Tratto dal libro: Renato Sandri un italiano comunista Un lungo viaggio tra guerriglia e colpi di stato di Roberto Borroni
http://www.rossodiseramantova.it/ 26 apr, 2014
L’indimenticabile 1956
Martedì 6 novembre del 1956 Il Progresso, settimanale a larga diffusione della federazione mantovana del Pci, esce con questo titolo a caratteri cubitali: «La posizione dei comunisti mantovani sui gravi fatti di Polonia e di Ungheria». Il montaggio della pagina è di grande effetto. Sotto il titolo è pubblicato con evidenza un documento votato a larghissima maggioranza dal comitato federale e dai segretari di sezione e di zona, circa 200 persone, riunitosi d’urgenza il 20 ottobre per assumere una posizione a proposito «dei gravi fatti accaduti in Polonia e dell’intervento sovietico in Ungheria». Poi, quasi al centro della pagina, una foto su quattro colonne di Antonio Gramsci corredata dallo slogan: «La verità è sempre rivoluzionaria». Renato Sandri ha trent’anni, è stato eletto da pochi mesi segretario della federazione.
«Il 1956 venne attraversato da due avvenimenti di straordinario rilievo: in febbraio, il XX Congresso del Pcus e, in giugno, la divulgazione del rapporto sui crimini di Stalin e dello stalinismo. Due tegole che si abbatterono sulle nostre teste e ci costrinsero a fare i conti con l’esperienza del socialismo realizzato in Unione Sovietica. Poi vennero i fatti di Polonia e l’intervento in Ungheria. Sono vicende che crearono problemi seri al partito, anche perché erano state precedute da evidenti segni di crisi, di natura politica e organizzativa. Un anno prima, nel corso delle elezioni per le commissioni interne alla Fiat di Torino, la Cgil era crollata, scendendo, se la memoria non mi inganna, al 30% dei voti. A Mantova dovemmo fare i conti con le trasformazioni che sconvolsero l’economia e la società. L’espansione del capitalismo nelle campagne significò meccanizzazione e, contestualmente, espulsione del proletariato agricolo, dei braccianti, i quali se ne andarono in cerca di lavoro verso le città del triangolo industriale. Attenzione però, non fu emigrazione a senso unico. Infatti, mentre se ne andarono i braccianti mantovani, nella nostra provincia arrivarono, dal Veneto, dalle zone della miseria, quelli veneti disposti, pur di lavorare, ad accettare condizioni che i nostri non erano invece più disposti a sostenere. Lo sciopero del 1954 era fallito. E quanto andava accadendo sul terreno economico e sociale va collocato in un ambiente politico segnato dagli anni più duri della guerra fredda, della repressione padronale e del centrismo».
Il partito vive momenti difficili, stretto tra l’asprezza dell’attacco cui è sottoposto il mondo del lavoro e le difficoltà a elaborare una linea di fronte a una situazione che sta rapidamente mutando. Cresce il malessere nelle sezioni, sintomi di divisione si manifestano nei comuni della provincia: da Gonzaga a Marmirolo. Alle incertezze, in molti casi, si reagisce con atteggiamenti massimalistici e settari.
«Il caso di Marmirolo fu emblematico. Si aprì uno scontro all’interno del partito che vide da una parte un’ala massimalista, incarnata dal segretario del sindacato Masella, e dall’altra una più sensibile a introdurre, rispetto al nostro modo d’essere, elementi di rinnovamento. A Marmirolo contavamo circa 1500 iscritti. Seguii in prima persona le vicende della sezione, era una delle più importanti, dopo che circa un migliaio d’iscritti non rinnovarono la tessera perché convinti della linea seguita da Masella. Mi recai a Marmirolo in corriera e fui accolto nella piazza da un centinaio di donne vocianti, che pochi anni prima erano state protagoniste di tante battaglie. Capii subito che aria tirava perché una di loro mi apostrofò con un “Renato, a ta s’al metarè in dal cul ma mia in dla testa”. E giù una salva di evviva per Masella. La crisi del movimento bracciantile aveva avuto, inevitabilmente, una ricaduta nel partito. Seguirono mesi difficili, assemblee semideserte, rotture, abbandoni. La posizione che assumemmo sui fatti d’Ungheria e di Polonia fu un modo per rispondere ai rischi di arroccamento e d’isolamento: da una parte resistemmo, dall’altra indicammo la via del rinnovamento con il documento votato dal comitato federale e dai segretari di sezione».
La rivolta degli operai polacchi a Poznan nel giugno del 1956 e l’invasione dell’Ungheria in ottobre aprono un baratro nelle coscienze del gruppo dirigente del Pci mantovano, già duramente provato dalla sconfitta del 1954. Le idee in cui credono sono messe in discussione. E se il socialismo non fosse più il sistema dove la classe operaia porta a compimento la sua secolare lotta di emancipazione e il partito comunista la guida? Non ci sono dubbi perché la rivolta, in molti casi, parte soprattutto dalle fabbriche o le investe fin dalle prime battute. Le foto, atroci, dei poliziotti ungheresi appesi a testa in giù per le vie di Budapest, circondati da folle ridenti, non fanno che aumentare l’orrore per quanto si andava scoprendo. Renato ha già dai primi momenti le idee chiare. Convoca la segreteria e dopo una breve discussione è stilato un documento da sottoporre alla riunione dell’organismo dirigente e dei quadri del partito.
«Assumemmo una posizione chiara e coraggiosa, ma non era in sintonia con la direzione nazionale del partito. Ci apparve subito evidente che la costruzione di una società socialista in Ungheria era stata segnata da gravissimi errori e da una violazione della legalità democratica».
