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Lunedì, 19 agosto

Il breve tragico regno del consumismo e la nascita di una felice alternativa
di Richard Heinberg

Tu e io consumiamo, siamo consumatori. L’economia globale è impostata in modo tale da permetterci di fare quello che ci piace fare – comprare, usare e comprare ancora. Se facciamo bene il nostro lavoro, l’economia prospera; se, per una qualche ragione, non adempiamo ai nostri compiti, l’economia vacilla. Il modello di esistenza economica appena descritto è sostenuto e alimentato dalle pagine economiche di tutti i quotidiani e da tutti i servizi di argomenti finanziario trasmessi su TV, radio e Internet; e ha un nome molto familiare: CONSUMISMO.

Anche il Consumismo ha una sua storia, benché non poi così antica. E’ vero, gli umani – come tutti nel mondo animale - sono esseri naturalmente consumistici, poiché mangiano per poter sopravvivere. Da migliaia di anni poi abbiamo iniziato a costruire armi, utensili, giocattoli e strumenti musicali e anche il commercio esiste insieme a noi da tempo immemore.

La novità è nel progetto di organizzazione di un’intera società attorno alla “necessità di aumentare continuamente la quantità di ciò che compriamo”.

ECCO COME AVVENNE

Il Consumismo nacque in un ambiente storico particolare. All’inizio del 20° secolo una temporanea abbondanza di energia da fossili a basso costo, concentrata, immagazzinabile e trasportabile, consentì un notevole aumento dello sfruttamento delle risorse naturali (grazie alle attrezzature di estrazione elettriche, seghe elettriche trattori, pescherecci a motore ecc.) L’avvento delle catene di montaggio a elettricità e dell’utilizzo di energia derivante dal petrolio ed altre fonti fossili, permisero la produzione di un numero sempre più vasto di prodotti commerciali. Tutto questo causò quel grave problema chiamato sovrapproduzione (troppi prodotti alla ricerca di troppo pochi acquirenti), creando così le premesse della Grande Depressione. Gli industriali trovarono una soluzione. Quello che fecero è descritto in un libro che merita una rinnovata attenzione: Capitani della Coscienza, dello storico sociale Stuart Ewen (1976). Ewen tracciò un quadro chiaro della rapida e incontenibile espansione dell’industria pubblicitaria degli anni ’20 e dei suoi straordinari effetti politici e sociali (se volete davvero comprendere Mad Men, iniziate da qui). Secondo Ewen “Il Consumismo, la partecipazione di massa ai valori del mercato industriale....iniziò negli anni ’20 non seguendo una graduale progressione dagli schemi di consumismo meno sviluppato del periodo precedente, ma nella forma di uno strumento aggressivo legato alla sopravvivenza delle aziende”.

In un libro successivo PR! (1996), Ewen spiega come, negli anni ’30, la National Association of Manufacturers Americana reclutò una squadra di pubblicitari, esperti di mercato e psicologi per formulare una strategia per contrastare le azioni del governo mirate a gestire e pianificare l’economia dopo la Depressione, Proposero una massiccia campagna pubblicitaria che equiparava il consumismo all’ American Way.” Il Progresso, dunque, sarebbe stato inquadrato interamente in termini economici, come frutto dell’ingegno industriale. Nei discorsi pubblici (televisione, radio, giornali), gli Americani venivano chiamati consumatori, e ad ogni occasione gli veniva ricordato il loro dovere di contribuire all’economia acqistando prodotti industriali, attraverso tecniche pubblicitarie sempre più sofisticate e martellanti. Mentre la pubblicità era un motore essenziale del consumismo, da sola non era in grado di produrre una domanda sufficiente ad assorbire tutti i prodotti sfornati a pieno ritmo dalle catene di montaggio delle fabbriche. Nei primi anni dell’ultimo secolo gli Americani avevano l’abitudine di pagare i loro acquisti in contanti; ma poi arrivarono le automobili: non molte persone potevano permettersene una così all’improvviso, eppure tutti la volevano. Oltre ad invogliarli a possedere più prodotti, ai consumatori bisognava anche dare la possibilità di poterne comprare di più di quelli che potevano pagare subito; da qui lo sviluppo dei sistemi di pagamento differiti ed altre forme di credito al consumo. Con il credito, le famiglie potevano consumare ora e pagare più tardi.

