Riproduciamo, qui sotto, un pezzo dall’introduzione:

UNA VALLE IN MOVIMENTO

Non per principio, ma per la vita e l’esistenza stessa di un territorio, in  Val di Susa ci si mobilita da più di un decennio per impedire la costruzione di una linea ferroviaria ad Alta Velocità. Si tratta di  una comunità che ha consolidato un movimento di massa; contemporaneamente, la lotta no tav sta trasformando la comunità. Sono qui raccolte e presentate riflessioni e vissuti che provano a  raccontare questa esperienza. Si vuole far conoscere il movimento osservandolo dal suo interno e  allo stesso tempo ragionare sulle difficoltà e sulle possibilità future. In Val di Susa sta accadendo qualcosa di nuovo e inaspettato. In contrapposizione a quanto impongono media, partiti politici,  forze dell’ordine, industriali, amministratori delegati delle imprese, cooperative di costruzione e  magistratura, un movimento di massa cresce, confligge e, iniziativa dopo iniziativa, consolida la consapevolezza di poter vincere. Si tratta di un processo sovversivo perché cambia  le aspettative, i comportamenti,  concretizza una nuova legittimità e instaura  diversi rapporti di forza.

Alcuni protagonisti di queste lotte, come in un’assemblea, prendono qui la parola e intervengono sulle peculiarità e sulle prospettive di un  movimento  che progetta e costruisce per sé  una diversa cooperazione sociale. Sono legami umani, sociali e politici che si radicano concretamente tra la popolazione di un territorio, caratterizzati e finalizzati a costruire e diffondere una contrapposizione, attiva e partecipata. Credenze, esperienze, saperi, scienza altra, coscienza antagonista e resistenza popolare si amalgamano e costruiscono una nuova cultura di parte che potenzia e motiva la lotta, modi di ragionare e di essere che insieme definiscono un punto di vista collettivo che sa contrapporsi, tenere e maturare. La contrapposizione è netta, definita,  sostanziale. Questo consolida un’unità effettiva di intenti che lega e coinvolge soggettività anche molto diverse – le differenze convivono, si rispettano e si sostengono trovando possibilità per esprimersi e confrontarsi, definirsi con più solidità – ciò costituisce la forza del movimento che così si è esteso e ha espresso continuità. Proprio per queste sue caratteristiche il conflitto no tav preoccupa chi si ritiene padrone delle istituzioni. Il conflitto sociale è da questi considerato il cancro da isolare e annientare perché la sua diffusione propone un’alternativa realizzabile al sistema di  dominio attuale che, per garantire grandi profitti per pochi, sviluppa solo crisi, impoverimento e distruzione insensata di risorse collettive. Per le popolazioni della Val Susa il persistere del conflitto sociale genera una possibile alternativa concreta, che costruisce una diversa ricchezza: la formazione di una soggettività antagonista radicata e massificata, che diventa punto di riferimento e proposta di metodo per un nuovo agire sociale e politico. Costruisce un nuovo destino.

Presentiamo in questo libro un percorso in-concluso, anzi potremmo dire che siamo ancora ai prolegomeni di una ricerca artigianale, che si differenzia e contrappone alle fabbriche, alle imprese istituzionali che producono merce-informazione, merce-conoscenza e merce-scienza per sostenere logiche di consenso per il sistema, accumulazione di denaro e privilegi. Si propone di iniziare delle attività per la costruzione di saperi utili per qualcosa come una trasformazione radicale dell’esistente. Si tratta di produrre armi necessarie per poterci muovere e per combattere politicamente nel territorio sociale. Sono dei testi in-conclusi che hanno l’ambizione non solo di essere letti, ma di essere usati da chiunque pensi o sogni un altro mondo diverso da quello plasmato dal capitalismo. Ragionamenti collettivi per fornire degli strumenti da maneggiare, utilizzare, criticare e perfezionare, non per accattivare, non per propagandare o esibire cultura. Teoria per e nella prassi.

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Sabato 05 Gennaio 2013 11:17

Una speranza divenuta realtà
di Gigi Roggero

Il rapporto tra locale e globale, tra progresso e conservazione del territorio. Una raccolta di interviste agli attivisti contro il progetto di alta velocità curate dal centro sociale torinese Askatasuna. Un'esperienza unica in Italia che pone il problema di come dare forma a un'altra politica

Negli ultimi anni lo straordinario movimento che in Val di Susa si oppone alla costruzione del Tav è penetrato nell'ingordo mercato editoriale, con testi che ne spiegano le ragioni da diversi punti di vista (tecnico o morale, legandole alle battaglie per la difesa dei beni comuni o contro la corruzione). Diverso è il discorso di A sarà düra. Storie di vita e di militanza no tav del Centro sociale Askatasuna (DeriveApprodi, pp. 319, euro 18), perché non è un libro sul movimento, ma dentro il movimento. Non vuole semplicemente raccontare, quanto invece aprire un campo di riflessione sui percorsi intrapresi e sul che fare. Non un volume da conservare in biblioteca, bensì un arnese da utilizzare per la costruzione dei conflitti, in Val di Susa e altrove. Per dirla in una parola, realizzata nel suo preciso significato: è una conricerca, quindi come tale inconclusa, perché a differenza dell'inchiesta sociologica si colloca dentro un processo, di cui è al contempo spazio di analisi e motore organizzativo. Non è per semplice riconoscimento che il libro è dedicato a Romano Alquati: i suoi insegnamenti sono infatti esplicitamente richiamati e resi produttivi.

Genealogia di un movimento

Per dare conto della complessità di questo processo, il libro si struttura attraverso differenti livelli di lettura: un modello metodologico, estremamente utile per fissare concetti, punto di vista e cassetta degli attrezzi politica; le interviste a uomini e donne che, nella loro diversità - militanti di centri sociali, attivisti provenienti da precedenti percorsi di movimento, sindacali o fuoriusciti da partiti, figure che hanno avuto qui la loro prima esperienza, tecnici che hanno messo le loro competenze al servizio della battaglia contro il Tav -, compongono il quadro della partecipazione; un'accurata analisi delle interviste che illustra - senza nessun accento enfatico o apologetico - la formazione di una soggettività collettiva. Nelle conclusioni, significativamente titolate «conflitti a venire», il progetto è rilanciato in avanti: la creazione di un sito (www.saradura.it) serve non solo per aggiornare i materiali, ma per estendere la ricerca oltre la Val di Susa, interpellando le lotte a partire dai punti di avanzamento che il movimento No Tav ha determinato.

Senza entrare nel dettaglio delle singole parti, vale la pena concentrare l'attenzione su almeno quattro dei vari nodi che emergono dal volume. Il primo riguarda la forma-movimento. Spesso in Italia tendiamo a darne per scontata l'esistenza, facendola coincidere con le strutture organizzate. Il libro traccia invece la genealogia di un movimento reale, individuandone la materialità del contesto, i soggetti, cioè il chi e il cosa lo anima, il suo processo di formazione e sviluppo, i mezzi e le capacità in grado di costruire, i fini a esso immanenti. Non c'è qui spazio, si sottolinea nelle interviste, per forzature identitarie o narcisistiche, per velleità ribellistiche o protagonismi individuali: il comune si incarna in queste pagine come cooperazione antagonista e forma organizzativa. «Storie di vita e di militanza», dunque, perché la militanza ha trasformato le forme di vita. O per dirla in altri termini, la militanza è diventata una forma di vita per tante persone prima consegnate alla solitudine del lavoro e della socialità coatta di paese.

