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13 aprile 2014

Sudafrica: 20 anni di apartheid con un altro nome
di John Pilger
Traduzione di Maria Chiara Starace

Su una parete di casa c’è la mia foto preferita del Sudafrica. Sempre emozionante da osservare, è l’immagine scattata da Paul Weinberg di una donna sola in piedi tra due veicoli blindati, i famigerati “hippos”, mentre si muovono per entrare a Soweto. Le sue braccia sono alzate con i pugni chiusi e il suo corpo magro chiama e allo stesso tempo  disprezza il nemico.

Era il 1° maggio del 1985: era iniziata l’ultima grande rivolta contro l’apartheid. Dodici anni dopo, quando mi hanno levato il divieto di entrare in Sudafrica, c’è stato un momento in cui mi sarei dato un pizzicotto,  quando sono arrivato in volo all’aeroporto Jan Smuts di Johannesnurg, e ho consegnato il passaporto a una funzionaria di colore dell’immigrazione. “Benvenuto nel nostro paese,” mi ha detto.

Ho presto scoperto che molto dello spirito della resistenza che incarnava la coraggiosa donna di Soweto, era ancora vivo, insieme a una vibrante  ubuntu (regola di vita che prevede rispetto e aiuto agli altri, n.d.t.) che metteva insieme l’umanità la generosità e l’ingenuità politica africana,  nella decisione dignitosa di coloro che vedevo formare un muro umano intorno alla casa di una vedova a cui minacciavano di tagliare l’elettricità, e nel rifiuto delle persone di umilianti “case del RDP” [Reconstruction and Development Program]che chiamavano canili, e nelle dimostrazioni di massa pulsanti dei movimenti sociali che sono tra i più sofisticati e più dinamici del mondo.

Nel ventesimo anniversario del primo voto democratico, il 27 aprile 1994, è questa resistenza, questa forza per la giustizia e il vero progresso democratico, che dovrebbe essere festeggiata, mentre bisognerebbe capire perché questa viene tradita e  sprecata, e agire di conseguenza.

L’11 febbraio 1990, Nelson Mandela è uscito sul balcone del municipio di Cape Town insieme al capo dei minatori, Cyril Ramaphosa, che lo sosteneva. Finalmente libero, ha parlato a milioni di persone in Sudafrica e nel mondo. Questo è stato il momento, una storica  frazione di secondo  tanto rara e potente quanto nessun altra nella lotta universale per la libertà. Sembrava che il potere morale e il potere per la giustizia potessero  trionfare su tutto, su qualsiasi ortodossia. “Adesso è ora di intensificare la lotta,” ha detto Mendela in un discorso orgoglioso e rabbioso, forse il migliore, o l’ultimo dei suoi migliori discorsi.

Il giorno dopo è apparso per correggersi.   Il governo della maggioranza non avrebbe reso i neri “dominanti”. La ritirata si è velocizzata. Non ci sarebbe stata proprietà pubblica delle miniere, delle banche e delle rapaci industrie del monopolio, nessuna democrazia economica, come aveva promesso con le parole: “un cambiamento o una modifica delle nostre opinioni riguardo a questo, è inconcepibile”. Rassicurare l’establishment dei bianchi e i loro alleati in affari – proprio l’ortodossia   che aveva costruito, mantenuto e rafforzato l’apartheid fascista – è diventata il programma politico del “nuovo” Sudafrica.

Patti segreti hanno facilitato questo. Nel 1985, l’apartheid aveva sofferto due disastri: la borsa valori di Johannesburg era crollata e il regime aveva fatto fallimento a causa del debito straniero crescente. Nel settembre di quell’anno, un gruppo guidato da Gavin Relly, presidente della Anglo-American Corporation, ha incontrato Oliver Tambo, presidente del partito denominato African National Congress e altri funzionari della liberazione, a Mfuwe, in Zambia.

Il messaggio di Relly era che una “transizione” dall’apartheid a una democrazia elettorale governata da neri era possibile soltanto se  “ordine” e  “stabilità” erano garantiti. Questo era il codice liberale per uno stato capitalista in cui la democrazia sociale ed economica non sarebbe mai stata una priorità. Lo scopo era dividere l’ANC tra i moderati con quali si potevano “fare affari” (Tambo, Mandela, e Thabo Mbekl) e la maggioranza che costituiva il Fronte Democratico Unito (UDF)  e che lottava nelle strade.

Il tradimento dell’UDF e dei suoi componenti più efficaci, come l’Organizzazione Civica Nazionale, è ora una storia toccante segreta.