I Consumatori facevano debiti, l’industria finanziaria prosperava e le fabbriche vendevano più prodotti.

Anche se il consumismo iniziò come un progetto organizzato dalle aziende Americane, anche il Governo, a tutti i livelli, finì con l’appoggiarlo. Quando i cittadini spendevano più denaro in beni di consumo, le tasse sulle vendite e sui redditi aumentavano. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il favore del Governo per un aumento della spesa di consumo fu sancito dall’adozione del P.I.L. come principale misura del successo economico, e con l’utilizzo sempre più frequente del termine “consumatore” da parte delle agenzie governative. Intorno al 1950, il consumismo era ormai parte integrante del tessuto della società americana. Nel 1955, l’economista Victor Lebow inquadrò perfettamente il nuovo status quo, scrivendo nel Journal of Retailing: “Le nostra economia così enormemente produttiva esige che noi facciamo del consumo il nostro modo di vivere, che convertiamo l’atto di acquistare in un rituale, che cerchiamo nel consumo la nostra soddisfazione spirituale e del nostro ego. Abbiamo bisogno di consumare le cose, bruciarle, usurarle, sostituirle e ad un ritmo sempre più incessante.”

CHE COSA POTEVA ANDARE STORTO?

Nel frattempo I critici avevano identificato un paio di gravi problemi legati al consumismo.

Primo problema: il Consumismo, secondo i critici, mina i valori umani. Nel 1899, quando il consumismo era solo un embrione nei neuroni dei pubblicitari, l’ economista Thorstein Veblen, nel suo famoso libro The Theory of the Leisure Class, affermava che esiste nella società una divisione fondamentale tra quelli che lavorano e quelli che sfruttano il lavoro degli altri; a mano a mano che la società si evolve, questi ultimi finiscono con il costituire una “classe benestante” impegnata in “cospicui consumi”. Veblen vedeva la produzione di massa come un modo per universalizzare le trappole del benessere, tale da consentire alle classi agiate di tenere I lavoratori costantemente impegnati nel raggiungimento di uno status symbol, distraendo la loro attenzione dal sempre maggiore divario nella distribuzione della ricchezza e dalla loro impotenza politica. Altri critici del consumismo che seguirono furono lo storico Tedesco Oswald Spengler, che scrisse che “La struttura della vita in America è esclusivamente economica e manca di profondità”. Mohandas Gandhi, che considerava nobile solo una vita semplice libera dal possesso; e Scott ed Helen Nearing, autori di Living the Good Life e pionieri del movimento “ritorno alla terra”. Critici sociali del consumismo come Duane Elgin, Juliet Schor, e Vicki Robin hanno affermato che il rapporto con un prodotto o una marca di prodotto sono surrogati disfunzionali di sani rapporti umani e che la scelta consumistica è un sostituto soporifero alla reale democrazia. Un secondo serio problema legato al consumismo, dicono i critici, ha a che fare con l’esaurimento delle risorse. Gli studiosi ambientalisti sostengono che, a prescindere dalle implicazioni sociali del consumismo, a lungo andare è impossibile da sostenere. I conti si fanno presto: anche ad una frazione dell’uno per cento di crescita annuale dei consumi, tutte le risorse della Terra prima o poi si esauriranno. L’economia consumistica produce un’infinità di sprechi, che l’aria, l’acqua e la terra possono sopportare fino a un certo punto, prima che entrino in azione i meccanismi di difesa da parte del nostro pianeta.

Nel suo libro del 1954 The Challenge of Man’s Future, il fisico Harrison Brown anticipava le devastanti conseguenze sociali ed ambientali causate dall’inesorabile crescita della popolazione umana e dei suoi consumi; Brown riuscì anche a prevedere l’attuale crisi ambientale. Pochi anni dopo un gruppo di ricercatori del MIT iniziò ad utilizzare un computer per creare dei modelli di possibili scenari futuri derivanti da crescita demografica, aumento dei consumi e degrado ambientale. Nello scenario “percorso standard” elaborato dal computer, la crescita continua portava a un crollo dell’economia verso la metà del 21° secolo. I dati di quel progetto furono documentati nel libro del 1972 Limits to Growth, che ricevette caustiche critiche dagli economisti del momento, ma che fin dall’inizio fu considerato un’ analisi retrospettiva indipendente.

