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Le donne di Allah Bruno Mondadori, Milano, 2010 |
Pagina 1 Gli esordi Università di Londra, luglio 1997, seminario su "Genere e società islamiche". Fra una relazione e l'altra, all'improvviso una delle organizzatrici annuncia un fuori programma: è arrivata la responsabile dell'Istituto Islamico per le donne d'Iran che, non conoscendo l'inglese, vuole contribuire con un breve discorso nella sua madrelingua, il persiano. La nuova arrivata si accomoda davanti al microfono: la testa fasciata nel foulard legato con due grosse cocche, alla contadina, coperta da un leggero chador scuro, che indossa con grande naturalezza, senza impaccio, e dal quale sbucano le caviglie ben protette da spesse calze nere infilate in pianelle del medesimo colore. Una delle partecipanti al seminario seduta vicino a me, Shirin M., educazione europea, truccata, elegantissima, fuoriuscita negli Stati Uniti fin dai primi giorni della rivoluzione, rampolla di un'antica famiglia che rappresenta un pezzo di storia dell'Iran, mi sussurra sdegnata all'orecchio: «Ai miei tempi (leggi, ai tempi del deposto shah Reza Pahlavi), una così l'avrebbero presa al massimo come domestica!». L'imprevista relatrice parla con fare sicuro, sorridendo, esprimendosi a braccio in modo diretto e chiaro, ma al contempo comunicando dei concetti esplosivi. Shirin M. trasecola, si agita sulla sedia: «Ma sta interpretando il Corano!». Già: l'oratrice dall'aspetto di florida e innocua massaia sta rivisitando alcuni fra i più controversi passi coranici che riguardano la posizione delle donne (poligamia, divorzio, abbigliamento). E la sua rilettura non è certo conforme ai dettami delle gerarchie religioso-politiche del suo Paese, tutt'altro. Semmai, riecheggia le posizioni già articolate qualche anno prima in un contesto geografico e culturale completamente diverso, ovvero negli Stati Uniti, dove una teologa afro-americana convertitasi all'islam, Amina Wadud, ha fatto scalpore pubblicando un testo intitolato Donna e Corano: il sacro testo riletto secondo la prospettiva di una donna. Un problema di etichetta Sia Amina Wadud (che qualche tempo dopo avrebbe compiuto un atto clamoroso, guidando la preghiera in una moschea americana, funzione solitamente svolta da un uomo) sia l'improvvisata oratrice iraniana, potrebbero essere definite comunemente "femministe islamiche", anche se entrambe rifiuterebbero questa etichetta, per ragioni che ora esploreremo. La locuzione "femminismo islamico", che ha cominciato a circolare agli inizi degli anni novanta, è un'etichetta di comodo, una sorta di definizione a ombrello, coniata perlopiù negli ambienti delle studiose occidentali di questo fenomeno comprendente, in realtà, strategie diverse messe in atto da musulmane che sostengono la compatibilità tra la loro religione e il pieno raggiungimento dei diritti delle donne. Il nostro viaggio, portandoci tra donne di fede musulmana che si battono per i loro diritti secondo varie modalità, ci aiuterà a scoprire che non siamo però in presenza di un movimento omogeneo, ma, piuttosto, di varie forme di "femminismi islamici" articolati secondo scuole di pensiero e/o movimenti diversi. In questo libro dunque si auspica di chiarire che cosa stia accadendo all'interno dell'universo femminile musulmano, da sempre visto attraverso il filtro dei nostri stereotipi animati tanto da eurocentrismo quanto da relativismo culturale. Ovviamente, nella piena consapevolezza dell'impossibilità di riflettere la realtà completa di tutti i movimenti delle musulmane sparse nel mondo: il dibattito internazionale peraltro è già saturo di saggi e dibattiti che usano categorie assolute e perentorie sul tema "donne e islam". Qui si cerca solo di offrire un quadro di alcune, seppure assai significative, tendenze nell'ambito dell'attivismo femminile musulmano in materia di diritti. Ho accarezzato il progetto di questo libro fin dal 2003, mentre ero Visiting Scholar alla New York University proprio per seguire i