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Impero, Prefazione
di Toni Negri, Michael Hardt

 

L’Impero si materializza sotto i nostri occhi. Nel corso degli ultimi decenni, con l’abolizione dei regimi coloniali e ancor più velocemente dopo il crollo definitivo delle barriere sovietiche di fronte al mercato del mondo occidentale, abbiamo assistito ad una irresistibile e irreversibile mondializzazione degli scambi economici e culturali. Accanto al mercato mondiale ed ai circuiti mondiali di produzione sono sorti un ordine mondiale, una logica e una struttura nuova del potere - in breve, una nuova forma di sovranità. L’Impero è il soggetto politico che regola effettivamente gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo.

Molti sostengono che la mondializzazione della produzione e degli scambi capitalistici significa che le relazioni economiche sono divenute più indipendenti dal controllo politico, dunque che la sovranità politica è in declino. Alcuni celebrano questa nuova era come la liberazione dell’economia capitalista dalle restrizioni e dalle distorsioni che le forze politiche le avevano imposto; altri, al contrario, la deplorano poiché essa chiude le vie istituzionali attraverso cui lavoratori e cittadini potevano influenzare o contestare la logica fredda del profitto capitalistico. E’ vero che, con l’avanzare del processo di mondializzazione, la sovranità degli Stati-nazione, pur restando largamente effettiva, è progressivamente declinata. I fattori primari della produzione e degli scambi - denaro, tecnologia, personale e merci - attraversano le frontiere con una facilità crescente; ne segue che lo Stato-nazione ha sempre meno potere per regolare quei flussi e imporre la sua autorità sull’economia. Anche gli Stati-nazione dominanti non devono essere più considerati come delle autorità supreme e sovrane, sia all’esterno delle proprie frontiere che all’interno di esse. Ad ogni modo, il declino della sovranità degli Stati-nazione non significa che la sovranità sia in declino in quanto tale. Per tutto il corso delle trasformazioni contemporanee, i controlli politici, le funzioni statali e i meccanismi regolatori hanno continuato a regolare il campo della produzione e degli scambi economici e sociali. La nostra ipotesi fondamentale è che la sovranità ha acquisito una forma nuova, composta di una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti sotto una logica unica di governo. Questa nuova forma mondiale di sovranità è ciò che noi chiamiamo l’Impero. La sovranità declinante degli Stati-nazione e la loro incapacità crescente a regolare gli scambi economici e culturali sono, infatti, i primi sintomi dell’avvento dell’Impero.

La sovranità degli Stati-nazione è stata la pietra angolare dell' imperialismo che le potenze europee hanno costruito nel corso dell’epoca moderna. Con "Impero", ogni volta, noi intendiamo qualche cosa di assolutamente differente dall’"imperialismo". Le frontiere definite dal sistema moderno degli Stati-nazione sono state fondamentali per il colonialismo dell’Europa e per la sua espansione economica: le frontiere territoriali della nazione delimitavano il centro della potenza a partire dal quale si esercitava il potere sui territori esteri, grazie ad un sistema di canali e di ostacoli che facilitavano e bloccavano alternativamente i flussi della produzione e della circolazione. L’imperialismo era veramente una estensione della sovranità degli Stati-nazione europei al di là delle loro frontiere. Finalmente, quasi tutti i territori del mondo potevano essere divisi e ripartiti, e la carta del mondo poteva essere codificata in colori europei: rosso per i territori britannici, blu per i francesi, verde per i portoghesi, e via di seguito. Laddove la sovranità moderna prendeva radici, essa edificava un Leviatano che dominava la sua sfera (domaine) sociale e imponeva delle frontiere territoriali gerarchiche, ad un tempo per controllare poliziescamente (policièrement) la purezza della propria identità e per escludere tutto ciò che era altro.

Il passaggio all’Impero sorge dal crepuscolo della sovranità moderna. Al contrario dell’imperialismo, l’Impero non stabilisce dei centri territoriali di potere e non si appoggia su delle frontiere o su delle barriere fisse. E’ un apparato decentralizzato e deterritorializzato di governo, che integra progressivamente lo spazio del mondo intero all’interno delle frontiere aperte ed in perpetua espansione. L’Impero gestisce delle identità ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali modulando le sue reti di comando. I colori nazionali distinti della carta imperialista del mondo si sono mescolati nell’arcobaleno mondiale dell’Impero.

La trasformazione della geografia imperialista moderna del globo e la realizzazione del mercato mondiale segnano una traslazione (transfert) nel modo capitalista di produzione. Più importante: le divisioni spaziali tra i tre "mondi" (il primo, il secondo e il terzo, o "tiers"), si sono imbrogliate al punto che si trova continuamente il primo nel terzo, il terzo nel primo, e il secondo quasi più da nessuna parte. Il capitale sembra aver a che fare con un mondo senza capo - cioè un mondo definito da regimi complicati e nuovi di differenziazione e di omogeneizzazione, di deterritorializzazione e di riterritorializzazione. La determinazione dei percorsi e dei limiti di questi nuovi flussi mondiali si è accompagnata ad una trasformazione degli stessi processi dominanti di produzione; ne risulta che il ruolo del lavoro industriale in fabbrica (usine) si è ridotto e si è data la priorità al lavoro di comunicazione, di cooperazione e di relazione. Nella postmodernizzazione dell’economia mondiale, la creazione di ricchezza tende al sovrappiù verso ciò che noi chiameremo la produzione biopolitica, ossia la produzione della vita sociale stessa nella quale l’economia, la politica e la cultura coincidono sempre più e si investono mutuamente.

Molti situano l’autorità suprema che supervisiona il processo di mondializzazione e il nuovo ordine mondiale negli Stati Uniti. I loro partigiani celebrano essi come il leader mondiale e la sola superpotenza; i loro detrattori li denunciano come un oppressore imperialista. Queste due percezioni riposano sull’idea che gli Stati Uniti abbiano semplicemente rivestito il mantello della potenza mondiale che le nazioni europee avevano lasciato cadere. Se il XIX secolo era stato un secolo inglese, il XX sarà stato quello dell’America del Nord; come a dire che se la modernità era europea, la postmodernità è americana. Il carico più pesante che i critici possono far valere è che gli Stati Uniti ripetono nei fatti le pratiche degli antichi imperialisti europei; i loro partigiani celebrano al contrario gli Stati Uniti come il leader mondiale più efficace e più benevolo, rettificando quello che gli Europei avevano sciupato (gaché). Gli Stati Uniti non costituiscono il centro di un progetto imperialista; e, in effetti, nessuno Stato-nazione può farlo oggi. L’imperialismo è finito. Nessuna nazione sarà oramai potenza mondiale come le nazioni dell’Europa moderna sono state.

