Tratto da “Dal Pci al socialismo europeo”

un’autobiografia politica di Giorgio Napolitano 

 

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26 apr, 2014

 

Il 1956: il dramma dell’Ungheria e il Pci di Mantova, quando dissentì dalla Direzione Nazionale del Pci: i ricordi G.Napolitano e di Renato Sandri. Gli articoli de il Progresso giornale della Fed. PCI di Mantova

 

Il trauma dell’autunno 1956. Le radici della posizione del Pci

 

Ma ci fu il trauma del 1956: dei ” fatti d’Ungheria”, della rivoluzione ungherese e della sua repressione.

Ero stato in precedenza partecipe al pari di tutti i comunisti italiani, in quell’anno fatidico, del senso di sconvolgente sorpresa e di sbigottimento per il “rapporto segreto” di Krusciov al xx Congresso del Pcus, per la rivelazione e violenta denuncia delle aberrazione e dei crimini di Stalin. La gamma delle reazioni nel partito fu la più ampia: a partire da un incredulo rifiuto, in cui si rifletteva la profondità del mito e del culto di Stalin quali si erano radicati, in grandi masse (non solo di militanti in senso stretto), fin dagli anni della seconda guerra mondiale e del decisivo contributo sovietico, fatto di immane sacrificio ed eroismo, e anche di coesione e di forza – così avevamo creduto – di quel sistema, alla vittoria sul nazi-fascismo. Ma a quegli atteggiamenti si accompagnò, al polo opposto,nel partito un senso di liberazione per quel bagno di verità e per quello straordinario impulso al rinnovamento. Di un tale sentimento si erano fatti portatori, nel consiglio nazionale del Pci, in trasparente polemica con Togliatti, i più combattivi esponenti esponenti della generazione dei quarantenni di allora, tra i quali Giorgio Amendola, che continuava essere per me il principale punto di riferimento. E da quel dibattito scaturì l’intervista di Togliatti alla rivista “Nuovi Argomenti”, di cui cogliemmo più la sapienza delle aperture che non le persistenti ambiguità.

Si era avviata così la preparazione dell’VIII Congresso nazionale del Pci, all’insegna di un più conseguente sviluppo della “via italiana al socialismo” come via democratica e nazionale. Ne fu parte integrante la polemica sulla “doppiezza” che continuava a caratterizzare le posizioni, spesso dissimulate, e i comportamenti di quanti, al vertice del partito, alimentavano o almeno non combattevano “l’attesa dell’ora X”, la riserva di un possibile ricorso alla forza per la conquista del potere dinanzi a un eventuale  precipitare della situazione internazionale e al prevaleredelle forze più reazionarie all’interno del paese.

Già nel 1954, in occasione della conferenza nazionale di organizzazione, la battaglia nel partito contro le manifestazioni di attesismo, settarismo, massimalismo era stata condotta vigorosamente, e non a caso Giorgio Amendola era astato chiamato a sostituire Pietro Secchia come responsabile della potente Commisione di organizzazione della Direzionedel Pci. Ma tra l’ottobre e il novembre del 1956, nella discussione preparatoria dell’ VIII Congresso, fece drammaticamente irruzione il confronto sui fatti di Polonia e soprattutto su quelli d’Ungheria con il loro tragico epilogo.

E vennero così alla luce sia i limiti della visione di Krusciov, per dirompente che fosse stata la denuncia dello stalinismo, sia le contraddizioni del Pci, per profondo che fosse l’impegno rinnovatore volto a liberarlo da incrostazioni incompatibili con la via italiana al socialismo.

La giustificazione del sanguinoso intervento militare sovietico per soffocare un moto popolare bollato come controrivoluzionario è divenuta e rimane – per diversi dirigenti di allora, giovani e meno giovani (penso a Pietro Ingrao) – motivo grave di riconoscimento e tormento autocritico.

Anche per me: trent’anni dopo – quando si riaprì una riflessione critica su quella vicenda – volli dare pubblicamente atto ad Antonio Giolitti di avere avuto ragione. Aveva pronunciato il solo discorso di netto e sostanziale dissenso dalla tribuna dell’VIII Congresso, e tra i primi interventi polemici nei suoi confronti c’era stato il mio. Mi mosse allora, ritengo, anche un certo zelo conformistico: mala spiegazione, per l’atteggiamento mio e di altri che hanno poi ammesso la gravità dell’errore, richiede un discorso ben più complesso.  Da un lato ci animò la preoccupazione – che ci saremmo portata dietro ancora per decenni come un imperativo – dell’unità del partito contro il rischio di disgregatrici distinzioni e lotte interne, e della difesa del partito da pericolosi attacchi esterni. Quest’ultimo aspetto giocò un certo ruolo anche per la pressione cui fummo sottoposti – io pure, nel mio piccolo, a Caserta – dovendo persino rintuzzare manifestazioni ostili di destra contro le nostre sedi. Ma , dall’altro lato, ci condizionarono soprattutto il concepire il ruolo e l’azione del partito comunista in Italia come inseparabili dalle sorti del “campo socialista” guidato dall’Urss, e l’aderire alla suprema necessità – quale solo la leadership sovietica poteva valutare – dell’intangibilità di quel campo di fronte alla sfida alla sfida del fronte “imperialista”.

