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Pagina 5 Prima di tutto Domande [Serie di domande trovate sul computer dell'autore e datate 4 marzo 1990] Cosa ci può realmente motivare? Cambiare il mondo o salvaguardarlo? Solidarietà come autocompiacimento? Abbandonare la radicalità? Etica della rivoluzione? Conseguenze della rivoluzione nonviolenta all'Est... Navigare a vista? Esiste da qualche parte una linea di demarcazione tra amici e nemici? A chi ci si può affidare? Esiste un'ascesi che uno aiuta e uno forgia? Negare se stessi credibile o pericoloso (disumano, burocratico, ipocrita)? Cosa ti dice il Sud del mondo? Solo cattiva coscienza? Perché cercare la salvezza altrove (perché poi dover andare lontano...)? Vivresti effettivamente come sostieni si dovrebbe vivere? Passeresti il tuo tempo con coloro ai quali rivolgi la tua solidarietà? Professionalità. Potresti vivere anche senza politica? Altruismo/egoismo? Quali costanti? Quali sintesi (per esempio giustizia, pace, salvaguardia del creato)? Cosa faresti diversamente? Potenzialità della disobbedienza civile... Tu che ormai fai «il militante» da oltre venticinque anni e che hai attraversato le esperienze del pacifismo, della sinistra cristiana, del '68 (già «da grande»), dell'estremismo degli anni Settanta, del sindacato, della solidarietà con il Cile e con l'America Latina, col Portogallo, con la Palestina, della nuova sinistra, del localismo, del terzomondismo e dell'ecologia da dove prendi le energie per «fare» ancora? Pagina 61 Il demone dello sviluppo Sviluppo? Basta! La scelta è tra espansione e contrazione [1991] Ci sono oggi molte buone e urgenti ragioni per ripensare a fondo la questione dello sviluppo, da qualche decennio obiettivo-principe incontrastato di tutte le diverse politiche (con segni anche molto differenti tra loro) che sul pianeta si affermano o si praticano «a beneficio dell'umanità». Mentre appare controverso il valore dei diritti umani e democratici, o il ruolo del capitale privato o di Stato nella direzione dell'economia, o la scelta tra diverse possibili opzioni di politica estera, sembra invece assodato un generale consenso verso l'obiettivo dello sviluppo: fare uscire dall'arretratezza le società o i settori sociali e geografici che vi si attardano e avviarli all'integrazione nella moderna civiltà industriale e alla crescita economica sembra universalmente e unanimemente riconosciuto come desiderabile e necessario. Tanto che anche le analisi più critiche e più consapevoli dei «limiti dello sviluppo» che ormai si producono a livello mondiale come per esempio l'autorevole rapporto Brundtland delle Nazioni unite non mettono realmente in dubbio questo traguardo che si pretenderebbe situato univocamente in «direzione della storia», ma semmai ne postulano la mitigazione e la qualificazione in nome dell'ecocompatibilità. Tra le nuove ragioni che urgentemente ci chiedono di interrogarci se questa presunta ovvietà civilizzatrice sia davvero accettabile e da procrastinare, ricorderei soprattutto le seguenti: la liberazione dell'Est europeo dalla compressione sinora sofferta a causa dei regimi del «socialismo reale»; l'andamento della crescita demografica mondiale e i movimenti migratori che gli squilibri del mondo inducono; i dati della crisi ecologica (catastrofe climatica, strato d'ozono, desertificazione, deforestazione eccetera); la perdita di qualità della vita e di autonomia delle persone e delle comunità anche nelle fortezze dello sviluppo. Se le società dell'Est europeo ora faranno di tutto per rincorrere in poco tempo il nostro modello di produzione, di consumi e di vita, lo «stress» cui è sottoposto il pianeta sarà ancora molto più grave. Se nel Sud del mondo si seguiranno anche solo alcuni dei nostri cattivi esempi (per esempio in tema di consumi energetici, di motorizzazione, di cementificazione dei suoli eccetera) e se chi non può o non vuole aspettare