Gli Stati Uniti occupano senz’altro una posizione privilegiata nell’Impero, ma questo privilegio non deriva dalle loro somiglianze con le antiche potenze imperialiste europee, ma dalle loro differenze. Queste differenze sono molto chiaramente identificabili concentrandosi sui fondamenti propriamente imperiali - non imperialisti - della Costituzione degli Stati Uniti; con "costituzione", noi intendiamo allo stesso tempo la Costituzione formale, ossia il documento scritto con i suoi diversi emendamenti e arsenali legislativi, e la costituzione materiale, ossia la formazione e riformazione costante della composizione delle forze sociali. Thomas Jefferson, gli autori del Federalista e gli altri ideologi fondatori degli Stati Uniti sono tutti stati ispirati dal modello imperiale antico; essi credevano di creare, sull’altra riva dell’Atlantico, un nuovo impero dalle frontiere aperte, in perpetua espansione, in cui il potere sarebbe stato effettivamente distribuito in rete. Questa teoria imperiale è sopravvissuta e maturata attraverso la storia della Costituzione degli Stati Uniti ed essa si presenta oggi a scala mondiale nella sua forma pienamente dispiegata.

Dobbiamo sottolineare che noi non impieghiamo qui "Impero" come una "metafora" - ciò che esigerebbe una dimostrazione delle rassomiglianze tra l’ordine mondiale e gli imperi di Roma, della Cina, delle Americhe, ecc. - ma piuttosto come un concetto, il che esige fondamentalmente un approccio teorico. Il concetto di Impero è caratterizzato fondamentalmente da una assenza di frontiere: il governo dell’Impero non ha limiti. Prima di ogni cosa, dunque, il concetto di Impero pone in principio un regime che ingloba la totalità dello spazio in cui dirige effettivamente il mondo "civilizzato" nel suo insieme. Nessuna frontiera territoriale limita il suo regno. In secondo luogo, il concetto di Impero si presenta esso stesso non come un regime storico che trae la sua origine da una conquista, ma piuttosto come un ordine che sospende effettivamente il corso della storia e fissa di là lo stato presente degli affari per l’eternità. Secondo il punto di vista dell’Impero, è la maniera in cui le cose saranno sempre e la maniera in cui esse erano pensate da tutta l’eternità. In altri termini, l’Impero presenta il suo potere non come un momento transitorio nel flusso della storia, ma come un regime senza frontiere temporali, dunque in questo senso fuori della storia o alla fine della storia. In terzo luogo, il potere dell’Impero funziona a tutti i livelli dell’ordine sociale, discendendo sino alle profondità del mondo sociale. Non solamente l’Impero gestisce un territorio ed una popolazione, ma esso crea anche il mondo reale che esso abita. Non contento di regolare le interazioni umane, esso cerca anche di regolare direttamente la natura umana. L’oggetto del suo potere è la vita sociale nella sua integralità, di modo che l’Impero rappresenta in effetti la forma paradigmatica del biopotere. Infine, sebbene la pratica dell’Impero si bagni continuamente nel sangue, il concetto di Impero è sempre dedicato alla pace - una pace perpetua e universale, al di fuori della storia.

L’Impero cui siamo di fronte dispone di enormi poteri di oppressione e di distruzione - ma questo fatto non deve in alcuna maniera darci la nostalgia delle antiche forme di dominazione. Il passaggio all’Impero e i suoi processi di globalizzazione offrono in effetti delle nuove possibilità alle forze di liberazione. La mondializzazione, naturalmente, non è una cosa unica e i molteplici processi che noi identifichiamo come tali non sono né unificati né univoci. Il nostro scopo politico - diremo noi - non è semplicemente di resistere a questi processi, ma di riorganizzarli e di riorientarli a dei nuovi fini. Le forze creatrici della moltitudine che sostiene l’Impero sono del tutto capaci di costruire un contro-Impero, ossia una organizzazione politica di ricambio degli scambi e dei flussi mondiali. Le lotte miranti a contestare e a sovvertire l’Impero, altrettanto di quelle destinate a costruire una reale soluzione di rimpiazzo, si svolgeranno così sul terreno imperiale medesimo - e infatti, delle lotte nuove di questo genere hanno già cominciato ad emergere. Attraverso queste lotte e altre come quelle, la moltitudine dovrà inventare delle nuove forme democratiche ed un nuovo potere costituente che, un giorno, ci condurrà attraverso e al di là dell’Impero.

La genealogia che seguiremo nella nostra analisi del passaggio dall’imperialismo all’Impero sarà prima europea, poi euroamericana, non perché noi pensiamo che quelle regioni siano le fonti privilegiate o esclusive delle idee nuove e dell’innovazione storica, ma semplicemente perché questa è stata la via geografica dominante seguendo la quale le teorie e le pratiche che animano oggi l’Impero si sono sviluppate - in armonia, come noi cercheremo di mostrare, con l’evoluzione del modo capitalista di produzione. Dal momento in cui la genealogia dell’Impero è, in questo senso, eurocentrica, i suoi poteri attuali non sono limitati ad alcuna regione. Le logiche del potere che hanno avuto, in un senso, la loro origine in Europa e negli Stati Uniti, investono al presente le pratiche di dominazione nel mondo intero. Più importante: le forze che contestano l’Impero e che prefigurano effettivamente una società mondiale di sostituzione non sono esse stesse limitate ad una regione geografica. La geografia di questi poteri di sostituzione - la nuova cartografia - attende sempre di essere scritta - o piuttosto, in realtà, essa è attualmente in corso di scrittura da (attraverso) le resistenze, le lotte e i desideri della moltitudine.