seminari legati alle tematiche di genere nel mondo islamico. Dopo aver studiato la storia del femminismo nei paesi musulmani e aver partecipato a numerosi incontri con attiviste di diversi movimenti contemporanei sentivo il bisogno di aprire uno spazio dove convogliare alcune delle esperienze più significative, usando la viva voce delle protagoniste poste nel loro contesto storico e culturale. Non una riflessione teorica, dunque, ma uno spazio di incontri, storie personali, vicende vissute, che ho cercato, ascoltato e raccolto. Come si avrà modo di capire, una classificazione rigorosamente tassonomica è pressoché impossibile, vista la varietà dei raggruppamenti e la molteplicità delle posizioni di chi li anima. Volutamente tengo la locuzione "femminismo islamico" virgolettata, ma in realtà dovrei riservare questo trattamento a molti altri termini, cominciando da "islam", che nel discorso comune viene usato con una molteplicità di significati: religiosi, filosofici, politici, legali, storici, culturali ecc. In un momento in cui tutti parlano di e a nome dell'islam, ci sarebbe bisogno di precisare se ci si riferisce alla "fede dei musulmani", oppure a una società in cui la religione musulmana è prevalente e socialmente dominante, o a una cultura basata su una precisa tradizione... Attualmente le tensioni internazionali condizionano la nostra percezione: se molti musulmani usano l'etichetta "islamica" per legittimare i loro scopi politici, per numerosi occidentali la stessa etichetta definisce le politiche dell'"Altro", ovvero tutto ciò che si oppone alla modernità. Non si tratta meramente di un problema di nomenclatura, ma ontologico, e il discorso sulle donne e i loro diritti ben lo dimostra. Infatti, non solo per gran parte dell'Occidente il binomio donne-islam è divenuto paradigmatico dell'impossibilità della conciliazione dell'islam (quale?!) con la modernità, ma lo stesso binomio è manipolato dai musulmani più intransigenti per dimostrare sia la malafede occidentale (accusata di manovrare la questione femminile in senso antimusulmano) sia la non necessità di parlare di diritti delle donne in ambito islamico, in quanto l'islam di per sé riconosce i diritti alle donne. Al islam karamat al-mara‘a Ovvero "l'islam ha onorato le donne": spesso i cosiddetti "fondamentalisti islamici" (ancora una locuzione da virgolettare!) si trincerano dietro questa frase per chiudere ogni discussione sul bisogno di migliorare la condizione femminile sia socio-culturale sia legale. Molti di loro abbracciano l'islam soprattutto come ideologia politica, ritenendo necessaria l'instaurazione di uno stato islamico ideale sul modello di quelli medievali, dove stato e religione coincidono e l'applicazione della shari‘a, la legge divina, consentirebbe un perfetto funzionamento della società. Gli aderenti a questa teoria, che affascina anche moltissime donne, vengono etichettati come "islamisti". Per capire in quale posizione si collochino le islamiste radicali rispetto ai diritti delle donne, riporto la risposta di una parlamentare iraniana alla quale avevo chiesto un'opinione riguardo alla poligamia: Si tratta di un sacrificio che Dio chiede agli uomini, onde sistemare più donne che altrimenti si troverebbero senza supporto economico e affettivo. Ma la stragrande maggioranza dei musulmani (ovvero tutti coloro che osservano più o meno i precetti e i rituali dell'islam), inclusa la gran parte di loro ora definiti "islamici" (in quanto per essi l'identità religiosa e l'osservanza dei precetti dell'islam sono prioritarie) sono concordi nell'affermare il bisogno di ripensare al rapporto fra la religione, la democrazia e i diritti, inclusi quelli delle donne. Queste ultime, pur conclamando la propria identità di donne dell'islam, stanno sfidando i valori dominanti delle loro società, chiedendo la fine delle discriminazioni nei loro confronti e una migliore partecipazione socio-politica in un contesto di maggiore democrazia per tutti.
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