Nel 1987 e nel 1990 dei funzionari dell’ANC, guidati da Mbeki, si sono incontrati con venti insigni membri dell’elite Afrikaner in una dimora di lusso vicino a Bath, in Inghilterra. Intorno al caminetto di Mell Park House, hanno bevuto vino di annata e whisky di malto.  Hanno scherzato sul fatto di aver mangiato uva “illegale” del Sudafrica, in quel tempo oggetto di boicottaggio a livello mondiale: “laggiù c’è un mondo civilizzato,” ricordava Mof  Terreblanche, un intermediario finanziario amico di F.W. De Klerk (presidente bianco del Sudafrica dal 1989 al 1994, n..d.t.). “Se bevete qualcosa con qualcuno… e poi bevete ancora, si arriva a comprendersi. Davvero, siamo diventati amici.”

Questi incontri conviviali erano così segreti che nessuno, tranne pochi prescelti dell’ANC, ne erano a conoscenza. I primi  promotori  erano coloro che avevano tratto vantaggio dall’apartheid come il gigante minerario britannico Consolidated Goldfields (giacimenti auriferi) che aveva pagato il conto alla Mells Park House. L’oggetto più importante di cui si parlava intorno  al caminetto era chi avrebbe controllato il sistema economico dietro la facciata della “democrazia”.

Allo stesso tempo, Mandela conduceva i suoi personali negoziati segreti nella prigione di Polismoor. Il suo principale contatto era Neil Barnard che credeva realmente nell’apartheid e che era a capo dei Servizi segreti nazionali. Si sono scambiate confidenze, si sono cercare rassicurazioni. Mandela ha telefonato a P.W. Botha il giorni del suo compleanno; il Groot Krokodil (il Grosso Coccodrillo, soprannome di Botha)  lo ha invitato a prendere il tè, e, come ha osservato Mandela, ha perfino versato il tè al suo prigioniero. Mandela ha detto; “Sono uscito sentendo che avevo incontrato un capo di stato creativo, cordiale che mi ha trattato con tutto il rispetto e la dignità che potevo aspettarmi.”

Questo era l’uomo che, come Verwoerd e Vorster prima di lui, avevano mandato un’intera generazione sudafricana in un barbaro gulag nascosto al resto del mondo. Alla maggior parte delle vittime è stata negata la giustizia e il risarcimento per questo epico crimine dell’apartheid. Quasi tutti i verkramptes – gli estremisti (i nazionalisti Afrikaaner contrari ai cambiamenti in senso liberale, n.d.t.) come il “creativo, cordiale Botha” – sono sfuggiti alla giustizia.

Che ironia è stata che Botha negli anni ’80 – molto prima dell’ANC un decennio dopo – che aveva smantellato la struttura dell’apartheid razziale e che, fatto fondamentale,   aveva sostenuto una classe di  neri ricchi che avrebbe avuto il ruolo come aveva avvertito Frantz Fanon, di “linea di trasmissione tra la nazione e un capitalismo rampante, ma non camuffato.”

Negli anni ’80, le riviste come Ebony, Tribute ed Enterprise, celebravano le “aspirazioni” di una borghesia nera le cui case di Soweto con due garage, erano incluse nei giri per i turisti che sui quali il regime cercava di fare buona impressione. “Questa è la nostra classe nera,” dicevano le guide turistiche; non c’era però un “medio”, ma solamente una classe intermedia che stavano preparando, come ha scritto Fanon, per “la sua missione storica”. Questa situazione oggi non è cambiata.

Il regime di Botha offriva perfino agli uomini di affari di colore prestiti generosi che arrivavano dalla Industrial Development Corporation (Compagnia per lo sviluppo industriale) che permetteva loro di installare aziende al di fuori dei territori assegnati alle etnie di colore, denominati bantustan. In questo modo un’impresa fondata da neri come la New Afrca Investments, poteva comprare parte della società di assicurazioni Metropolitan Life.  Nel giro di dieci anni, Cyril Ramaphosa era vice presidente di quella che in effetti era una creazione dell’apartheid. Ora è uno degli uomini più ricchi del mondo.

In un certo senso la transizione è stata costante. “ Ci si può mettere qualsiasi etichetta che piace,” mi ha detto il presidente Mandela a Groote Schur*. “Si può chiamate Thatcerite, ma per questo paese la privatizzazione è la politica fondamentale da seguire.”

“E’ il contrario di quello che lei ha detto prima delle prime elezioni del 1994,” ho detto.