Il secondo nodo riguarda il rapporto tra spontaneità e organizzazione. Nessuna contrapposizione e dicotomia, al contrario - spiegano molti intervistati - la spontaneità è sempre organizzata, così come l'organizzazione vive dentro l'espressione di spontaneità. Solo in questa tensione la politica non diventa ceto politico, cioè separatezza e rappresentanza. L'organizzazione, dice un militante, «deve essere in grado di trasformare in azione la volontà collettiva». La militanza è, precisamente, lo spazio della combinazione tra spontaneità e organizzazione, partecipazione e progetto, rifiuto e programma, evento e continuità.

Intrecciato agli altri due, vi è il nodo del rapporto tra processo destituente e processo costituente. Diciamo anche che, tra molte altre ragioni, il libro è importante perché demolisce quella mitologia dominante a sinistra di un apparato repressivo totalitario, che si risolve in un appello all'impossibilità del conflitto e dunque all'inazione. Nella sproporzione di forze, si sostiene nelle interviste, non avrebbe senso impostare la lotta in termini militari: a risultare vincente è piuttosto una «strategia del logoramento». Così, la violenza delle misure repressive e di controllo adottate contro il movimento No Tav, lungi dal determinare un ripiegamento vittimistico, sono invece direttamente proporzionali alla loro inefficacia. «Non siamo noi a cercare lo scontro con la polizia, sono loro». Così avviene anche rispetto alla comunicazione: le pratiche di invenzione del movimento hanno sconfitto «una governance mediale di stampo ancora berlusconiano» (si legga a questo proposito la preziosa intervista al collettivo Infofreeflow). Insomma, la contrapposizione alle istituzioni rappresentative è un elemento pratico, non ideologico: la destrutturazione delle prime si accompagna sempre alla creazione di istituzionalità autonoma, è nella rottura che sorge la Libera Repubblica della Maddalena. È cioè il movimento a scegliere la propria agenda, costringendo perfino molte istituzioni locali e suoi rappresentanti a seguirlo e mettersi al suo servizio.

Andare oltre la dicotomia tra spontaneità e organizzazione ci porta infine al nodo della composizione di classe, termine ripreso dalla cassetta degli attrezzi operaista. Siamo qui di fronte a un aspetto cruciale e da approfondire: composizione tecnica e politica non vivono infatti in sfere separate, ma si determinano sempre all'interno di un rapporto sociale. La soggettività delle lotte si produce nella loro tensione e trasformazione. Su questo aspetto è importante sviluppare l'inchiesta.

Generalizzare la Val di Susa

Il libro non vuole presentare il movimento No Tav come una ricetta. Vengono messe in evidenza le specificità del contesto, la Val di Susa, con le sue peculiari caratteristiche storiche e sociali, dal secondo dopoguerra legate alla città-fabbrica e poi dello spazio metropolitano torinese. Si insiste sul fatto che il No Tav non è un movimento contro il progresso e lo sviluppo, ma per un progresso e uno sviluppo radicalmente differenti e antagonisti a quelli disegnati dal capitalismo - potremmo anche dire alternativi, se questa parola non fosse stata inquinata da una vuota genericità. Ma questo passaggio non era scontato: il No Tav l'ha conquistato trasformando discorso e pratica politica, uscendo dai confini della Val di Susa per generalizzarsi dentro la crisi, divenendo cioè un movimento contro le politiche di austerity, l'impoverimento e il peggioramento delle condizioni di vita. Più volte definito l'occupy italiano, al di là della suggestione è un fatto che il No Tav abbia posto con la potenza delle lotte il problema della ricomposizione. In mancanza di ciò il movimento, nella sua formidabile capacità di resistenza e forza inventiva, rischia di restare isolato. «Non si può vincere da soli»: come fare la Val di Susa nelle metropoli, ecco l'interrogativo e il compito politico che qui si impongono con urgenza.

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http://www.notav.info
27 gennaio 2013 at 19:52

Val Susa chiama Italia: i media come campo di battaglia Intervista a Infofreeflow

Pubblichiamo questa intervista (integrale) al collettivo  InfoFreeFlow di Bologna, tratta da A sarà düra. Storie di vita e di militanza no tav, a cura del centro sociale Askatasuna, Edizioni Derive Approdi.

Infofreflow nasce nel 2006 all’interno del Laboratorio Occupato Crash di Bologna come focus group e percorso di attivismo sulle tematiche dell’hacking e dei diritti digitali. Con l’avvento dei social network e le priavvisaglie dell’attualecrisi finanziaria, amplia lo sguardo ai terreni dell’economia politica, della medialità e della governace in Rete.

Per ulteriori informazioni sulle attività di Infofreeflow: http://infofreeflow.noblogs.org. e la rubrica su Infoaut.org CLIP BOARD


Qual è stato il significato politico dell’uso dei media dal basso durante la battaglia del 27 giugno contro l’apertura del cantiere per l’alta velocità?