Più di recente, E. F. Schumacher, Herman Daly, William Rees, ed altri sostenitori dell’ economia ecologica hanno sottolineato che l’economia consumistica tratta le insostituibili ricchezze della Terra (risorse naturali) come fossero un reddito – un ovvio errore teoretico con risultati potenzialmente catastrofici per il pianeta.

UN SISTEMA AUTO-ALIMENTATO

Spesso critiche di questo genere hanno condotto ad una semplice considerazione di tipo individuale: se comprare più cose è nocivo all’ambiente e ci trasforma in sconsiderati zombie da centro commerciale, allora tutto dipende dalla capacità che ognuno ha di controllare le proprie pulsioni consumistiche. Non comprate! Riutilizzate! Riciclate! Condividete!

Tuttavia, è un errore ed è anche inutile trattare il consumismo come se fosse soltanto una tendenza di tipo individuale invece che un sistema complesso e interdipendente con fattori finanziari, governativi e commerciali. Facciamo questo semplice esperimento mentale: cosa succederebbe se tutti nello stesso momento aderissero ad un’etica Ghandiana della semplicità volontaria? Il commercio scomparirebbe, posti di lavoro scomparirebbero, i fondi pensione perderebbero di valore, il gettito fiscale crollerebbe e con esso anche i servizi pubblici. In assenza di profondi cambiamenti strutturali nel governo e nell’economia, il risultato sarebbe una profonda e duratura depressione economica.

Questo non significa che gli sforzi individuali verso la semplicità non siano utili – lo sono, per l’individuo e per l’ambiente sociale in cui vive; però, il sistema consumistico può essere alterato o sostituito solo attraverso un’azione sistematica. Ma un’azione sistematica è impedita dal fatto che il consumismo è divenuto un meccanismo auto-alimentato; quelli che svolgono un ruolo importante all’interno del sistema e tentano di controllarlo, sono esasperati; mentre quelli che tentano di farlo espandere subiscono colpi non indifferenti. Quasi tutti vogliono un’economia con più posti di lavoro e investimenti più redditizi; quindi, per la maggioranza delle persone coinvolte, la tendenza è quella di stare zitti e continuare ad andare avanti con il programma. Le critiche al consumismo sono razionalmente giuste, ma poche persone si soffermano a considerarle seriamente. Se la sola persuasione riuscisse a smantellare il consumismo e a sostituirlo con qualcosa di meglio, questo sarebbe già avvenuto molto tempo fa.

TEMPO DI CRISI

In ogni caso, come da tempo ci dicono i critici, il consumismo in quanto sistema non potrà andare avanti all’infinito; contiene in se stesso i semi della sua distruzione. E i limiti naturali al consumismo – scarsezza di risorse fossili, allarmi ambientali (cambiamenti climatici, acidificazione degli oceani ed altri danni dell’inquinamento) ed i limiti del debito – sembrano ormai più che evidenti all’orizzonte. Se da una parte ci sono dei modi per allontanare temporaneamente questi limiti (gas e petrolio non convenzionali, geo-ingegnerie, allentamento monetario), è impossibile pensare di evitarli per sempre. Il consumismo è spacciato. Ma poichè il consumismo ora E’ l’economia (il 70% del PIL Americano deriva dalla spesa di consumo), quando esso crollerà anche l’economia crollerà.

E’ come se prevedessimo con certezza un incidente ferroviario. Nessuno sa esattamente quando avverrà l’impatto e quanto sarà grave. Ma è piuttosto verosimile pensare che questo incidente si manifesterà in forma di depressione economica accompagnata da una serie di disastri ambientali sempre più gravi, conflitti e disordini sociali. Tutto questo non dovrebbe suonare come una novità per nessuno, dopo i recenti rapporti governativi e delle Nazioni Unite che delineano scenari con tinte ancora più fosche di quelle descritte: innalzamento dei mari, ondate di profughi vittime di disastri ambientali, siccità, inondazioni, carestie e crolli economici.

A dire il vero, dopo gli eventi scatenatisi nel 2007, è anche possibile che questo crollo sia già iniziato, anche se è un’agonia al rallentatore e il sistema tenta ogni mezzo per restare in piedi.