i decenni che ancora mancano a questo traguardo per intanto tenterà la via dell'emigrazione verso il Nord, nuovi fattori di accelerazione della corsa al collasso si aggiungeranno. Qualcuno pensa che l'ulteriore artificializzazione e tecnicizzazione del mondo potrà dare le necessarie risposte correttive (filtri, depuratori, controllo delle nascite, tecnologie del disinquinamento, biotecnologie, rifiuti nello spazio o in fondo ai mari...); qualcuno aggiunge più crudamente che in ogni caso occorrerà cingere di muri ben alti e robusti la civiltà dell'abbondanza perché non ce ne sarà per tutti e non ci dev'essere neanche se non vogliamo l'infarto del pianeta. Ci troviamo dunque [...] al bivio tra due scelte alternative: tentare di perfezionare e prolungare la via dello sviluppo, cercando di fronteggiare con più raffinate tecniche di dominio della natura e degli uomini le contraddizioni sempre più gravi che emergono [...]; o invece tentare di congedarci dalla corsa verso il «più grande, più alto, più forte, più veloce» chiamata sviluppo per rielaborare gli elementi di una civiltà più «moderata» (più frugale, forse, più semplice, meno avida) e più tollerabile nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell'umanità, verso le future generazioni e verso la stessa «biodiversità» (anche culturale) degli esseri viventi. La chiamerei una scelta tra espansione e contrazione ben sapendo che per chi si trova sull'aereo in volo non esiste un immediato freno d'arresto, ma semmai solo la faticosa ricerca di un atterraggio morbido. E che entrambe hanno i loro costi: solo che la prima li fa pagare ad altri (lontani nello spazio e nel tempo), mentre la seconda se li assume e punta al ripianamento del nostro debito verso la biosfera. Una scelta di espansione (che sarebbe poi quella che già è insita nelle strutture e nelle politiche attualmente dominanti) dobbiamo saperlo è una scelta di riarmo; una scelta di contrazione è una scelta di disarmo con tutte le difficoltà del caso e tutta la necessaria gradualità per evitare bruschi scompensi e nuovi e pericolosi squilibri. E la quintessenza della scelta ecologica mi pare stia oggi proprio in questo: come arrivare a far compiere alle nostre società (del «Nord», dell'Occidente) una profonda opzione di autolimitazione e di contrazione, come scoraggiare l'Est a puntare in tempi brevi a forzare uno sviluppo simile al nostro, e come aiutare il Sud a non identificare la sua emancipazione nell'integrazione (del tutto subalterna, del resto) nella nostra «espansione»? Dove ovviamente questi tre aspetti agiscono a cascata tra loro, e senza riuscire a trovare risposte alla prima domanda, difficilmente se ne troveranno alla seconda e alla terza. Se prendiamo sul serio i vari gridi di allarme sulla salute del pianeta, una scelta di contrazione (autolimitazione) nella nostra parte di mondo sviluppato si impone urgentemente, in tutta evidenza. Ma le varie conferenze sull'ozono e sul clima, sui mari o sull'energia producono quasi solo generiche dichiarazioni di intenti. Dobbiamo quindi cominciare, con fermezza, a misurare la bontà di una politica non più dai tassi di crescita (della spesa, della produzione, dei consumi, degli investimenti, degli scambi eccetera) ma da quelli di decremento, e dire che vogliamo in tempi brevi e misurabili una conversione ecologica che si manifesti anche in concrete riduzioni (motorizzazione, inquinamento, chimica nei suoli, eccedenze agricole, volumi costruiti e superfici sigillate eccetera). Un compito impopolare, a prima vista, e non facile, che comporta sin dal più modesto consiglio comunale, ma anche dalle nostre personali scelte di acquisti, di trasporto, di alimentazione, di imballaggio, di riscaldamento eccetera sino alle grandi scelte degli Stati, delle industrie, delle organizzazioni internazionali eccetera, una inversione di rotta di centottanta gradi. «Meno invece che più» come programma