A nostro avviso il 27 giugno 2011 si è espressa, per la prima volta in Italia dentro ad una giornata di mobilitazione nazionale indetta autonomamente e dal basso, una vera e propria contro-cooperazione mediale in tempo reale e di segno e finalità opposte a quelle dei media mainstream. Un salto di qualità prodotto dalla convergenza di una pluralità di fattori, tra i quali il più importante è la presenza di un movimento reale ed inclusivo sul territorio interessato, in grado di dotarsi di istituzioni autonome attraverso cui organizzare strutture e dinamiche assembleari, logistiche e  ricreative; capace di superare un piano etico di vertenzialità per muovere una critica complessiva al sistema attraverso l’auto-narrazione di sé e la memoria delle lotte; composito per età e condizione lavorativa; in grado di saldare cultura popolare ed analisi scientifica, senza per questo cedere di un millimetro al populismo da una parte ed all’intellettualismo dall’altra. Non solo: nei mesi precedenti, con l’attraversamento tattico da parte dei movimenti della stagione referendaria – quale momento di emersione e dibattito attorno alle tematiche dei beni comuni – si sedimenta un’opinione pubblica sensibile e ricettiva al discorso ed alle pratiche no tav. Caratterizzata da rigetto ed odio verso un governo (come più in generale verso un’intera classe politica) esecutore di interessi mafiosi e lobbistici, e promotore di un modello di sviluppo deleterio ed eterodiretto. Governo che oltretutto, tramortito dalla duplice sconfitta elettorale, nel giro di cinque mesi sarebbe stato travolto dalla crisi del debito sovrano. Irrompe anche il protagonismo di una nuova generazione di mediattivisti che, itineranti come i Wobblies statunitensi di inizio Novecento, con nuove capacità e competenze sfrecciano dall’uno all’altro dei nodi della rete, fungendo da connettori e elaboratori delle rappresentazioni, delle iniziative diffuse e delle spinte comuni agli attori di cui sopra: rivendicazione di democrazia diretta e beni comuni e rigetto della classe politica. Cogliendo l’essenza dei media in rete contemporanei come ambienti di costruzione sociale, la scommessa è stata quella di agire dentro, contro ed oltre le loro funzionalità di riproduzione di consenso e controllo – per coagulare esperienze e pratiche autonome, autogestionarie e conflittuali, nei boschi della Clarea come nelle piazze italiane da Torino a Palermo. Una full-spectrum resistance che procede attraverso la tessitura virale di reti di reti tra uomini e macchine, a partire dalla risonanza, amplificazione e moltiplicazione di pratiche collaborative.
Il 27 giugno Radio Blackout – la storica emittente antagonista torinese – è un fiume in piena: riceve e ri-diffonde corrispondenze in diretta telefonica (anche per le difficoltà di veicolare informazioni dalla Libera Repubblica della Maddalena tramite la rete internet, dalla copertura estremamente limitata); segnalazioni di posti di blocco, già rodate nella quotidianità torinese, per permettere agli automobilisti sintonizzati sulla frequenza 105.250 (e già esasperati da ore di lavoro che li aspettano o che si stanno lasciando alle spalle) di aggirare volanti e pattuglie di polizia; sms di incitamento inviati alla redazione da singoli e collettività solidali, in Italia ed all’estero; offerte di aiuto tecnico ed indizione di presidi ed iniziative in tutta Italia. Il tutto con continui rimandi ad altri media, di movimento e non, su cui torneremo tra un attimo. Ovviamente una tale attenzione porta con sé un attraversamento di utenza considerevole per la capacità di una struttura territoriale autogestita; ed è allora che si mobilitano altri amici del popolo no tav. Da una parte, le radio di movimento: la bresciana Radio Onda d’Urto, la romana Radio Onda Rossa e tante altre sospendono la loro programmazione per permettere che la diretta degli eventi raggiunga anche i loro territori. Dall’altra, a fronte dell’altissimo numero di accessi registrati dal sito di Radio Blackout – che toccherà picchi di 3000 contatti il 3 luglio minacciando di collassare – il giro allargato degli hacker e degli smanettoni di movimento allestisce prontamente una serie di mirror, replicando lo streaming informativo dell’emittente torinese su svariati altri server connessi in rete, alleviandone così il peso. Nei giorni precedenti, a partire dal 21 giugno, a Radio Blackout si affianca inoltre Radio Maddalena Libera, emittente allestita sul campo al presidio no tav di Chiomonte e raggiungibile sulla frequenza 88.6 nella zona tra Susa ed Exilles. Una preziosissima fonte di informazione in tempo reale, utile alla mobilitazione nella zona e come canale di contatto con Torino, a cui arrivano aggiornamenti su delibere dell’assemblea e spostamenti delle forze dell’ordine. Fino allo sgombero del 27, quando ha continuato a trasmettere fino all’ultimo, con l’abbattersi dei lacrimogeni della polizia sulla postazione, che ha indotto i redattori a sospendere la diretta. Ma, oltre al protagonismo dei media di movimento, nel 27 giugno e 3 luglio si ha il battesimo del fuoco dei social media nella costruzione mediale di giornate di lotta campale. Un passaggio a suo modo figlio di precedenti sperimentazioni sul supporto della rete alla creazione di consenso ed alle mobilitazioni, avviate ai tempi del movimento studentesco dell’Onda del 2008-2009 fino ad arrivare alla strategie telematiche di organizzazione e promozione della campagna referendaria di giugno da parte di associazioni e comitati della società civile. Ma anche della grande emotività suscitata dai sommovimenti del mondo arabo di qualche mese prima, di cui parte delle dinamiche di rete sono state replicate: individuazione collettiva di date e slogan iconici, ed utilizzo militante e di parte dei social media; ma anche ri-diffusione di notizie non confermate e travisamento di mediattivisti e commentatori esterni per effettivi presenti sul campo. Sui profili storici no tav (e dei movimenti ad esso vicini), e su quelli spuntati dal nulla per l’occasione, scorre un flusso ininterrotto di  banner e video virali, indirizzi e numeri di telefono utili, eventi Facebook per presidi solidali in giornata ed autobus per il 3 luglio.
I tentativi censori da parte delle autorità sono immediati, ed infatti l’account Facebook di Infoaut.org viene temporaneamente sospeso – ufficialmente per «registrazione sotto falso nome» – dopo che il 28 giugno l’odiato deputato PdL Agostino Ghiglia, da sempre fautore della repressione pro-Tav, aveva invocato in un’interrogazione parlamentare l’oscuramento dei media critici verso la grande opera. Su Twitter l’intenso utilizzo degli hashtag (le parole chiave utilizzate dagli utenti del social media nella ricerca di informazioni, precedute da un cancelletto) fa saltare in cima ai trending topic più consultati #notav e #chiomonte, e l’interazione tra gli autori delle serratissime dirette militanti, talvolta perfetti sconosciuti fino ad allora, si fa ancora più immediata. Nei 140 caratteri a disposizione dell’utenza del social media riemergono anche, presi a prestito dalla cassetta degli attrezzi del mediattivismo, una serie di pratiche di subvertising ed information guerrilla ai danni dei partiti e dei fautori del Tav. Tra questi è da riportare il dirottamento/squatting dell’hashtag «#saldi» durante il 3 luglio, afferente alle concomitanti svendite e partito dal collettivo Wu Ming. Accoppiando a «#notav» – parola chiave messa in secondo piano dai meccanismi di indicizzazione interna del social media, essendo stata trending pochi giorni addietro – i termini «nervi #saldi», si ottiene un détour del significante – piratandone il significato – e l’aggiramento dei succitati meccanismi di indicizzazione, attraverso quella che Flavio Pintarelli ha definito una vera e propria forma di hacking comunicativo. Pur nella sua contingenza, tale pratica resta un’ipotesi suggestiva attorno a come immaginare il sovvertimento di tutto un design dei social network e delle dinamiche gregarie che vi si esprimono – oltre che della profilazione dei dati personali e della mercificazione delle interazioni per conseguire l’accumulo di profitti. Altre risorse comunicative vengono mobilitate: probabilmente inedita per l’Italia la diretta video, in live streaming, dell’irruzione delle Forze dell’Ordine nella Libera Repubblica della Maddalena da parte di manifestanti dotati di connessione mobile. Mentre classico, durante il 3 luglio, si dimostra l’utilizzo di video ed immagini (postate su YouTube e Flickr) ai fini di inchiodare le Forze dell’Ordine alle loro responsabilità: ritraenti i lacrimogeni da esse sparati, le piante incendiate da una raffica, il lancio di oggetti dal viadotto sui manifestanti, le violenze sui no tav in stato di fermo. Tutte queste pratiche di contro-uso dei social media si sono riverberate su quelle di auto-narrazione dei movimenti, diversificandone le capacità: è stato il caso degli «Storify», raccolte tematiche volte ad inquadrare a posteriori i passaggi più salienti della giornata, e di inserirli in una costruzione di senso di parte.
Ultimo, ma non meno importante alla luce di quanto detto in precedenza, il ruolo dei siti di riferimento del movimento no tav e dell’area autonoma. Portali come Notav.info, Infoaut.org e le loro redazioni hanno messo sul piatto un patrimonio di legittimità e reputazione costruito in anni di lavoro tecnico e giornalistico, che ha consentito l’espressione del punto di vista delle lotte attraverso dirette, conferenze stampa, testimonianze, diari ed interviste. Ci si è mossi anche in termini di facilitazione della mobilitazione diffusa, con la connessione delle realtà militanti di base operanti nei diversi territori grazie a legami di affinità preesistenti, la creazione di pagine ad hoc per raccogliere tutte le segnalazioni di iniziative spontanee comparse sui social network, e la traduzione di tweet e comunicati in altre lingue per rendere partecipi degli eventi media e navigatori stranieri del web. E la voce del movimento non si è sottratta agli ambiti di dibattito, riflessione e metabolizzazione collettivi in rete sul pre e post 27 giugno (e 3 luglio), commentati con editoriali ed approfondimenti. In definitiva, nel cuore dell’estate 2011 si è ottenuta dall’interazione di no tav e solidali (a differenza di eventi come il G8 genovese, per buona parte non «addetti ai lavori», ed anche molto lontani dal terreno fisico dello scontro!) una produzione autonoma, partigiana ed in tempo reale di rappresentazioni e narrazioni mediali proprie – una vera e propria mass-self communication – laddove in precedenza si subivano quelle del mainstream anche nelle forme del commento e della confutazione. Innescando nel contempo circuiti di mobilitazione dentro e fuori la rete, grazie all’interazione tra spontaneismo collaborativo del pubblico e lavoro di cura dei mediattivisti militanti. Come scritto in quei giorni in un editoriale di Infoaut, ci siamo trovati di fronte alla proliferazione ed al lavoro, in buona parte sinergico, di moderne gazzette sovversive di massa – sperimentazioni di istituzioni di contro-potere mediale tutte da costruire.

