di protezione dei dati personali”, attualmente in vigore. «In tal modo, l’aspirazione lecita ad “essere lasciati in pace” (una delle altre interpretazioni della privacy) veniva presa in ostaggio e ricollocata all’interno di un triangolo virtuale in cui ufficialmente giocavano tre ruoli: i raccoglitori, gli intrusi e i protettori dei dati. Oggi sappiamo che spesso i tre ruoli coincidono. Specialmente in quei casi in cui siamo considerati consumatori, o elettori, o potenziali “ammalabili”». Ma ormai siamo europei. Quindi: il 25 gennaio 2012, la Commissione Europea ha approvato la proposta di un “Regolamento sulla protezione dei dati personali”, che andrà a sostituire, una volta definitivamente approvato, la direttiva 95/46 della Comunità Europea in tutti e 27 Stati membri dell’attuale Unione.

In Italia, il nuovo dispositivo europeo andrà a prendere il posto del decreto legislativo del 2003. Ci sono novità? «Sì. Alle definizioni fondamentali si aggiungono dato genetico e dato biometrico, viene introdotto il principio del controllo dei dati di cittadini non-Ue se costoro commerciano con cittadini Ue, si stabilisce il diritto a trasferire i propri dati da un social network ad un altro e anche il “diritto all’oblio”, salvo però “specifici obblighi di legge, garanzie della libertà di espressione e continuità della ricerca storica”». Inoltre sarà istituito un “data protection officer” per le imprese al di sopra di un certo numero di dipendenti, sarà introdotto il requisito del “privacy impact assessment” (valutazione dell’impatto-privacy) e del “privacy by design”. Non solo. Sarà introdotto l’obbligo di notificare le violazioni all’autorità, mentre i garanti per la protezione dei dati personali saranno dotati di maggiori poteri anche sanzionatori. «Manca solo l’istituzione di un corpo di polizia a statuto speciale – ma, perlomeno in Rete, c’è già l’Escopost. Questa sarà la privacy nell’Europa del terzo millennio, prepariamoci».

Intanto, osserva sempre Benigni, a prima vista sembra che chi non parla inglese non abbia diritto a capire neanche di che si tratta. Vista dal potere, la privacy è innervata di raccolta-protezione dati genetici e biometrici. Non se ne esce: «Se mi serve il tuo Dna per tutela salute o utilizzo in sede giudiziaria, io me lo prendo». A proposito di biometrica, riflettori accesi sul prossimo prodotto della Google: i Google Glass. Quali informazioni si possono raccogliere? Con chi verranno condivise? Come verranno utilizzate? Le autorità di protezione dati di diversi continenti, riunite nel Gpen (Global Privacy Enforcement Network) hanno chiesto chiarimenti alla multinazionale californiana: state per mettere in commercio su larga scala un oggetto indossabile che include al suo interno una microcamera, un microfono e un dispositivo Gps con accesso a Internet? Si possono dunque realizzare “riconoscimenti facciali” all’insaputa dei soggetti ritratti? Il soggetto riconosciuto potrebbe poi essere individuato nei suoi gusti e nelle sue opinioni, riducendo la sua sfera privata a un colabrodo trasparente? Spiegateci, Google Glass. «Ovviamente Google, la stessa società che, grazie a Google Maps, ha fotografato e sbattuto in rete, senza alcuna autorizzazione, le strade, le piazze, le case di tutto il mondo, se ne guarda bene dal rispondere».

Il regolamento europeo, conclude Glauco Benigni, si sforza di poggiare l’accento sui social network. Che però, insieme ai motori di ricerca, ai service providers e ogni altro soggetto rilevante, se aventi casa madre in Usa, sono costretti, in ottemperanza al “Fisa Act” del 2008, a «fornire tutti i dati richiesti al governo, in segreto e in modo che il soggetto sorvegliato non se ne accorga». Ovviamente la richiesta deve essere giustificata da “motivi di sicurezza” e approvata (neanche tanto) dall’avvocatura generale Usa e dal Dni (Director of National Intelligence), quindi dagli stessi controllori, «che vezzosamente si definiscono “sorveglianti”». Problema: «Si da il caso che l’80% dei soggetti rilevanti operanti in rete siano statunitensi. Cosa potranno fare gli europei che usano la Rete per impedire di essere “sorvegliati”? Per il momento, nulla. E’ la coda di “Echelon”! Una situazione giustificata dal fatto che le leggi antiterrorismo Usa sono a ogni effetto norme globali, anche se non recepite dagli altri governi. Al dunque: un regolamento così è pensato per proteggere chi da chi?».

 

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