Nel documento si pone l’accento sulle ragioni della rivolta: «fondamento e causa determinante del malcontento popolare sono stati gli imperdonabili errori, le deficienze e anche i crimini che i dirigenti del partito e del governo hanno compiuto negli ultimi anni» e di conseguenza non viene sottaciuta «lacondanna di metodi staliniani».
«Inoltre, riaffermammo in modo inequivocabile che le proteste non erano state suscitate da elementi provocatori, sia pure in minima parte infiltrati, quanto da movimenti tendenti a ripristinare le fondamenta democratiche e nazionali della costruzione del socialismo. Radicale fu la critica nei confronti dell’intervento delle truppe sovietiche, così come limpido e fermo il nostro richiamo alla necessità di riaffermare il nesso inscindibile tra democrazia e socialismo».
Il documento è inviato alla direzione nazionale a Roma e, dopo pochi giorni, Pietro Secchia si precipita a Mantova con il compito di fare cambiare opinione all’organismo dirigente del partito. I mantovani non sono soli, anche un’altra federazione ha preso posizione e lo stesso leader sindacale Di Vittorio e un centinaio di intellettuali comunisti hanno denunciato l’intervento sovietico. Alle lancinanti domande degli uni e degli altri, al malessere, al disagio e alle limpide posizioni assunte, la direzione del partito risponde nella maniera più dura: nessuna concessione alla ragione e ai sentimenti. Bisogna stare da una parte della barricata, e cioè con l’URSS.
«Ci interrogammo. E una domanda tornava sempre più frequentemente: com´era stata possibile una cosa del genere? Com’era possibile che per tenere in piedi il sistema socialista fosse necessario sparare sugli operai, i quali non chiedevano di ritornare al capitalismo ma solo di vivere in un sistema migliore. Non c´era un rapporto indistruttibile fra classe e partito, fra la classe e il suo sindacato? Sentimmo forte l’esigenza di introdurre elementi di rinnovamento nel nostro modo di analizzare la società e interpretarne le esigenze più profonde».
Tuttavia Secchia non ci mette molto a fare cambiare opinione a quegli stessi dirigenti che hanno votato il documento di condanna dell’intervento sovietico e il numero successivo del Progresso esce con questo titolo: «Unità popolare contro la guerra». La modifica delle posizioni è giustificata da un evento di politica internazionale, l’offensiva anglo-franco-israeliana a Suez.
«Ricevetti una telefonata da Giorgio Amendola. Mi disse che la nostra posizione poteva essere strumentalizzata da forze esterne al partito, dai reazionari. Aggiunse che la parte più conservatrice del Pci, quella che si opponeva a Togliatti, la più filosovietica avrebbe potuto prendere a pretesto la nostra posizione per dimostrare che anche nel Pci si andava affermando una linea antisovietica. Ci fu chiesto di cambiare posizione. Arrivò Secchia che, perchè esponente della linea conservatrice, era il più adatto a garantire che non ci sarebbe stata nessuna concessione. Se non sbaglio, anche altri elementi influirono sul cambiamento di posizione sancito dalla riunione del comitato federale del 3 novembre. Le copie del giornale con la risoluzione di condanna non furono distribuite dai compagni delle sezioni. Ci rendemmo conto come la posizione del gruppo dirigente non rispecchiasse l’orientamento della maggioranza degli iscritti: sulle vicende ungheresi l’orientamento dei nostri militanti era condizionato dal fortissimo legame con l’Unione Sovietica».
La mancata diffusione del giornale suona come una censura nei confronti del comitato federale e la concomitante occupazione anglofrancese di Suez lo inducono a inquadrare la vicenda ungherese nel contesto della lotta mondiale tra socialismo e capitalismo, tra progresso e conservazione e a trovare in ciò una giustificazione dell’intervento sovietico. Inoltre, è motivo di riflessione il tentativo di assaltare la sede del Pci da parte di una manifestazione promossa dagli studenti.
«Presentai le dimissioni ma vennero però respinte e il partito mi riconfermò la sua fiducia. Non posso dire di avere in seguito goduto della fiducia dei sovietici. Però questa è un’altra storia».
Il numero del Progresso non è diffuso nelle edicole e, in alcuni casi, viene addirittura bruciato. Sia chi consente con l’intervento, sia chi dissente, vive nel 1956 un dissidio lacerante e forse la via più indolore è proprio convincersi, o lasciarsi convincere, che in Ungheria fosse in atto un colpo di stato controrivoluzionario. In fondo la storia del Pci è molto più ricca, complessa e tormentata di come, a volte, è rappresentata. La vicenda ungherese lascia sul campo ferite dolorose, in particolare tra i giovani che si sono trovati nel lontano 1943 a organizzare la lotta antifascista, e ora molti di quei giovani abbandonano il partito.
«Nella riunione del comitato federale, presieduta da Secchia, dovemmo riconoscere di aver compiuto un errore politico grave. Nelle nostre file vi furono delle dimissioni, alcune silenziose, altre con lettere inviate alla direzione provinciale o alla Gazzetta di Mantova. Erano lettere che manifestavano una grande amarezza per quanto era accaduto, ma non ricordo insulti o aggressioni verbali. Nei giorni successivi alcuni commpagni socialisti, sia in città sia in altri centri della provincia, si iscrissero al Pci. Nella nostra organizzazione la maggioranza dei militanti, già impegnati nella ricerca di nuove adesioni, reagì all’errore politico del comitato federale moltiplicando la presenza alle assemblee con una partecipazione combattiva e piena di calore»
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