di contrazione non va disgiunto dal «vivere meglio con meno»: la qualità ecologica e sociale e culturale (l'armonia con la natura, lo sviluppo di rapporti sociali più conviviali, le molteplici risorse di identità e autorealizzazione) della nostra vita personale e comunitaria non dipende in primo luogo dalle quantità materiali. Una scelta di sobrietà e di semplicità non richiede necessariamente un'attitudine di rigorismo autopunitivo, e il campo di scelte di contrazione materiale che aprono strade di espansione spirituale è tanto vasto quanto poco esplorato attualmente (se non da piccole minoranze o da settori sociali «residuali»...). Forse la nostra stessa a volte insana voglia di «interventismo nella storia» potrebbe, con successo, applicarsi alla promozione di scelte di contrazione, invece che [...] a correggere le virgole a politiche di espansione, nel vano tentativo di limitarne i danni. | << | < | > | >> | Pagina 107 La scelta della convivenza Pace tra gli uomini e con la natura [1988] Un nuovo pacifismo È difficile dire se, nella storia, i movimenti per la pace abbiano ottenuto qualcosa. Mentre l'utilità per esempio dei pompieri può essere desunta principalmente dal numero degli incendi domati, quella dei movimenti pacifisti è più complicata a misurarsi, e andrebbe semmai esaminata soprattutto con riguardo alla prevenzione politica e culturale. Operare per bandire le guerre e il militarismo dalle menti e dai cuori della gente, prima ancora che dalle politiche dei governi, è sicuramente meritevole e importante. Fa una gran differenza essere circondati da un clima di esaltazione «eroica» della guerra (come avveniva sotto i regimi fascisti tra le due guerre mondiali in Europa) o da quel «ripudio» della guerra che la Costituzione della Repubblica italiana esprime e che le iniziative pacifiste cercano, da sempre, di incoraggiare e rendere vivo. Verso un nuovo pacifismo Ma basta questo, e basta qualche azione simbolica come dichiarare «territorio libero da armi nucleari» una Regione o un Comune, o aderire a giornate per la pace per ritenersi efficaci «operatori di pace»? A guardare alcuni conflitti recenti, verrebbe da scoraggiarsi sui risultati pratici dei movimenti pacifisti. Guerre tra Stati, grandi (come quella tra Iran e Iraq) o piccole (come il conflitto anglo-argentino intorno alle Falkland-Malvine), guerre di Stati contro popolazioni che vogliono l'indipendenza (dal Sahara alla Namibia), guerre di guerriglia (dall'Afghanistan all'Angola), guerre interne (come quelle contro i palestinesi, contro i curdi o contro i tibetani) continuano a svolgersi, e sembrano curarsi poco delle iniziative pacifiste. E se la corsa agli armamenti pare finalmente rallentarsi, non è tanto per merito dei movimenti per la pace, quanto piuttosto per lo storico accordo dell'8 dicembre 1987 tra Usa e Urss, che ha segnato per la prima volta «un passo indietro» nel processo di riarmo. (Non si nega che tale accordo possa essere stato «anche» influenzato dai movimenti pacifisti, ma chiaramente la regia è stata di altri elementi e soprattutto di favorevoli circostanze internazionali.) Che ci stanno a fare, allora, i movimenti per la pace? Come possono sperare di contrapporre qualcosa di efficace a una forza incomparabilmente superiore quale quella esercitata dagli interessi economici e di potere che spingono alle guerre? Infatti un movimento per la pace che fosse fatto principalmente o esclusivamente di marce e petizioni per chiedere disarmo o condanna di certe aggressioni militari non avrebbe grande credibilità, soprattutto se si caratterizzasse davvero per partigianeria unilaterale (denunciare «certi» armamenti e «certe» guerre e tacere su altre) o se si limitasse a invocazioni generiche di pace cui nessuno potrebbe dirsi contrario, ma dalle quali non deriva nessun effetto concreto. Di ciò i pacifisti di oggi e le loro diverse associazioni, dal Movimento internazionale