Perché avete parlato in quell’occasione (e in che senso l’affermazione è valida per la storia lunga del movimento no tav) di uno «scontro tra network», respingendo la lettura semplificata che parlava di «Vietnam dei media tradizionali»?

Riteniamo fuorviante adottare una dicotomia «media tradizionali/nuovi media», «media digitali/media analogici» e persino «media broadcast/media multicast» ai fini di determinarne una maggiore o minore efficacia comunicativa. Non solo oggi il sistema mediale globale ha raggiunto un forte livello di integrazione tra diversi ambienti comunicativi ma da sempre, all’insorgere di nuovi strumenti di comunicazione, i media preesistenti si riconfigurano per includerli nelle proprie possibilità e framework espressivi. E più in generale possiamo dire che si amplificano e si compenetrano a vicenda: dal video-giornalismo ai blog ospitati sui siti delle grandi testate fino ad arrivare alle app per visualizzare determinati contenuti informativi su smartphone. Non solo: anche il mainstream sta diventando partecipato e l’ecosistema informativo italiano è segnato da un sempre più accentuato livello di integrazione tra media generalisti e media sociali. Se quindi – anziché attribuire il successo di una strategia comunicativa ai meri strumenti tecnici utilizzati – prendiamo in esame le risorse materiali, competenziali ed organizzative schierate dalle controparti, possiamo interpretare le traiettorie di giornate di lotta come quelle in esame partendo da un ragionamento attorno all’elemento umano: per riflettere su chi confezioni informazione, con quale legittimità, come lo faccia, ed attraverso quali canali e con quali tattiche la diffonda. Altrimenti non si spiegherebbe la centralità, nei termini precedentemente discussi, di un «vecchio» media come Radio Blackout nelle giornate del 27 giugno e del 3 luglio. E si potrebbe citare il ruolo giocato da un media broadcast televisivo come Al-Jazeera nel corso della primavera araba –le cui dirette dal Cairo durante il blackout dell’internet egiziana erano state a tal punto ri-diffuse e fatte proprie dall’utenza dei social media da causarne la messa al bando nella Libia di Gheddafi, prossima all’esplosione. Del resto, è ormai da tempo che quella stessa emittente opera un lavoro di selezione e promozione di materiale audiovisivo – ad essa congeniale – reperibile su YouTube ed altri portali: ed attorno al quale crea trasmissioni televisive distribuite sotto licenza Creative Commons!
Anche in Italia comunque il mainstream è stato capacissimo di rovesciare a proprio vantaggio le dinamiche di circolazione dell’informazione in rete; attraverso gli strumenti dell’emotività e della morale, e ben oltre il 3 luglio. Ad esempio, durante l’occupazione dell’Autostrada A32 il 29 febbraio 2012, a seguito dell’esproprio dei terreni dei no tav in Val Clarea e del ferimento del militante Luca Abbà. In quell’occasione le parole rivolte da un manifestante ad un carabiniere – apostrofato come «pecorella» – sono state riprese da una troupe del Corriere della Sera, presente sul teatro degli scontri con diversi cronisti embedded; per poi essere fatte oggetto di un’ampia opera di stigmatizzazione morale da parte del mainstream, traslata nei social media e da questi ri-amplificata a partire dagli account dei cronisti e di parte del loro pubblico. Con effetti deleteri per la legittimità fino ad allora goduta dalle ragioni no tav in quegli ambienti. Una sortita contenuta solo dall’indignazione seguita alla successiva notte di violenza poliziesca, abbattutasi sui presidianti e sui cittadini del vicino abitato di Chianocco. Consci di questo, diciamo che tra il 27 giugno ed il 3 luglio è stata sconfitta una governance mediale di stampo ancora berlusconiano che, coniugando la propaganda scientifica spicciola e la proiezione di un’immagine di unanimità e consenso delle forze politiche ed economiche attorno alla realizzazione del Tav, ha cercato di riproporre la tattica della spirale del silenzio: dare l’impressione di essere la voce dominante nel dibattito e nella società ed evitare di assumere il movimento come un interlocutore, al massimo liquidandone a distanza le posizioni attraverso impersonali veline e copia-incolla calati dall’alto di qualche ufficio stampa di partito. Questo meccanismo, già malconcio dopo l’exploit dei referendum, è andato in pezzi davanti ad una rete informata e presidiata dalle ragioni dei no tav nei suoi punti più sensibili. Sotto i colpi degli hashtag di Twitter, del florilegio di gruppi, eventi e pagine di solidarietà su Facebook, dei proclami lanciati dalle bacheche degli Indignados e della base del Popolo Viola e del Movimento 5 Stelle e delle conferenze stampa ospitate dai giornali telematici e dai siti di movimento, ma soprattutto delle intelligenze che li innervavano. Nemmeno le vecchie volpi del mainstream come «La Repubblica» ed il «Corriere della Sera» hanno allora saputo farsi garanti e custodi di un terreno di rappresentazione consensuale del campo di battaglia e dei suoi attori – necessario per la riproduzione della coesione emozionale dell’audience attorno alle ideologie dominanti. Lo si può desumere dalle loro pagine Facebook, dove si commentavano le ricostruzioni degli eventi in Val Susa. In quell’occasione sono stati sporadici i commenti che riprendevano la lettura redazionale dei fatti, la quale invitava ai distinguo tra buoni e cattivi ed all’isolamento dei provocatori tra i supposti «manifestanti pacifici» – una costante in Italia, ormai, di ogni grande giornata di mobilitazione di segno conflittuale. Ci sembra invece che sia stato prevalente il punto di vista polemico – di inimicizia e scontro senza mediazione tra le opposte visioni pro e contro il Tav; e fuori controllo la circolazione, su quegli spazi e non solo, di materiale audiovisivo scomodo per il mainstream, diffuso molto più rapidamente ed in quantità che in passato. A ciò si è accompagnata una gestione delle dirette lacunosa (con un vuoto informativo da parte di Repubblica per circa trenta minuti a ridosso dell’attacco della centrale il 3 luglio) o maldestra (la segnalazione di Benedetta Argentieri dal Corriere, in quell’occasione, degli applausi dei valsusini ai «Black Bloc» – anche per la presenza in rete di un video che li testimoniava – ha creato discrepanze nella narrazione ufficiale della giornata). Ancora più inconsistente è stata la presa del mainstream su Twitter, e la sua capacità di sedimentare linguaggio e senso comune su quel terreno di scontro. Nel migliore dei casi le redazioni dei quotidiani hanno utilizzato il social media come uno strumento di ripubblicazione delle proprie breaking news e non come un ambiente attraversato da flussi emozionali e partigiani, da vivere e curare come tale. Laddove in altri paesi cronisti, redattori ed editorialisti delle più importanti testate sono presenti sui social media con i propri account, la carenza di giornalisti italiani professionisti in quella sede ha lasciato campo libero al movimento e ad un linguaggio generalmente più informale e partecipe.
È stata una grande lezione per il nemico che ovviamente, non essendo un oggetto inanimato, dopo averla imparata ha cominciato a metterla in pratica. Ed infatti nei mesi successivi il mainstream italiano ha cominciato progressivamente a contrapporsi al movimento no tav anche sui social media nell’intento di disperdere in un rumore di fondo sempre più assordante le voci dell’informazione di parte, che pure vi erano presenti già da molto tempo. Sullo sfondo si è verificata una mutazione della geografia mediatica italiana: Twitter ha infatti iniziato una fase di socializzazione già sperimentata da altri media e forme di rapporti economici in passato. L’utenza del pubblico si è allargata e, accanto a profili storici di movimento e micro-diari personali, sono nate twitstar liberal ed hanno aperto il proprio account personaggi pubblici dello spettacolo e del mondo dell’informazione – con annessa massa acritica di fanboy e fangirl. Contemporaneamente e conseguentemente, ha preso il via un forte processo di ristrutturazione tecnologica del mainstream generalista che nei social media ha cominciato ad investire know how, capitale reputazionale e risorse economiche. Quest’insieme di fattori ha provocato una mutazione della sfera pubblica di Twitter in Italia e l’ha resa soggetta a due movimenti, uno orizzontale ed uno verticale, solo apparentemente contrapposti tra loro: da una parte essa si è dilatata all’infinito, mentre da un’altra si è prodotta una gerarchizzazione dei flussi di comunicazione e delle categorie di senso che vengono prodotte. Forte di questo nuovo rapporto di forza, il mainstream italiano ha lanciato, anche attraverso i media sociali, diversi attacchi contro il movimento: è stato per esempio il caso degli hashtag #bobbio (laddove un epiteto offensivo vergato su una saracinesca e rivolto ad un capzioso cronista pro-Tav della Stampa, decontestualizzato da una ricostruzione fotografica, era stato visivamente associato al ritratto del filosofo torinese) e del già citato #pecorella. Vere e proprie operazioni di guerriglia marketing contro il movimento che nascevano dalle rinnovate capacità del mainstream di presidiare ed infiltrare spazi pubblici e social network, anche sfruttando la cooperazione comunicativa di soggetti e reti eterogenee non immediatamente riconducibili alle sue logiche. Una tattica resa tanto più efficace dal digital divide che ancora affligge lo stivale e che rafforza i caratteri autoreferenziali del mainstream: per una larga fetta dell’audience italiana gli organi di informazione generalisti, anche in rete, rimangono comunque le fonti più autorevoli ed ascoltate.