L’ ALTERNATIVA FELICE

Non è affatto troppo presto per iniziare a chiedersi cosa ci aspetta dopo il consumismo. Se esiste una cosa di cui potersi rallegrare nella storia appena raccontata, è che questo tipo di esistenza economica non è determinata biologicamente. Il consumismo nacque da una serie di circostanze; cambiando le circostanze, cambiano anche gli adattamenti economici che ne derivano.

Se ci siamo fatti un’idea delle circostanze che probabilmente si verificheranno nei prossimi decenni, possiamo avere anche un’idea di quali potrebbero essere gli scenari alternativi. Come abbiamo già visto, l’economia consumistica del 20° secolo fu generata dall’energia a buon prezzo e dalla sovrapproduzione. Tutto ora suggerisce che il nuovo secolo sarà caratterizzato da limitazioni energetiche, restrizioni ambientali e di debito – e quindi da una ridotta produzione pro-capite. In questo quadro, i politici dovranno necessariamente adoperarsi per elaborare un’economia di “sufficienza”. Ma come fare per passare da un’economia consumistica a un’economia di sufficienza?

Forse l’indizio più promettente ci viene dall’emergente movimento della felicità. Fin dagli anni ’70, il minuscolo regno himalayano del Bhutan ha sperimentato come misura del successo economico la Felicità Nazionale Lorda(Gross National Happiness-GNH) e recentemente si è tenuto un incontro alle Nazioni Unite per promuovere l’adozione internazionale del GNH. Allo stesso tempo, la New Economics Foundation del Regno Unito ha iniziato a pubblicare un Indice di Felicità del Pianeta(HPI), aggiornato annualmente, che fa una classifica delle nazioni sulla base dei dichiarati livelli di felicità dei loro cittadini e del loro livello di attenzione ambientale.

Scopo del GNH e del HPI è di valutare il successo economico più in base alla sensazione che le persone hanno della loro vita e delle loro circostanze, e meno in termini di consumo (che poi è quello che il GDP rappresenta). La metrica della felicità è come la kryptonite per il consumismo, che è stato ripetutamente dimostrato che rende le persone sempre meno soddisfatte delle circostanze della loro esistenza. Una generale adozione del GNH o del HPI da parte delle nazioni del mondo porterà a un inevitabile ripensamento delle priorità. I governi saranno chiamati a promuovere politiche che incoraggino una maggiore condivisione, uguaglianza, trasparenza e partecipazione dei cittadini al governo dei paesi, poiché sono queste le cose che tendono ad innalzare il livello di felicità.

Ora, i guardiani dell’economia consumistica non sono mica scemi. Di certo non acconsentiranno a questa diffusa adozione della metrica della felicità, se non fosse strettamente necessario. Ma, come abbiamo visto, la necessità sta arrivando. Le attuali economie consumistiche continueranno a sudare e sbuffare, e i politici dovranno necessariamente trovare dei modi per tranquillizzare le masse e dare loro una chiara direzione. Oltre un certo punto, le promesse di un ritorno ai giorni dello shopping spensierato suoneranno vuote e sorde. Inoltre, come prima considerazione, gli indici di felicità sono piuttosto innocui: essi propongono semplicemente un’alternativa al PIL, che molti economisti ormai considerano tremendamente difettoso.

Il movimento della felicità non può certo risolvere tutti i nostri problemi. Da solo non può trovare una soluzione ai mutamenti climatici, all’esaurimento delle risorse idriche, alla sovrappopolazione e a decine di altri problemi contingenti – ma sicuramente può capovolgere un paradigma economico che tende ad aggravarli. Gli indici di felicità possono rappresentare un adattamento generale che faciliterà la transizione dall’attuale sistema economico al prossimo, riducendo i traumi che inevitabilmente accompagneranno la caduta del consumismo. GNH o HPI potrebbero essere degli strumenti per trasmettere a politici e cittadini il concetto di “sufficienza”, ma anche dei veicoli per il conseguimento da parte dell’umanità di un modo di vivere realmente superiore.


Richard Heinberg è ricercatore emerito al Post Carbon Institute ed autore di The Party’s Over: Oil, War, and the Fate of Industrial Societies, Peak Everything: Waking Up to the Century of Declines, e di The End of Growth: Adapting to Our New Economic Reality.


Fonte: www.commondreams.org

Link: http://www.commondreams.org/view/2013/07/27-0

27.07.2013

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

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