Scrivendo questo libro, abbiamo cercato di applicare meglio che potevamo un approccio largamente interdisciplinare. Il nostro proposito mira ad essere egualmente filosofico e storico, culturale ed economico, politico ed antropologico. Per una parte, il nostro obiettivo di studio esige questa vasta interdisciplinarietà, poiché nell’Impero, le frontiere che avrebbero giustificato un approccio disciplinare stretto sono sempre meno numerose. Per esempio, in questo mondo imperiale, l’economista ha bisogno di una conoscenza elementare della produzione culturale per comprendere l’economia; allo stesso modo, la critica culturale ha bisogno di una conoscenza elementare dei processi economici per comprendere la cultura. E’ un’esigenza consustanziale al nostro progetto. Ciò che noi speriamo aver apportato come contributo, in questo libro, è un quadro teorico generale ed una cassetta degli attrezzi di concetti per teorizzare ed agire allo stesso tempo in e contro l’Impero.

Come per la maggior parte dei grossi libri, questo può essere letto in molte maniere differenti. Dalla prima all’ultima pagina e vice versa, per frammenti, come un gioco infantile (jeu de marelle) , o per corrispondenze. I capitoli della prima parte introducono la problematica generale dell’Impero. Nella sezione centrale del libro (seconda e terza parte), noi esponiamo la storia dei passaggi dalla modernità alla postmodernità, o ancora, effettivamente, dall’imperialismo all’Impero. La seconda parte espone questo passaggio dal punto di vista delle idee e della cultura, dell’inizio del periodo moderno ai nostri giorni; il filo rosso che corre attraverso questa parte è la genealogia del concetto di sovranità. La terza parte racconta lo stesso passaggio dal punto di vista della produzione, questo termine essendo inteso in modo molto largo, che va dalla produzione economica alla produzione del soggetto. Questo racconto abbraccia un periodo più piccolo e si concentra essenzialmente sulle trasformazioni della produzione capitalistica dalla fine del XIX secolo ai nostri giorni. La seconda e la terza parte sono strutturate in maniera parallela: le prime sezioni di ogni parte trattano la fase moderna dell’imperialismo; le sezioni mediane, dei meccanismi del passaggio; le sezioni finali analizzano il nostro mondo postmoderno che è quello dell’Impero.

Abbiamo strutturato il libro in questa maniera al fine di accentuare l’importanza del passaggio dal reame delle idee a quello delle della produzione. L’Intermezzo tra la seconda e la terza parte funziona come una cerniera che articola il movimento da un punto di vista all’altro. Noi pensiamo che questo dislocamento del punto di vista funzioni un po’ come, in Marx, il passaggio del Capitale in cui l’autore ci invita a lasciare la sfera agitata e rumorosa dello scambio ed a scendere negli antri nascosti della produzione. Il regno della produzione si situa laddove le ineguaglianze si manifestano chiaramente e, inoltre, dove nascono le resistenze e le soluzioni di ricambio più efficaci al potere dell’Impero. Nella quarta parte, infine, noi cerchiamo di identificare queste soluzioni di ricambio che definiscono oggi le linee di un movimento che oltrepassa l’Impero.

Questo libro è stato cominciato subito dopo la guerra del Golfo e termina prima dell’inizio della guerra del Kossovo. Il lettore dovrà situare l’argomento nel punto intermedio tra questi due avvenimenti chiave che segnano l’edificazione dell’Impero.

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Tratto da ALIAS N. 42 - inserto de il manifesto, 24 Ottobre 2009

Il pensiero danzante 
di Lord Keynes


di Toni Negri



Salvare il capitalismo riconoscendo il potere degli operai. Questo l’obiettivo dell’economista inglese. Ma il conflitto di classe ha mandato in frantumi quel fragile equilibrio

Keynes fu un galantuomo. Significa: un borghese onesto, non un borghesuccio alla Proudhon, non un ideologo, ma piuttosto un «uomo di mano», come sapevano esserlo gli economisti classici, quando l’economia politica nasceva ancora dall’ordinare politicamente il mercato e la società.
Per Keynes il sapere funziona fattualmente, il che vuol dire – nella cultura del pragmatismo – che un dispositivo teleologico (nella fattispecie la sicurezza della riproduzione del sistema capitalistico) va introdotto nell’analisi delle sequenze dei fenomeni e nel loro assemblaggio – così, organizzando l’ordine dei fatti, si può costituire, con prudenza ed efficacia, l’ordine della ragione.