Quali sono, secondo voi, gli assi principali su cui i media mainstream hanno condotto la loro guerra di propaganda contro il movimento ?

Una piccola premessa di metodo per rispondere a questa domanda. Nelle cronache e nei racconti provenienti dalla Val Susa, sia dopo il 27 giugno e il 3 luglio, che dopo l’incidente a Luca Abbà provocato dalla polizia, il problema della rappresentazione e della propaganda operata dal mainstream nelle sue diverse articolazioni e piattaforme è una costante che emerge continuamente. Quello che però colpisce è come spesso le strategie editoriali adottate dalla carta stampata o dai network televisivi vengano spesso derubricate a «bugie», «menzogne», «distorsioni della realtà». Affrontare il problema delle propaganda mainstream contro il movimento no tav muovendosi lungo questo piano di ragionamento rischia di produrre una critica tanto infinita quanto inefficace sul piano della lotta, perché incapace di mettere a fuoco quella che è la funzione dei media nella società odierna. Per usare le parole di Silvano Cacciari: «non c’è mondo senza costruzione sociale della realtà, non c’è costruzione sociale della realtà senza media». Gli apparati mediali gestiscono la realtà attraverso l’istituzione di un regime di verità socialmente accettato nelle credenze e nei sistemi di valore, intervenendo nelle formazione delle stesse strutture del vedere e del credere. La rappresentazione, le sue forme e le sue strutture hanno infatti come finalità ultima quella di definire norme, simboli ed insiemi collettivi di senso in grado di sollecitare consenso ed indurre pratiche e legami sociali, connettendo tra di loro diversi settori di società. In questo senso il dispositivo del mainstream non va considerato come un mero mezzo di comunicazione, ma come una vera e propria tecnologia politica che, attraverso un discorso, attiva delle tecniche su un dato campo, le applica e le giustifica.
Ora, va detto che i tradizionali dispositivi di formazione della notizia sono differenti: agenda setting (ovvero strutturazione del dibattito politico, delle tematiche da affrontare e dell’attribuzione di priorità ai problemi sul piatto della bilancia), priming (cioè attribuzione di maggior attenzione a determinate tematiche piuttosto che ad altre con l’intento di influenzare il giudizio dell’opinione pubblica sull’operato e le attività degli attori politici) o ancora l’indexing (ossia l’indicizzazione del rilievo di notizie e differenti punti di vista in base all’importanza percepita su una data questione tra le élite politiche). Per motivi di spazio però vorremmo soffermarci sul processo di framing con cui il mainstream ha coperto le vicissitudini del movimento no tav ed il progetto di costruzione della linea Torino-Lione. Il framing costruisce una particolare cornice cognitiva intorno ad un evento e lo contestualizza, circoscrivendone così il possibile campo di interpretazione da parte del pubblico. Non stiamo parlando di slogan o parole d’ordine: quella che stiamo descrivendo è una precisa modalità di azione e un elemento profondamente relazionale. Innanzi tutto perché è un attivatore di condotta: delimita la prospettiva da cui guardare una tematica e fissa l’ordine del discorso con cui essa viene affrontata, con l’obiettivo di indurne l’accettazione e scatenare comportamenti socialmente diffusi intorno ad essa. Affinché questo accada, viene dato in pasto al pubblico materiale che fa ricorso a codici culturali immediatamente accessibili a tutti gli attori coinvolti all’interno del processo comunicativo: non di rado quando si costruisce una news si ricorre a «sceneggiature» già utilizzate in passato, che siano in grado di suggerire analogie con storie precedenti. Infine il framing produce profondi stimoli emozionali che provocano sentimenti ancestrali dell’animo umano: come ansia, paura ed euforia i quali rimangono impressi nella memoria a lungo termine. In questo modo la realtà mediatica diventa un elemento attivo nella vita di una comunità ed interviene nelle interazioni che si creano tra i vari attori sociali che la popolano. I frame principali che il mainstream ha utilizzato per inquadrare la lotta del popolo valsusino e la costruzione della linea Torino-Lione sono stati principalmente due: il primo è l’affermazione dell’equazione tra Tav, progresso, tecnologia e sviluppo; il secondo è la rappresentazione dell’ «album di famiglia» del movimento no tav, colmo di fotografie che ritraggono personaggi spaventosi con storie inquietanti alle spalle: una su tutte ovviamente è l’abusatissima figura giornalistica del cosiddetto Black Bloc. Tina (There Is No Alternative) e paura: due tattiche utilizzate sin dai tempi della Thatcher.