Questa concezione era talmente radicata sia nella base sia nel gruppo dirigente del Pci da farmi oggi dire che, per quanto a distanza di cinquant’anni  possa essere chiaro quale “occasione storica” il Pci mancò in quell’autunno del 1956, a quale prova venne meno e con quali conseguenze, di fatto non esistevano allora le condizioni per una scelta diversa diparte del partito ( e non solo per responsabilità di Togliatti) . Questa constatazione non toglie nulla, naturalmente, al valore ideale e morale della battaglia dei gruppi – in particolare di intellettuali , militanti e non del Pci, tra i quali personalità autorevoli insieme con giovani di grande talento – che si batterono contro la linea del del segretario e della Direzione del partito; e dunque nulla toglie alla responsabilità di ciascuno vdi noi che restammo sordi a quella battaglia. Della passione che animò i firmatari della ” lettera dei 101″ indirizzata il 29 ottobre 1956 al Comitato centrale del partito, scrisse poi splendidamente Paolo Spriano, nel suo libro Le passioni di un decennio, rendendo peraltro omaggio anche all’orgoglio e all’accanimento con cui Togliatti si era appassionatamente impegnato nella dura difesa delle sue posizioni in uno scontro politico interno senza precedenti.

Paolo, pur firmatario della “letterarie 101″, non si dimese dal partito e negli anni successivi avrebbe dato contributi fondamentali alla ricerca della verità storica sulla vicenda pluridecennale del Pci.

Del terribile travaglio di quei mesi desidero egualmente citare la testimonianza di Antonio Giolitti ( nel suo bel libro autobiografico Lettere a Marta ): esemplare per la serenità, contraddistinse d’altronde il suo distacco dal Pci e il suo successivo rapporto con il Pci. E’ di Giolitti , tra l’altro, il ricordo, impressionante per la sua asciuttezza, Di Di Vittorio che non trattiene l’emozione per la repressione in Ungheria: “un macigno che singhiozzava”. Di Vittorio fu l’unico esponente della Direzione del Pci che si schierò, e schierò la Cgil, contro i giudizi espressi da Togliatti. All’VIII Congresso egli giunse, peraltro, isolato al punto da pronunciare un discorso quasi acritico………. Insomma il nostro essere immersi in un’intensa attività e battaglia politica, con al centro i problemi dei lavoratori e del paese e nella dimensione concreta dei compiti di ciascuno di noi, si traduceva in una scarsa sensibilità per grandi questioni e controversie ideali e culturali. Perciò, di fronte a quel che accadeva in Ungheria, vedevamo facilmente – i risvolti internazionali: la sfida tra i due blocchi, che esigeva vigilanza nei confronti di ogni possibile “provocazione” e inserimento del”nemico”, e ci spingeva alla conclusione di dover stare ” da una parte della barricata”. Non suonava d’altronde conferma di quel duro imperativo la coincidenza, addirittura, tra scontro in Ungheria e attacco anglofrancese a Suez? La verità è che vedevamopoco, sentivamo poco le grandi questioni di principio – libertà e democrazia – che erano in giunco nel giudizio sui “fatti d’Ungheria”. O meglio, restavamo nel chiuso di certezze ideologiche acquisite nel partito e in quel momento comodamente protettive,…………….Togliatti ammise, all’VIII Congresso del Pci, che non fosse giusto etichettare come “borghesi” le libertà conquistate attraverso grandi battaglie democratiche.

Ma molti anni sarebbero dovuti passare perché ci identificassimo pienamente con l’eredità più alta del liberalismo e della democrazia, anziché considerare sacrificabili dove si pretendesse di edificare il socialismo, o meramente formali, le regole, le garanzie, le procedure della democrazia politica. Lo disse Enrico Berlinguer, ma solo nel 1977, dalla tribuna più esposta e significativa, quella della celebrazione della Rivoluzione d’ottobre a Mosca.

I comunisti rivendicavano a ragione il contributo dato da protagonisti alla lotta per la libertà contro il fascismo in Italia, e quindi alla costruzione e alla difesa di una democrazia costituzionale nel paese; ma nello stesso tempo indebolivano fatalmente la loro credibilità per cecità ideologica e irriducibile fedeltà al”campo” guidato dell’Unione Sovietica.

 

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