La scienza economica, ai tempi di Keynes, non era ancora divenuta quell’orrida macchinetta matematizzata, che oggi è disponibile a tutte le varianti dell’avventurismo finanziario e a tutte le derivazioni della rendita. Una volta messa – questa matematica – nelle mani dell’individualismo imbroglione, abbiamo visto che effetti abbia prodotto. Questo non significa tuttavia che la matematica non abbia nulla a che fare con l’economia o con altre discipline. Al contrario, essa può essere utile e produttiva nell’economia politica, ma su tutt’altro terreno: quello, ad esempio, sul quale il neo-keynesismo nascerà, dall’incontro fra i programmatori socialisti della pianificazione sovietica (o quelli liberal del New Deal) ed i teorici matematizzanti della razionalizzazione del mercato, inventata da Walras. Al suo tempo, tuttavia, in Keynes il rapporto fra ragione e realtà è ancora del tutto politico: il capitale vuole ancora chiarezza per se stesso. Keynes si presenta sul terreno della scienza economica (e sul terreno politico della critica dell’economia politica ) alla fine della prima guerra mondiale. Fa parte della rappresentanza inglese alla conferenza di Versailles. È sbalordito dalla stupidità dei politici che, dopo la sconfitta, vogliono schiacciare la Germania impoverendola ulteriormente. «Oso predire che la vendetta non tarderà». È Keynes che già nel 1919, di fronte alla follia di quelle élite che cercano, costruendo l’assetto post-bellico di applicare i metodi dell’imperialismo classico (e nello stesso tempo tremano davanti al potente richiamo dell’Ottobre rosso) all’interno stesso dell’Europa, mette in guardia contro «quella guerra civile finale tra le forze della reazione e le disperate convulsioni della rivoluzione, di fronte alla quale gli orrori della recente guerra tedesca sembreranno un nonnulla, e che distruggerà, qualunque sia il vincitore, la civiltà e il progresso della nostra nazione». Il fatto è che Keynes aveva capito già allora che la rivoluzione russa aveva cambiato completamente l’economia politica del capitalismo, che la rottura del mercato era definitiva, che l’«uno si è diviso in due» (come dirà più tardi un leader comunista). E cioè che bisognava riconoscere che lo sviluppo capitalistico era esso stesso percorso e prefigurato dalla lotta di classe e dai suoi movimenti. È qui che vediamo Keynes esprimere una prima definitiva consapevolezza: «si dice che Lenin abbia dichiarato che il miglior modo di distruggere il sistema capitalistico sia quello di rovinarne la moneta. Lenin aveva certamente ragione. Non vi è mezzo più sottile e più sicuro di scalzare le basi della società esistente». Ed ecco allora Keynes occuparsi scientificamente di questo problema politico: come usare la moneta, la finanza, per battere il comunismo. Sulla traccia keynesiana, il problema centrale dell’economia politica, resterà questo, sempre, nel secolo ventesimo. Keynes credeva nella virtù della finanza (ebbe anche un rapporto equivoco con la Borsa, che durò finché non gli capitò di prendere una botta sui denti. È quello che sovente succede in Borsa anche ai più abili... non credo, come sembra credere invece il suo biografo Harrod, che Keynes avesse la speculazione borsista nel suo cuore!). La virtù della finanza, dunque. La finanza costituisce il cuore pulsante del capitalismo: questo è il realistico punto di vista di Keynes. Egli così rovescia da principio le vecchie concezioni moralistiche che, dal medioevo a Hilferding, hanno squalificato l’egemonia del denaro nella produzione di ricchezza e nella riproduzione dell’ordine sociale. Di contro, per Keynes, i mercati finanziari svolgono un ruolo di moltiplicatori della ricchezza. Può, quest’assunzione teorica, esser valida anche in periodo di crisi economica? Certo, risponde Keynes, dal centro di quella crisi che nasce negli anni Venti per ingigantirsi alla fine del decennio. Lo Stato dovrà allora intervenire sulla società, e riorganizzarla produttivamente, attraverso un’azione sul tasso di interesse, «verso quel punto, relativamente alla tabella dell’efficienza marginale, al quale vi è piena occupazione». In questo modo si costruisce un intero ricettario terapeutico del keynesismo di fronte alla crisi che scuote continuamente lo sviluppo. Qui, nel momento stesso in cui costruisce un nuovo modello di equilibrio, tenendo presente pragmaticamente le finalità dell’ordine capitalistico, Keynes propone di determinare uno squilibrio continuo, nel deficit spending, dell’iniziativa dello Stato. Ma questo deficit apre nuovi margini per la domanda effettiva e sviluppa la dinamica capitalistica, pur accettando la rigidità verso il basso dei salari dei lavoratori. È così che la lotta di classe viene assorbita nel sistema del capitale. La proposta di Keynes è del tutto progressista. Se ne accorgerà presto, Keynes stesso, quando trattando a Bretton Woods dei rapporti monetari internazionali, si sentirà opporre dai rappresentanti conservatori di Washington che la moneta di referenza non poteva dimenticare uno standard reale, che questo standard era il dollaro, e cioè uno strumento di organizzazione e di divisione internazionale del lavoro, basato sull’accumulazione dell’oro nella banca di America. Di conseguenza: il deficit spending che i singoli governi capitalisti e nazionali avrebbero potuto avanzare per contenere progressivamente i movimenti delle singole classi operaie nazionali (che vogliono trasformare la società e rompere il giogo capitalista), doveva essere controllato dal centro capitalistico, dal Komintern di Wall Street. Addio all’illusione del bancor, allora, grande invenzione keynesiana di una moneta ideale basata sul libero scambio, che avrebbe permesso equilibri diversi in riferimento ai desideri delle popolazioni ed all’intensità delle lotte della classe operaia organizzata. Era dunque un capitalista serio, John Maynard Keynes. Aveva compreso che, davanti alla reazione ed alla rivoluzione, in presenza di un potere socialista già affermato, non una terza via, ma solo una sintesi politica più avanzata, poteva difendere gli interessi capitalistici. Ridendosela dell’«egemonia della produzione reale», Keynes pensa infatti che la finanza possa rappresentare, confrontandosi alla produzione (quando per società produttiva si intendesse «società civile»), la mediazione degli interessi contrapposti delle classi, e quindi la costruzione di un nuovo modello di capitalismo. Contrario al bolscevismo, Keynes non accettava lo slogan «il potere a chi lavora», e neppure la sua legittimazione: «chi non lavora non mangia». Comprendeva tuttavia che il socialismo ed il comunismo andavano al di là, di fatto, nella loro ipotesi di costruzione di un nuovo ordine del lavoro, di queste primitive parole d’ordine e di questi banali obiettivi politici. Il comunismo – secondo Keynes – poteva rappresentare la totalità del lavoro astratto, estratto da tutti i lavoratori della società, quindi da tutti i cittadini, quindi dall’uomo stesso socializzato. Oggi, accettando queste paradossali esclamazioni, potremmo dire che il comunismo è la forma del «biopolitico», quando per «biopolitico» si intenda che, non solo la società, ma la vita è stata messa al lavoro per produrre merci; e che non solo le relazioni sociali, ma il rapporto fra menti e corpi è ormai produttivo. Keynes sembra aver compreso, in una straordinaria anticipazione, l’avvento di quel che oggi chiamiamo il «comunismo del capitale». Voleva trattenere la lotta di classe dentro le regole di una società dove lo sfruttamento del lavoro fosse non semplicemente finalizzato alla costruzione del profitto,ma anche alla progressione nel soddisfacimento dei bisogni. Non sarà allora difficile comprendere quanto forte fosse l’odio di Keynes per il rentier! Se vogliamo muoverci per la salvezza del sistema capitalista, dobbiamo, afferma Keynes, auspicare (ed è moralmente legittimo oltre che politicamente urgente) «l’eutanasia del redditiero». Perché il rentier è un anarchico, è un egoista, che sfrutta, insieme al possesso di terre e degli immobili, degli spazi metropolitani, il lavoro che circonda queste terre e questi spazi e che li valorizza continuamente. Il rentier non spende nulla in questo gioco, guadagna senza lavorare e vince senza combattere. Questo squallido sfruttatore va eliminato. Siamo al punto più alto di quell’intelligenza capitalistica che, cercando di comprendere l’avversario, all’interno della lotta di classe, attraversò il ventesimo secolo. Lasciatemi sorridere: fin qui Keynes ci appare un genio sovversivo. Tanto più se si pensa che oggi la rendita è ridiventata centrale nel sistema post-industriale dell’organizzazione del capitale! Ma oggi non c’è leader politico, né pensatore economico che abbia il coraggio di attaccare la rendita: si fa moralizzazione contro i ladri palesi, i corruttori del credito bancario, ma i ladri consueti e sorrettizi, i rentiers che, son peggio degli usurai, chi li attacca? Chi potrà mai mettere in causa questo sacro fondamento, reale e simbolico, di ogni forma di proprietà? Keynes ha provato, non fu gran cosa, ma ci fu. Quello, però, dell’attacco alla rendita, è solo il punto più alto, fuor di ogni dubbio, del discorso politico di Keynes. Ma è qui che si rivela il carattere illusorio dei ragionamenti di Keynes. In effetti già nello sviluppare il suo discorso progressista, Keynes dimentica troppo spesso le condizioni nelle quali il suo punto di vista (inteso alla salvezza del capitalismo) si colloca. Keynes muove infatti da due condizioni che considera insuperabili e che non ha mai messo in dubbio: il consolidamento finale, attuale e tendenziale del potere coloniale, in primo luogo; in secondo luogo, la figura definitiva raggiunta in Europa dall’organizzazione dei rapporti di classe (organizzazione sindacale ed strutturazione sociale del Welfare). È qui, a fronte delle enormi trasformazioni del lavoro e della composizione delle classi, della trasformazione, inoltre, delle dimensioni geopolitiche della lotta di classe – è qui dunque che comincia per il keynesismo la difficoltà di presentarsi come teoria dominante all’interno delle dinamiche dello sviluppo, nella seconda metà del ventesimo secolo e all’aprirsi del ventunesimo. Guardandolo da questo punto di vista, su questo snodo secolare, Keynes resta un evento, una folgorazione intellettuale –ma del ventesimo secolo, in conclusione della lunga crisi capitalistica dell’occidente. La sua è stata una risposta adeguata alla rivoluzione sovietica, ha rappresentato l’urgenza egemonica di portare la lotta di classe nello sviluppo e nel controllo del capitale. Non è null’altro che questo. Gli manca la possibilità di considerare l’estensione globale della lotta di classe, la fine del colonialismo, e soprattutto l’esaurirsi della capacità capitalistica di trasformare imetodi dello sfruttamento e dell’accumulazione proprio qui da noi, nel primo mondo. Guardate quello che è successo dopo Keynes. La rivoluzione è proceduta attraversando il mondo del sottosviluppo e togliendo al capitale la possibilità di governarlo nelle forme coloniali classiche. Alla dipendenza si è sostituita l’interdipendenza. Globalizzandosi ed unificandosi il capitale ha in certo qual modo vinto, ma nel medesimo tempo ha in certo qual modo perso: perché, di sicuro, il vecchio ordine è stato distrutto ed un nuovo ordine è davvero molto difficile da costruire. Keynes è andato a male su questo terreno. Per questo Keynes è oggi irrecuperabile. Non è difficile spiegare perché. Il New Deal keynesiano era stato l’esito di un assemblaggio istituzionale basato sull’esistenza di tre presupposti: uno Stato-nazione capace di sviluppare in maniera indipendente politiche economiche nazionali; la capacità di misurare profitti e salari dentro un rapporto di ridistribuzione democraticamente accettato; relazioni industriali che permettevano una dialettica legalmente accettata fra interesse imprenditoriale e movimenti (rivendicazioni) della classe operaia. Nessuno di questi tre presupposti è oggi presente nella condizione economico-politica attuale. L’esistenza dello Stato-nazione è stata messa in crisi dai processi di internazionalizzazione produttiva e di globalizzazione finanziaria, che rappresentano le basi di definizione di un potere imperiale sopranazionale. In secondo luogo la dinamica della produttività tende sempre di più a dipendere da produzioni immateriali e dal coinvolgimento di facoltà umane e cognitive, difficilmente misurabili con criteri tradizionali, sicché la produttività sociale non consente una regolazione salariale basata sul rapporto tra salario e produttività. La crisi dei sindacati è, da questo punto di vista, un elemento esemplare (anche se non definitivo) nello sviluppo del sistema capitalistico di oggi. Così tocchiamo la crisi dei rapporti contrattuali: mancano i soggetti di ogni accordo keynesiano. In più, l‘unico elemento che accomuna gli interessi capitalistici, è in primo luogo il perseguimento di un profitto a breve termine, in secondo luogo lo sfruttamento radicale delle possibilità di godimento delle rendite fondiarie, immobiliari e di servizio. Sicché tutto questo rende praticamente impossibile la formulazione di riforme progressive. Il risultato complessivo è che nel capitalismo attuale non vi è spazio per una politica istituzionale di riforme. L’instabilità strutturale del capitalismo di oggi è definitiva, nessun New Deal è possibile. Se proprio volessimo fare uno sforzo per resuscitare Keynes, potremmo spostare il suo deficit spending, il suo concetto di socializzazione degli investimenti, verso delle istituzioni del basic income, e cioè verso delle politiche che anticipino le forme dello sviluppo ed organizzino la struttura fiscale dello Stato in riferimento alla produttività globale del sistema, quindi alla capacità produttiva di tutti i cittadini. Ma facendo questo, con tutta probabilità, saremmo ben al di là delle misure e dei presupposti antropologici di una società capitalistica e soprattutto delle ideologie dell’individualismo (proprietario e/o patrimoniale) e di tutte le conseguenze politiche che ne coronano lo sviluppo. Battendoci su un basic income che non sia semplicemente un elemento salariale, ma il riconoscimento di uno sfruttamento che tocca, non solo i lavoratori ma tutti quelli che sono a disposizione dell’organizzazione capitalistica nella società – ammettendo e battendoci per questo siamo già al di là di ogni immagine del capitalismo proprietario. L’uno si è diviso in due: mentre Keynes aveva lavorato incessantemente per chiudere questa divisione e per ricondurre hobbesianamente le lotte sociale all’Uno, oggi la divisione e le lotte si sono riaperte. Probabilmente una stagione di lotta di classe sta fiorendo. Keynes amava la danza (aveva sposato una ballerina), ma non amava i fiori (ne era allergico).