“C’è un processo,” è stata la sua risposta incerta, “e ogni processo incorpora un cambiamento.”

Mandela rifletteva semplicemente il mantra dell’ANC che sembrava  assumere le ossessioni di un culto esagerato. C’erano tutti quei pellegrinaggi alla Banca Mondiale e  al Fondo Monetario Internazionale a Washington, tutte quelle “presentazioni” a Davos, tutti quegli sforzi per ingraziarsi le persone, tutti quei consiglieri e consulenti stranieri che andavano e venivano, tutti quei rapporti pseudo-accademici con il loro gergo “neoliberale” e con tanti acronimi. Prendendola a prestito dallo scrittore comico Larry David, uso  l’espressione “un torrente ribollente di cazzate”  travolgeva i primi governi dell’ANC, specialmente i suoi ministeri delle finanze.

Mettendo da parte per un po’ il ben documentato  fatto che  i personaggi importanti dell’ANC si erano arricchiti e il loro debole per gli accordi per l’acquisto di armi, l’opinionista di problemi dell’Africa Peter Robbins, aveva un’opinione interessante su questa questione.  Ha scritto: “Penso che la dirigenza dell’ANC si vergognasse che la maggior parte della sua gente vive nel terzo mondo.”  “Non gli piace considerarsi parte di un’economia per lo più di stile africano. Quindi l’apartheid economica ha sostituito quella legale con le medesime conseguenze per le medesime persone, ed è tuttavia salutata come uno dei più grandi successi nella storia del mondo.”

La Commissione per la Verità e la Riconciliazione (TRC) ha  sfiorato brevemente questa realtà, quando le imprese finanziarie sono state chiamate al confessionale. Queste sedute “istituzionali” erano tra le più importanti, e tuttavia sono state quasi del tutto abbandonate. Rappresentando la più vorace, spietata, redditizie   e letale industria del  mondo, cioè la Camera delle miniere sudafricane, riassumeva  un secolo di sfruttamento in 6 ridicole pagine e mezzo. Non c’erano scuse  per le aree   del Sudafrica trasformate nell’equivalente di Chernobyl. Non c’era alcuna promessa di risarcimento per gli innumerevoli lavoratori  e per le loro famiglie colpiti dalle malattie del lavoro come la silicosi e il mesotelioma. Molti non si potevano permettere una bombola di ossigeno, e molto famiglie non potevano permettersi neanche un funerale.

Con un accento dell’epoca dei caschi da galleria, Julian Ogilvie-Thompson, l’ex presidente della Anglo American Corporation, ha detto alla TRC: “Sicuramente nessuno vuole penalizzare il successo.” Ad ascoltarlo c’erano ex minatori che a malapena potevano respirare.

I governi della liberazione  possono  puntare  ai  risultati veri e duraturi ottenuti fin dal 1994. Però la libertà fondamentale di sopravvivere e di poterlo fare decentemente, è stata  negata   alla maggior parte dei sudafricani che si rendono conto che l’ANC ha investito in loro e nella loro “economia informale”, che avrebbe invece potuto realmente cambiare la vita di milioni di persone. La terra si sarebbe potuta  comprare e riutilizzare per un’agricoltura su piccola scala da persone senza casa, gestita con lo spirito di cooperazione dell’agricoltura africana. Si sarebbero potuti costruire milioni di case, sarebbe stata possibile una migliore assistenza sanitaria e una migliore istruzione. Un sistema di credito su piccola scala avrebbe potuto aprire la strada per avere beni e servizi abbordabili dalla maggioranza. Nulla di tutto questo avrebbe  richiesto l’importazione di attrezzature o di materie prime, e gli investimenti avrebbero creato milioni di posti di lavoro. Mentre diventavano più fiorenti, le comunità avrebbero sviluppato le loro industrie e un’economia nazionale indipendente.

Un sogno irraggiungibile? La violenta disuguaglianza che ora perseguita il Sudafrica non è un sogno. E’ stato Mandela, dopo tutto, che ha detto: “Se l’ANC non distribuisce i beni, la gente deve fare quello che ha fatto al regime dell’apartheid.”

Note

*http://it.wikipedia.org/wiki/Groote_Schuur


Questo articolo è apparso in origine sul Sunday Times di Johannesburg. John Pilger è autore di: Freedom Next Time [La libertà la prossima volta]. Il suo film del 1998, Apartheid Did Not Die [L’apartheid non è morta], è sul suo sito: www.johnpilger.com


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znet/article/south-africa-20-years-of-apartheid-by-another-name

Originale: non indicato

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