|
||
The Wall Street Journal
Un genio, punto e basta Nell’autunno del 1986, durante il primo anno di università, mio cugino mi accompagnò a comprare il mio primo Macintosh. Il Mac era nato due anni prima e Apple aveva appena lanciato una nuova macchina, il Mac plus, con 1 megabyte di ram: una capacità di memoria sorprendente per gli standard dell’epoca. Il Mac non aveva ancora un disco rigido, così mio cugino, molto più tecnologico di me, mi consigliò di comprare anche una confezione di dieci floppy disk. Lo guardai stupito. Il computer mi serviva solo per scrivere racconti e tesine. “A che mi servono i dieci floppy disk?”, gli dissi. “Me ne basta uno”. Lui si mise a ridere. “Dammi retta, comprali”. Ancora oggi, ogni volta che lo chiamo per dirgli che ho comprato un nuovo computer, con i suoi gigabyte di memoria, mio cugino si fa una risata e ripete: “Me ne basta uno”. Quel primo Macintosh ha fatto molto più che aumentare le mie esigenze di archiviazione di dati. Ha cambiato del tutto il mio rapporto con la tecnologia, e di conseguenza la mia vita. Oggi si stenta a ricordarlo, ma a metà degli anni ottanta prima della nascita di Wired, della Pixar e delle dotcom la mania del computer non era un segno di distinzione culturale. Era solo roba da nerd, punto e basta. I computer dell’epoca trasmettevano la stessa allegria di un’analisi di bilancio, e i creativi li usavano controvoglia. Ma il Mac aveva qualcosa di diverso. Già lo schermo bianco era un cambiamento rivoluzionario, dopo anni di testi verdi su sfondo nero. E poi i caratteri tipografici! Quel computer considerava i font come una forma d’arte, non come un semplice insieme di pixel. Lo schermo sembrava uno spazio dove avresti voluto abitare facendolo tuo. Parafrasando Le Corbusier, il Mac era la macchina in cui tutti avrebbero voluto vivere. Tempo dopo ho cominciato a impaginare riviste studentesche e a mettere in imbarazzo i miei amici mostrandogli giochi nuovi durante feste in cui tutti parlavano di David Lynch. Con il senno di poi, mi rendo conto che alla base di quelle fissazioni c’era un filo conduttore che univa i miei interessi come un fiume sotterraneo: l’idea che la dimensione più affascinante della nostra cultura è il punto d’intersezione tra gli studi umanistici e le nuove tecnologie. Un crocevia immaginario
Jobs ha fatto l’esempio di un cartello stradale in un immaginario crocevia tra “tecnologia” e “studi umanistici”. Voleva descrivere il tipo di pensiero multidisciplinare che è all’origine dei suoi prodotti, ma spiega anche l’impatto sociale della sua azienda. Prima della Apple quel crocevia era praticamente deserto. Oggi è una Times square virtuale. Non c’è dubbio sul fatto che Steve Jobs sia un genio. Temo che definirlo un maestro degli affari o della progettazione sia riduttivo, anche se è chiaramente entrambe le cose. Il suo dono è stata la capacità di capire che questi due mondi potevano incontrarsi. Jobs non si è limitato a rendere i computer più belli, ha cambiato la loro veste concettuale. Una macchina progettata per risolvere equazioni e far esplodere bombe ha rivelato straordinarie potenzialità nascoste: per la musica, lo svago, la poesia, la socializzazione e la famiglia. Quando ho saputo che Jobs avrebbe lasciato la guida della Apple, mi è tornato in mente quel ragazzo che cerca di risparmiare qualche dollaro facendo a meno di dieci floppy disk. Da un lato ci sono i fatti: in tutti questi anni Jobs mi ha convinto a comprare ben più di dieci dischetti. Dall’altro e questa è la parte più interessante ci sono tutte le cose straordinarie e inaspettate che mi ha spinto a mettere su quei dischetti.
|
||
top |