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Tratto da http://www.filosofico.net/

Antonio Negri
A cura di Mai Saroh Tassinari e Diego Fusaro

"Siete soltanto un mucchio di anarchici, ci dirà qualche nuovo Platone. Ma non è vero. Saremmo degli anarchici (come Trasimaco e Callicle, gli immortali interlocutori di Platone) se non ragionassimo dal punto di vista della materialità costituita nelle reti della cooperazione produttiva – o, in altre parole, se non ragionassimo dalla prospettiva di un’umanità che si costituisce produttivamente attraverso il ‘nome comune’ della libertà. No, non siamo anarchici, siamo comunisti che hanno visto in quale misura la repressione e la distruzione dell’umanità siano state portate avanti dai big government socialisti e liberali. E abbiamo anche visto come tutto ciò venga ora riesumato nel governo imperiale, nel momento in cui i circuiti della cooperazione produttiva hanno reso la forza lavoro nel suo complesso capace di autocostituirsi in governo" (Impero, p. 325).

Antonio (Tony) Negri, nato a Padova nel 1933, è stato uno dei soci fondatori di “Potere Operaio” e, successivamente, del gruppo Autonomia. Ha lavorato al fianco di molti altri autonomisti famosi, studenti e femministe degli anni 60 e 70, inclusi Raniero Panzieri, Mario Tronti, Sergio Bologna, Romano Alquati, Mariarosa Dalla Costa e François Berardi. Inoltre, ha scritto per Futur Antérieur con persone del calibro di Paolo Virno.

Meglio conosciuto come il co-autore, con Michael Hardt, di Impero (Rizzoli, Milano 2002), Negri è libero (ma non gli è permesso di prendere parte alle elezioni, né di insegnare) dalla primavera del 2003, dopo aver trascorso un periodo in carcere per propositi criminosi, con l’accusa che egli e i suoi scritti fossero ‘moralmente colpevoli’ in atti di violenza che erano causati dal suo sostegno all’ ‘insurrezione armata’ contro lo stato italiano durante gli anni 60 e 70. Nel 1997, Negri è ritornato volontariamente da un esilio di quattordici anni in Francia, dopo essere stato eletto nel 1983 al corpo legislativo, mentre veniva imprigionato e poi rilasciato per immunità parlamentare.

Le sue opere prolifiche, iconoclastiche, cosmopolite, altamente originali e spesso di densa e difficile filosofia tentano di attuare una critica nei confronti della maggior parte dei principali movimenti intellettuali degli ultimi cinquant’anni, in difesa di una nuova analisi marxista del capitalismo. La polemica tesi di Impero, secondo la quale la globalizzazione e l’informatizzazione dei mercati mondiali a partire dalla fine degli anni 60 hanno prodotto uno sviluppo storico mai visto prima – ciò che egli chiama “la vera sottomissione dell’esistenza sociale per opera del capitale” – tocca in maniera piuttosto diretta un numero di temi collegati alla Società dell’Informazione, alla Network Economy e alla globalizzazione, che forse possono spiegare il grado relativamente alto di interesse che hanno attratto quando il libro è stato pubblicato nel 2000.

Impero, che come sottotitolo recita Il nuovo ordine della globalizzazione, è diventato sempre più influente col passare degli anni e ha ispirato molti progetti in tutto il mondo. Alcuni di questi includono i no-borders, Libre Society, KEIN.ORG, NEURO-Networking Europe, D-A-S-H e molti altri.

Il seguito di Impero, Moltitudine, è stato pubblicato nell’agosto 2004: in esso, Negri recupera molti punti trattati soprattutto quando s’era accostato al pensiero di Spinoza (L’anomalia selvaggia, 1991; Spinoza sovversivo, 1992; Democrazia ed eternità in Spinoza, 1995); nella sua lettura, il filosofo veneto stringe il pensiero spinoziano in un rapporto unitario di produzione-costituzione. Il problema che Spinoza pone è, per Negri, quello della rottura della unidimensionalità dello sviluppo capitalistico e dell'istituzione del suo potere. L'opera di Spinoza è la definizione di un progetto rivoluzionario che attraversa il moderno, nell'ontologia, nella scienza, nella politica. L'immaginazione produttiva è potenza etica: Spinoza la descrive come una facoltà che presiede alla costruzione e allo sviluppo della libertà, che sostiene la storia della liberazione. Essere vuol sempre dire essere partecipi della moltitudine. La nostra esistenza è sempre, in sé, comune. Spinoza insegna che vivere è la selvaggia scoperta di sempre nuovi territori dell'essere, territori costituiti dall'intelligenza, dalla volontà etica, dal piacere dell'innovazione, dallo slargarsi del desiderio, mostra la vita come sovversione - è questo il senso dello spinozismo quale Negri lo intende.

Forse la sintesi più significativa del progetto filosofico di Negri è quella del critico neoliberale John Reilly, che definisce Impero “una congiura postmoderna per abbattere la Città di Dio.”

In effetti, l’adesione di Negri, nei primi anni Cinquanta, al movimento dei cattolici lavoratori e alla teologia liberale sembra aver lasciato un marchio indelebile nel suo pensiero: una delle sue opere più recenti, Il tempo per la rivoluzione (2003), riguarda soprattutto temi tratti da Agostino di Ippona e Baruch Spinoza, e può essere descritto come un tentativo di trovare la Città di Dio senza l’aiuto delle ‘illusioni trascendentali’ e della ‘teologia di Potere’, che egli trova in pensatori come Martin Heidegger e John Maynard Keynes, ampliando e tentando di correggere la critica dell’ideologia in quanto falsa coscienza esposta da Karl Marx.