Con quali elementi nello specifico sono stati costruiti  questi due frame?

Il primo utilizza una mitologia socialmente unificante che ha attraversato diverse epoche, ovvero quello della tecnologia come panacea a tutti i mali sociali. Un’antica tecno-utopia che da Adam Smith in avanti ha individuato una rapporto diretto e reciproco tra la proliferazione delle reti tecnologiche (ivi comprese ovviamente quelle di trasporto) ed un avanzamento economico e culturale. Un mito che oggi ha un respiro egemonico in quanto carattere costitutivo del nostro tempo, segnato dalla cosiddetta condizione post-moderna e dalla supposta fine dei grandi racconti ideologici, sostituiti dal grande racconto della tecnica. Oltre che a nutrirsi degli elementi narrativi sedimentati nell’immaginario collettivo nel corso degli ultimi tre decenni, esso ha trovato nuovo slancio all’interno della cornice della crisi globale scoppiata nel 2008, dove le le grandi opere sono presentate al pubblico come modello di sviluppo necessario,  exit strategies indispensabili per porre un argine alle ricadute della crisi. Come dire «la luce sta in fondo ai cinquantasei chilometri di tunnel che attraverserà le Alpi fino a Lione!». Perdere quel treno significherebbe non «tenersi ancorati alla razionalità ed alla realtà» (una delle espressioni più ripetute da uomini politici, editorialisti ed imprenditori). Il Tav nella narrazione mainstream assurge a taumaturgico volano di sviluppo e rilancio economico, sia del paese che dello stesso territorio valsusino. In quanto metafora di progresso e modernità esso assume caratteri di irreversibilità e di ineluttabilità per il destino dell’Italia: l’«alternativa» proposta dal mainstream è quella tra un’opera definita come «assolutamente necessaria» per il paese e l’inasprimento della crisi (rinuncia a posti di lavoro e prospettive per le giovani generazioni) accompagnato da una profonda regressione culturale e un «ritorno all’Ottocento» (parola di Chiamparino!). Questo frame è attraversato da un’idea e da un’estetica monodimensionale di progresso, un mantra che con un colpo di spugna cancella la tendenza devastatrice del capitalismo finanziario, gli interessi affaristici che coinvolgono partiti ed organizzazioni criminali e l’insostenibile impatto ambientale che la realizzazione dell’opera comporterà per il territorio e la vita di un’intera popolazione. Allo stesso tempo però attiva due diverse emozioni compenetrate tra di loro: paura (quella di vedere un’ulteriore declino economico del paese) e speranza (quella di superare questa fase di dissesto e degrado sociale ed economico).
Il secondo frame è perfettamente coerente con il primo. Definito come «luddista» dall’ex-ministro Romani, il movimento no tav è stato spesso identificato nell’espressione banalizzante del «popolo del no»: raccontato in termini esclusivamente negativi e stigmatizzato perché incapace di porsi su un piano dialettico propositivo e di confronto. Se nei resoconti del circuito mediatico mainstream il Tav è simbolo di modernità ed opportunità di rilancio del paese, coloro che praticano un’opposizione alla costruzione di quest’opera faraonica sono personaggi anacronistici, «fuori dal tempo» che assumono marcati connotati di irrazionalità estetica e politica. La costruzione della figura del Black Bloc – che sulla stampa passa attraverso le cosiddette news tematiche, ovvero quelle che descrivono i personaggi ed il contesto in cui si svolge un evento – lo dimostra chiaramente. Nei giorni successivi al 3 luglio il ritrovamento di alcune bottiglie di vetro nei boschi attorno a Chiomonte fa parlare «Repubblica» di «Black Bloc in preda all’alcool e ad una fortissima esaltazione». Un militante no tav bolognese arrestato e brutalmente pestato dalla polizia viene descritto come «illuso», cioè come un soggetto estraneo alla realtà che lo circonda. Per non parlare di un’intervista al padre di una militante no tav arrestata durante l’assedio all’area del non-cantiere. Inventata di sana pianta da un cronista di «Polis» e ripresa da «La Stampa», quest’intervista racconta, con la voce di un genitore sconsolato «dall’assoluta impossibilità di capire» la figlia, la storia di una reietta della società priva finanche dei più elementari legami familiari. Ci importa poco sottolineare la totale mancanza di deontologia da parte del ceto giornalistico italiano, e troveremmo ridicolo questionare sull’etica professionale di apparati mediali che non da oggi sono dispositivi centrali nella governance dei territori e nella neutralizzazione dei movimenti. Pennellare figure spaventose, accumulando dettagli inquietanti agli occhi del grande pubblico, con l’intento di isolare un movimento sociale, rientra tra le pratiche consolidate del mainstream generalista. Per farlo esso ricorre spesso (e questo è avvenuto anche nel caso del movimento no tav) alla figura del folksdevil: una categoria giornalistica, sopravvissuta a qualsiasi ristrutturazione tecnologica, che indica nei giovani un gruppo al di fuori della razionalità, della legge e della morale. «Ragazzi incappucciati e pieni di birra», «ragazzini di 20 anni con occhi di puro odio», «giovani che sulla bocca hanno cori di un’altra epoca»: così la stampa descriveva alcuni dei militanti no tav che avevano preso parte alla battaglia della Maddalena del 27 giugno. Figure dalla razionalità acerba e fuori controllo che in occasione di fatti violenti sono il propulsore ideale del panico morale, cioè di quella forte ondata emotiva che individua in un episodio (o in un gruppo di persone) una minaccia per i valori della società. Nella costruzione della cornice meta-contestuale che è il framing della lotta del movimento no tav, il loro profilo è stato arricchito da un insieme di altri particolari che rimandano a vere e proprie drammatizzazioni cinematografiche: pensiamo per esempio alle notizie riguardanti il ritrovamento di «esplosivi», «bazooka», «lanciarazzi», «bombe di ammoniaca», «lanciafiamme», «arsenali», «visori notturni» e «frombole» con tanto di «manuale del perfetto fromboliere» (!!). Quella andata in onda a Chiomonte non sarebbe stato insomma un grande momento di resistenza popolare, bensì un action movie con una sceneggiatura a metà tra «Syriana» (non dimentichiamo che Virano ha dichiarato che il movimento avrebbero usato «i bambini nei cortei come foglie di fico», cioè scudi umani) e «Anni di piombo». I protagonisti? «Professionisti della violenza» «pronti a scatenare l’inferno» con una fisionomia ricalcata ad arte ed immediatamente commestibile per il pubblico italiano: «squadre militarizzate», «eversori», «terroristi», «ex-brigatisti», «bande armate», «ultras», «guerriglieri», «cattivi maestri» e le immancabili «frange più violente d’Europa». Corpi alieni alla comunità valsusina e venuti da fuori con «l’unico intento di scontrarsi con la polizia». Anche qui siamo di fronte ad attori la cui descrizione è tutta curvata in negativo: senza volto, senza identità, senza un’ideologia chiaramente definita. Tutti particolari mancanti che potranno essere colmati da un pubblico terrorizzato.