di riconciliazione al Movimento nonviolento, da Pax Christi alla recente Associazione per la pace, dalla Lega degli obiettori di coscienza ai più diversi sodalizi grandi e piccoli, anche su scala locale si rendono ben conto. E infatti sembra di assistere da tempo alla crisi del vecchio movimento per la pace e forse alla rigenerazione di un pacifismo di tipo nuovo, che promette bene, pur sapendo di dover affrontare immani sproporzioni tra le spinte alla guerra (che sono poi le stesse che comportano distruzione ambientale, sfruttamento economico, oppressione politica) e la necessità di pace (che vuol dire sostanzialmente autolimitazione e rispetto di un equilibrio giusto). Ecologisti e pacifisti tra breve e lungo periodo Ed è in questa sproporzione una prima e forte anche preoccupante analogia tra movimenti pacifisti ed ecologisti. Guardando, infatti, alle ragioni del breve periodo, ecologisti e pacifisti non possono che apparire velleitari e sostanzialmente perdenti: chiedono, entrambi, di rinunciare a un vantaggio, apparente ma immediato. «Non» spingere sull'acceleratore del vantaggio militare o economico, «non» spingere la competizione sino a minacciare o addirittura distruggere l'altro, «disarmare» le proprie tecnologie (produttive, militari ecc.), «rinunciare» a uno squilibrio apparentemente e immediatamente favorevole alla propria sete di potere e di profitto, ma nel lungo periodo distruttivo non solo per chi ne rimane vittima sul momento. Le ragioni del lungo periodo, quindi, starebbero di per sé dalla parte dei pacifisti e degli ecologisti, ma nessuno si fida di accoglierle nell'immediato, perché assomigliano troppo a un disarmo unilaterale della propria parte che procura vantaggi alla controparte. Rinunciare alla possibile superiorità militare, tecnologica o di mercato, rinunciare a sfruttare un vantaggio nella concorrenza produttiva o commerciale o diplomatica, rinunciare ai fitofarmaci in agricoltura e alla connessa speranza di produrre più e meglio degli altri, non utilizzare il deposito di scorie chimiche o nucleari accettato per pochi dollari dal contadino (o dal governante) nigeriano, rinunciare a qualche «progresso» o «sviluppo» appare, agli occhi delle ragioni del breve periodo, svantaggioso e quindi tendenzialmente suicida, perché nel regime di competizione e di concorrenza vige la regola «mors tua, vita mea» e viceversa. I pacifisti al pari degli ecologisti dovranno quindi trovare un modo non solo predicatorio e moralistico per rafforzare le ragioni del lungo periodo contro quelle del breve periodo. La paura non basta: né la paura della guerra, né quella della catastrofe ecologica. E comunque sarebbe cattiva consigliera. E anche l'utopia, intesa come quel «completamente altro» che si sa che non è di questo mondo, non basta: rischia di essere buona solo per le occasioni solenni, per le invocazioni liriche. Bisognerà quindi rendere «attraente», convincente la pace: quella tra gli uomini e quella con la natura. Dirà qualcuno: non è stata sempre, la pace, il supremo desiderio dell'umanità, non è sempre stata insensata la guerra? Cosa occorre di nuovo e di diverso per rendere attraente la pace? Ed è infatti facilmente intuibile che in un mondo in cui i supremi valori siano la ricchezza e la potenza (economica, militare, politica, personale ecc.), i beni altissimi, semplici e immediati la pace non meno che l'acqua o l'aria pura, la possibilità di fidarsi gli uni degli altri e di contare gli uni sugli altri non meno della salute finiscano per soccombere. Nel miope e vorace regno della potenza e dell'economia vince chi sa trasformare gli aratri in spade e l'acqua in oro, non viceversa. Dove attingere per avere ragioni forti e robuste, così convincenti ed evidenti da apparire a molti credibilmente alternative alla guerra e allo sfruttamento con cui il più forte si avvantaggia sui deboli?
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