Tra le tematiche centrali di Negri ci sono il marxismo, l’anti-globalizzazione, l’anti-capitalismo, il postmodernismo, il neoliberalismo, la democrazia, la proprietà comune e le masse. Anche se riconosce l’influenza di Michel Foucault, de La condizione della Postmodernità (1989) di David Harvey, de Il postmodernismo o la cultura logica del tardo capitalismo (1991) di Fredric Jameson e de L’anti-edipo: schizofrenia e capitalismo di Gilles Deleuze e Felix Guattari, in generale Negri ha una considerazione molto scarsa nei confronti del postmodernismo, di cui il solo merito, secondo lui, è quello di essere stato un sintomo della transizione storica le cui dinamiche egli stesso e Hardt hanno cercato di spiegare in Impero. Il mondo sorto dopo il crollo del blocco sovietico è, secondo Negri e Hardt, il mondo del libero mercato che ha travolto le frontiere dei vecchi stati-nazione: la sovranità è passata a una nuova entità, l'Impero, che non accetta limiti né confini, non ha centro né periferie, vuole controllare tutti gli aspetti del corpo e della mente, superare la storia e porsi come la fonte della pace, della legittimità, della giustizia. L'Impero, come lo stato romano secondo Polibio, è una sintesi delle tre fondamentali forme di governo: la monarchia è impersonata in primo luogo dal monopolio della forza militare da parte degli Stati Uniti, e poi dal potere politico delle nazioni del G8, da agenzie militari come la Nato, dagli organismi di controllo dei flussi finanziari come la Banca mondiale o il Fondo monetario. L'aristocrazia è quella del denaro: le grandi multinazionali che organizzano la produzione e la distribuzione dei beni, e in generale i detentori del potere economico. La democrazia è costituita dagli organismi che tutelano gli interessi popolari: le organizzazioni non governative, non-profit, per la difesa dei diritti umani sono i moderni tribuni della plebe. E alla moltitudine - l'incarnazione postmoderna del popolo, cioé gli individui che vivono nel mercato globale, ne subiscono le ineguaglianze, sono espropriati del loro lavoro, anzi della loro vita - si aprono gli spazi per una rivoluzione dell'ordine mondiale. Dopo alcune premesse di tipo generale, il saggio si articola in quattro parti e un "Intermezzo" dal titolo suggestivo, "Il controImpero". Se la prima sezione ha come tematica su cui poggiare l'analisi "La costituzione politica del presente", la seconda esamina i "Passaggi di sovranità" e prende in considerazione Europa e Stati Uniti, mentre nella terza il tema è prevalentemente economico, titolo della sezione è appunto, "Passaggi di produzione". La quarta e ultima parte è particolarmente coinvolgente e merita approfondite riflessioni, trattando appunto non solo del presente, quanto di quello che sta germinando del prossimo futuro sia come possibili contromisure che come progetto. Ed è proprio questa parte che vede numerose consonanze con l'elaborazione teorica di quello che è ormai universalmente definito "il popolo di Seattle", nuovo soggetto politico di cui non è più possibile non tenere conto. È questa la visione di "Impero", il libro di Michael Hardt e Antonio Negri che è stato salutato dai giornali americani, inglesi, francesi come il più importante tentativo di interpretazione della nostra epoca, addirittura accostato al Capitale di Marx, la 'grande idea' che dominerà la scena culturale del decennio. È una profonda riflessione teorica, fondata sugli strumenti d'indagine di molte discipline, dalla filosofia alla storia, dall'economia all'antropologia, dalla sociologia alla politica alla storia delle idee. È analisi del presente, storia del passato e utopia rivolta al futuro. Ma che cosa intende esattamente Negri quando parla di Impero, di questo “nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo”? Col crollo dell’Unione Sovietica, come abbiamo detto, è venuta meno la dicotomia che aveva caratterizzato la situazione politica mondiale del dopoguerra e che aveva trovato espressione nella “Guerra fredda”: all’idea dei due “blocchi” contrapposti in una guerra imminente ma mai combattuta, salvo nei “punti caldi” (Korea, Vietnam, ecc), si è allora sostituita l’idea di un unico grande Impero, rizomatico e dotato di innumerevoli gangli più che di una sola testa; un Impero che, profilandosi come una “nuova forma di sovranità globale”, assorbe ogni angolo del mondo entro i suoi confini in espansione: alla vecchia distinzione tra Paesi allineati con un blocco anziché con l’altro, si sostituisce quella tra ciò che è interno all’Impero e ciò che ancora non lo è e che, pertanto, è combattuto come un nemico pericoloso perché non ancora riassorbito. Di per sé, tuttavia, l’Impero non deve essere visto come il male assoluto: non diversamente da quel che scriveva Marx nel Manifesto a proposito della borghesia, Negri e Hardt scrivono che l’Impero è sicuramente “meglio di ciò che l’ha preceduto” (p. 56), nella misura in cui esso spazza via “i crudeli regimi del potere moderno” e incrementa “i potenziali di liberazione” (p. 56). Nella prefazione all’opera, Negri spiega l’inconfutabile realtà dell’Impero:

“L'impero si sta materializzando proprio sotto i nostri occhi. Nel corso degli ultimi decenni, con la fine dei regimi coloniali e, ancora più rapidamente, in seguito al crollo dell'Unione Sovietica e delle barriere da essa opposte al mercato mondiale capitalistico, abbiamo assistito a un'irresistibile e irreversibile globalizzazione degli scambi economici e culturali. Assieme al mercato mondiale e ai circuiti globali della produzione sono emersi un nuovo ordine globale, una nuova logica e una nuova struttura di potere: in breve, una nuova forma di sovranità”.

Chiarita la realtà fattuale dell’Impero, Negri ne esamina da vicino il concetto:

“Il concetto di Impero è caratterizzato, soprattutto, dalla mancanza di confini: il potere dell'Impero non ha limiti. In primo luogo, allora, il concetto di Impero indica un regime che di fatto si estende all'intero pianeta, o che dirige l'intero mondo «civilizzato». Nessun confine territoriale limita il suo regno. In secondo luogo, il concetto di Impero non rimanda a un regime storicamente determinato che trae la propria origine da una conquista ma, piuttosto, a un ordine che, sospendendo la storia, cristalizza l'ordine attuale delle cose per l'eternità”.