Sono state queste le principali strategie retoriche prodotte dal mainstream generalista quando, attraverso i suoi contenuti, ha costruito per lo sguardo del pubblico gli oggetti «Val Susa», «movimento no tav» e «linea Torino-Lione». Vere e proprie pratiche discorsive che rivestono molteplici utilità dal punto di vista della notiziabilità, cioè del modo in cui gli apparati informativi traducono operativamente le loro esigenze in criteri di rilevanza: esse sono strumenti di emergenza e di regolazione immediatamente produttive sul piano politico per diversi ordini di motivi. Primo: hanno l’obiettivo di dequalificare il movimento no tav politicamente, oltre che moralmente, allontanando da esso strati di opinione pubblica non necessariamente ostili alle sue motivazioni. Secondo: riaffermano il ruolo delle istituzioni in una situazione di emergenza, e di conseguenza la legittimità dell’azione repressiva, della militarizzazione del territorio e delle procedure di realizzazione del Tav. Terzo: non meno importante, creano uno spazio comunicativo di confronto/scontro tra le diverse forze politiche istituzionali e partitiche. Quarto: si rivolgono direttamente al movimento attraverso la creazione di categorie binarie artificialmente costruite («buoni» e «cattivi», «valsusini» ed «esterni», «democratici» e «frange estreme») con l’intento di produrre al suo interno delle fratture in grado di disarticolarne la composita eterogeneità che ne rappresenta uno dei punti di forza principali. Significativa da quest’ultimo punto di vista è l’edizione di «La Repubblica» del 4 luglio. Non solo le cronache dei reporter di Ezio Mauro adombrano «il rischio per il fronte no tav di passare dalla parte del torto a causa dei violenti che hanno impedito che si parlasse dei buoni», ma soprattutto per l’editoriale di Carlo Galli dal titolo «Il dovere di saper distinguere». Un attacco a Grillo certamente, ma sopratutto un tentativo di fissare i paletti della legittimità delle pratiche del movimento – colpevole di non aver distinto, a suo dire, tra «protesta e violenza» – ed un perentorio invito ad «arretrare: col passo indietro della responsabilità, della chiarezza e della distinzione». Siamo di fronte ad un tentativo di fissare le coordinate dell’ordine del discorso (non a caso Galli parla di rischio di «deragliamento del linguaggio politico») e di riaffermare quel paradigma legalitario, che trova tra le fila del quotidiano di De Benedetti i suoi più accesi sostenitori e promotori. Visibilità mediatica in cambio di rappresentazioni compatibili con i desideri dei media: uno straordinario dispositivo di perimetrazione del campo comunicativo e di azione dei movimenti che ha a lungo neutralizzato l’efficacia delle pratiche di conflitto, trasformandoli in innocui movimenti di opinione pubblica privi di qualsiasi articolazione sul territorio, magari in grado di confrontarsi con l’agenda-setting della controparte, ma incapaci di fissarne una propria.
Il movimento no tav ha avuto l’intelligenza di non cadere nel tranello di questo gioco al ribasso. È stato in grado di opacizzare collettivamente e rendere visibile questo meccanismo che lo avrebbe reso facilmente governabile. Inoltre, alla leggenda degli oggettivi vantaggi che dovrebbero derivare dalla realizzazione dell’opera, ha contrapposto un’ampia produzione e documentazione scientifica di periti, ingegneri e medici che ha dimostrato tanto l’insostenibilità dell’impatto ambientale di questa mastodontica infrastruttura quanto la sua inefficacia sul piano economico (ed infatti su questo terreno i differenti governi succedutisi nel tempo hanno accuratamente dribblato qualsiasi tavolo di confronto tecnico). Altrettanto importante è stata la capacità del movimento di immaginare a sua volta contro-frame e contenuti in grado di mettere in crisi ed attaccare quelli elaborati dalla controparte: l’esempio più lampante è stata la riuscitissima campagna «Un centimetro di Tav», attraverso cui il movimento propone un suo modello di sviluppo in risposta alla crisi (e mette in evidenza come quella del Tav non sia una questione ascrivibile al solo territorio della Val Susa ma riguardi tutto il paese). E il popolo della valle ha avuto anche l’intelligenza di avventurarsi in una delle dimensioni che più di tutte tratteggiano la relazione tra soggetto e corpo: quella del gioco. Spesso si può fare l’errore di pensare che il gioco sia un semplice ambito ludico della quotidianità, un banale passatempo. In realtà il gioco, oggigiorno negoziato all’incrocio tra pratiche sociali e piattaforme tecnologiche, è un elemento che rientra appieno nei processi sociali di costruzione simbolica della realtà: pensiamo per esempio alle categorie cognitive istituite dalla miriade di videogame ambientati in Afghanistan o in non meglio specificate località mediorientali, i cui protagonisti sono eroici marine statunitensi impegnati nella war on terror. «È tutta colpa dei no tav» è il gioco collettivo nato su Twitter e Facebook la scorsa estate che, oltre a ridicolizzare le contraddizioni emerse dalla narrazione mainstream, è stato un contenitore ampio e partecipato dove si sono amalgamati migliaia di rivoli di senso sul significato dell’esperienza no tav. Dai titoli dei giornali, che velatamente attribuivano ai no tav la responsabilità per l’incendio alla stazione Tiburtina, si è passati a «#ÈcolpadeinoTAV se in Italia si è riaccesa una speranza»: un détour collettivo della codificazione dei fatti sociali operata da stampa e televisione. Ed allo stesso tempo, come hanno scritto Emiliano Armano e Raffaele Sciortino in un’inchiesta sulla soggettività no tav, un momento in cui il movimento «riflette su di sé, si forma e si informa» nella convergenza tra «conoscenza, network comunicativi e processi di organizzazione» che «si sovrappongono all’auto-riconoscimento e all’auto-costituzione (personale e collettiva) dei soggetti». Se, come dicevamo prima, la funzione distintiva dei media è quella di costruire gli oggetti di cui parlano, allora non stupisce che il mainstream abbia trovato grosse difficoltà a misurarsi con un movimento sociale che è prima di tutto una comunità di lotta e che negli anni ha ingenerato un diffuso processo di creazione di soggettività, mescolando immaginari diversissimi e creando reti, come è stato scritto nell’editoriale di Infoaut del 27 giugno, basate su legami non meramente leggeri.

Quali sono allora i possibili interstizi/brecce nel campo nemico? Il campo del mainstream è un blocco granitico o ci sono possibili usi di esso da parte dei movimenti?