E Negri precisa che l’impero non dev’essere confuso con l’imperialismo:

“L'Impero emerge al crepuscolo della sovranità europea. Al contrario dell'imperialismo, l'impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l'intero spazio mondiale all'interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. L'Impero amministra delle identità ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali modulando reti di comando. I singoli colori nazionali della carta imperialista del mondo sono stati mescolati in un arcobaleno globale e imperiale”.

Contro questa forma di dominio sempre più assoluta e onnifagocitante si muove non più la sola classe operaia (come pensava un tempo Marx), bensì poteri alternativi, forze di resistenza, in particolare la “moltitudine”, eco postmoderna dell’antagonismo tipico della modernità: il popolo. In questo senso la filosofia torna con Negri ad essere intesa come prassi, come “proposizione soggettiva, desiderio e prassi che si applicano all’evento” (p. 60). Impero si chiude appunto con una suggestiva descrizione della prassi del rivoluzionario che lotta contro l’Impero e che Negri accosta a San Francesco, giacchè come il frate umbro deve identificarsi “nella condizione comune della moltitudine” e impegnarsi per “contrapporre la gioia di essere alla miseria del potere”.   

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Tratto da http://www.filosofia.it/

Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione.
di Carlo Scognamiglio

Il processo di globalizzazione capitalistica, oltre a far emergere il mercato mondiale e il nuovo ordine mondiale, determina, secondo l'ultimo e attesissimo lavoro di Michael Hardt e Toni Negri, la proposizione di una nuova forma di sovranità, che scavalca, lasciandole indietro, le vecchie sovranità nazionali, superandole in una nuova logica di potere. L'impero rappresentato dagli autori non dispone di un centro di potere, né si serve di definiti confini; esso si rivela infatti deterritorializzato e deterritorializzante, liberandosi (questa sarà l'argomentazione chiave del testo) del dualismo dentro-fuori, tipica delle concezioni politiche dell'età moderna. Altro carattere fondante dell'impero è il nuovo assetto produttivo, anch'esso progressivamente orientato su quella che gli autori chiamano "produzione biopolitica", intesa come produzione della vita sociale, a discapito della produzione industriale. Rispetto alla crucialità del presente passaggio storico, la tesi è inequivocabile: la modernità è stata degli europei, la postmodernità è degli americani, i quali tuttavia non sono una potenza imperialista ("L'imperialismo è finito" (p.15)) , ma la loro sovranità si esercita in termini imperiali, facendone una realtà politica più agevolmente assimilabile a quella dell'Impero romano, che non alla supremazia imperialistica dell'Inghilterra nell'età moderna.
Si tratta indubbiamente di un volume molto ampio e complesso, al cui interno si sviluppano varie argomentazioni, nonché numerose osservazioni sulla storia della filosofia (europea). Tuttavia il cuore del libro è costituito probabilmente dal capitolo VI, intitolato "La sovranità imperiale", nel quale viene sostanzialmente sviluppata la tesi filosofica di fondo: il mondo imperiale rappresenta il superamento definitivo della dialettica tra un "dentro", inteso come sfera della soggettività, e un "fuori", concepito invece come dimensione pubblica. Questo dualismo tipico della modernità non solo risulta oggi inattuale, ma gli strumenti utilizzati dal pensiero critico moderno per superarlo si rivelano del tutto inefficaci. Anche la concezione rivoluzionaria di Marx non può che elaborare la sua critica della modernità all'interno dell'evoluzione delle varie forme di potere susseguitesi nella storia, tentando, utilizzando in ogni caso il "dentro" come trampolino, di saltare verso un fuori. Tuttavia questo "fuori" continua a presupporre il suo fondamento, che in quanto tale, lo costituisce e lo ribadisce nella sua "interiorità". L'osservazione è indubbiamente acuta, e meriterebbe di essere approfondita, senonchè la prosecuzione del ragionamento portato avanti da Hardt e Negri lascia alquanto delusi. Difatti, rispetto alla problematicità del dualismo individuato, gli autori ne constatano il superamento in maniera piuttosto dubbia: innanzitutto la dialettica pubblico-privato viene dissolta dalla crescente privatizzazione del pubblico; in secondo luogo essi dichiarano che non esistono più guerre imperialiste, bensì ogni conflitto rappresenta unicamente un'operazione di polizia interna all'ordine imperiale; infine, si ritiene che la dimensione del mercato mondiale abbia ormai superato ogni possibile "fuori". In conclusione, "nello spazio liscio dell'Impero non c'è un luogo del potere - il potere è, a un tempo, ovunque e in nessun luogo. L'impero è un'utopia, un non-luogo" (p.181). Prescindendo dal linguaggio affabulatorio con il quale vengono sviluppate le argomentazioni, risulta impossibile non accorgersi della difficoltà di tenere insieme questa completa indefinibilità dei luoghi dell'impero, e la parallela costruzione della soggettività rivoluzionaria che, pur nascendo dentro l'impero, da questa condizione in qualche modo deve voler venir fuori, magari proprio attraverso quello che gli autori definiscono esodo. Il termine difatti indica infatti in primis la fuga dall'autorità, e in secondo luogo la costruzione di un "contro-impero", di "un nuovo modo di vita". Insomma, gli autori giungono alla palese contraddizione quando spiegano il senso dell'esodo, della diserzione: "la diserzione non ha luogo: è l'evacuazione dei luoghi del potere" (p.203), proprio quei luoghi che precedentemente essi avevano giurato non esistessero più. Inoltre, il vero compito della nuova soggettività viene ad essere la costruzione, nel non-luogo, di un luogo nuovo.
La metafora, che chiude la seconda parte del libro, è a questo proposito emblematica: "la moltitudine deve spingersi dentro l'Impero per uscirne fuori dall'altra parte" (p.208, corsivo nostro).
Il percorso che tale soggettività dovrà sviluppare è anch'esso ben esplicitato: esso deve essere quel che i cristiani furono per l'impero romano; il riferimento è infatti Agostino: "nessuna comunità determinata può riuscire a creare un'alternativa al comando imperiale; solo una comunità universale e cattolica che riunisca tutti i popoli e tutte le lingue in un viaggio comune che può raggiungere lo scopo" (p.198). Essere comunisti si rivela dunque una gioia, un senso di innocenza, di amorevole cooperazione; ecco perché, secondo gli autori, Francesco d'Assisi può essere assunto ad esempio dalla nuova militanza comunista.

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