Per noi che abbiamo sempre lambito la scena dell’hacktivismo, oltre ad aver attraversato quella dei centri sociali e dell’autonomia, è naturale pensare gli ambienti mediali nella loro ambivalenza. Da una parte essi sono dei campi di tensione, terreni di scontro posti al centro di un costante processo di ri-modellamento, operato da numerose forze ed attori in contrasto tra di loro che hanno come fine ultimo quello di controllare la produzione simbolica e circoscriverne i processi mentali da essa definiti. Da un’altra però, all’interno di questi ambienti complessi che agiscono in profondità sul nostro corpo e sulla nostra psiche, si ingenerano veri e propri workshop creativi, in cui si innestano processi di rimodulazione della comunicazione a partire da tattiche e pratiche preesistenti (come può essere una raccolta di firme virtuale), processi di ri-mediazione della comunicazione (dove un medium ne veicola un altro) e processi di sabotaggio dei flussi informativi che hanno precisamente l’obiettivo di infiltrare il circuito mainstream, di forzarlo, di contaminarlo, di provare cioè a ridefinirne l’agenda. Tra le tante pratiche che hanno visto una convergenza comune all’interno del movimento no tav è emersa – con una certa continuità e sintonia rispetto alle dinamiche che attraversavano sia il territorio valsusino che quello italiano – anche quella di Anonymous: un variegato universo di gruppi ed organizzazioni afferenti al mondo dell’hacktivismo e della cultura hacker, che, a più riprese, ha mostrato la sua solidarietà attiva con la lotta del movimento, mettendo in campo pratiche ibride di dissenso agito in rete, prodotte a cavallo tra tradizionali tattiche di hacking e momenti di spettacolarizzazione di queste ultime. È successo per esempio a ridosso dei cortei dell’8 dicembre 2011 quando, in due differenti «operazioni», Anonymous ha prima violato i siti di Ltf e di torino-lione.it, rendendone pubblici i database e le credenziali di accesso, e poi quello personale del deputato e consigliere comunale torinese Ghiglia. Nella logica di Anonymous, azioni di questo tipo hanno avuto l’obiettivo di dar vita a campagne di informazione non convenzionali con cui disegnare una geografia degli interessi che ruotano attorno alla costruzione del Tav. L’obiettivo implicito è quello di praticare anche in rete forme di assedio per mettere sotto pressione i soggetti ritenuti responsabili della costruzione della Torino-Lione ed i rappresentanti del capitalismo finanziario. Anonymous, pur con tutti i limiti che presenta come esperienza e pratica di conflitto, è stato fino a questo momento un utile alleato del movimento no tav: è allo stesso tempo un brand a maglie larghe, che catalizza una trasversale attenzione positiva sulle azioni che compie, ed un medium, in grado di connettere porzioni di società molto differenti tra di loro (proprio per la molecolarità che ne contraddistingue l’identità). Inoltre, durante la settimana di mobilitazione a seguito della caduta di Luca Abbà dal traliccio, Anonymous ha raccolto gli appuntamenti di solidarietà e lotta lanciati dal movimento: sono stati decine gli attacchi verificatisi nei confronti di altrettanti siti (polizia, carabinieri, Viminale, Palazzo Chigi, e numerosissimi portali istituzionali piemontesi) accompagnati da comunicati che insistevano sulla necessità di far emergere agli occhi dell’opinione pubblica i colpevoli silenzi del circuito mainstream italiano in merito al gravissimo atteggiamento repressivo adottato dal governo e dalle forze dell’ordine contro la mobilitazione della Val Susa. Questo è un fatto interessante, che ci fa dire come questo network di hacktivisti, quando ha messo in pratica azioni di questo tipo, non ha voluto semplicemente produrre delle interferenze nel sistema informativo (appunto, il blocco di un sito che di per sé rappresenta una goccia nel mare magnum della rete), ma ha provato a svelarne le contraddizioni ed il carattere ideologico, individuando nei meccanismi di agenda setting (che stabilisce delle forme di inclusione ed esclusione nell’accesso alle informazioni) un vero e proprio luogo di conflitto. Tornando alla domanda però, è necessario essere onesti e sottolineare come il problema odierno dei movimenti sociali non sia «semplicemente» quello di decostruire il frame di comunicazione propagandistica del mainstream. Il virtuosismo decostruttivo non ha in sé la capacità di andare ad incidere su quei processi di costruzione degli immaginari e dei linguaggi. L’insieme di fattori materiali (che sono anche fattori di comunicazione) che li produce rimane intatto. Detta in altro modo: se anche riconosciamo la natura artificiale di un oggetto questo non evapora ed il monopolio del discorso pubblico rimane intatto. Che fare allora, dal momento che i conflitti oggi si vincono e si perdono su due piani strettamente intrecciati, ovvero quello fisico del conflitto e lo spazio digitale comunicativo? Per rispondere in modo esauriente vorremo riprendere il nucleo del ragionamento proposto dal compagno Niquelapolice (a nostro avviso uno dei più lucidi ed attenti osservatori delle dinamiche mediali italiane) che, in un suo recente intervento sul portale di informazione «SenzaSoste», si è interrogato su dove e come rompere la costruzione della mitologia negativa dei «duri» e delle «frange estreme» che ha aleggiato sulla Val Susa negli ultimi mesi. Niquelapolice ci ricorda come, nelle società neo-liberali, il mainstream generalista è il dispositivo sovrano di governo degli ultimi trent’anni. Suo compito è quello di blindare gli interessi che emergono dal basso, sia attraverso la costruzione di consenso a favore delle istituzioni, sia isolando e spezzando la capacità relazionale di chi pratica forme di opposizione e di lotta. In Val Susa abbiamo visto come le istituzioni abbiano pazientemente costruito un campo di forza comunicativo che facesse da rampa di lancio per le operazioni militari. Ora, per neutralizzare l’artiglieria pesante usata nel campo avversario e disarticolarne le narrazioni, è necessario oggi per i movimenti sociali riuscire a produrre una saldatura tra cultura popolare e cultura tecnologica. Questo non significa cadere nell’errore di rendere compatibili le proprie rappresentazioni con i desideri dei media (perché ciò equivale a mettere completamente in mano alla redazioni giornalistiche la gestione della nostra visibilità), quanto piuttosto avere la capacità di individuare i punti dello spazio comunicativo digitale delle istituzioni dove il ghiaccio del consenso costruito dal mainstream si fa sottile, e può quindi essere frantumato: così può essere messo in crisi quel campo di forza comunicativo che legittima e rende praticabile l’aggressione neoliberista ai territori. Niquelapolice in questo senso ci ha dato anche delle indicazioni tattiche specifiche per il campo di battaglia fisico-comunicativo della Val Susa: il terreno può smottare sotto i piedi delle lobby laddove l’opinione pubblica di centrosinistra, il settore più incerto di quella nazionale, ritiri il proprio consenso o mostri la propria protesta alla realizzazione dell’opera. Perché questo accada, per mandare in frantumi il frame della propaganda favorevole al Tav, è necessario agire su tutti i piani e produrre contenuti che il mainstream non possa ignorare e che allo stesso tempo siano in grado di mettere in crisi quei caratteri di coerenza ed auto-referenzialità che ne permettono l’attivazione. Allora il sipario calerà su quel disgustoso spettacolo che vorrebbe rendere legittima e praticabile l’operazione Tav. E in fondo, come direbbe Joseph Nye, nell’era dell’informazione il vincitore potrebbe essere l’attore con la storia più convincente.

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