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Papa Francesco e la Teologia della Liberazione Con una nota introduttiva della traduttrice Loretta Emiri
Nel numero 51 di Sagarana è stato pubblicato il mio articolo “Ratzinger e la Teologia della Liberazione”. In esso descrivo il trattamento riservato a Leonardo Boff dai due precedenti papi, all’epoca in cui umiliavano e costringevano al silenzio i mentori della Teologia della Liberazione. L’articolo mi è sgorgato fuori come un fiotto di sangue da una ferita improvvisamente riapertasi. La ferita è quella che si produce in quanti, dal didentro della Chiesa cattolica o operando attraverso di essa, passano ad essere osteggiati proprio da chi dovrebbe amorevolmente proteggerli per aver fatto la scelta degli ultimi e degli esclusi.
Mi è stata offerta l’opportunità di tradurre le parole di Boff e di aggiungere le mie, opportunità che ha generato l’emozione di ritrovarmi sulla stessa pagina con un uomo e intellettuale che stimo, e le cui riflessioni tanto mi hanno sostenuta mentre operavo con e per gli indios in Brasile, nel periodo che va dalla metà degli anni settanta alla metà degli anni novanta. L’aspetto che qui voglio mettere in evidenza rimanda proprio al benefico influsso che la riflessione dei Teologi della Liberazione aveva su coloro che operavano a stretto contatto con le cosiddette “basi”: favelas, rioni popolari, comunità indigene, senza-voce, senza-terra. Era chiamata “incarnazione”: preti, suore, missionari laici, operatori sociali, sindacalisti, indigenisti si incarnavano nel gruppo umano del quale avevano deciso di difendere i diritti, primo fra tutti quello alla vita.
Naturalmente, più l’opzione era radicale, più rischi si correvano: molti i sacrifici, sterminata la solitudine, infinita la marginalizzazione, costante il pericolo di morte. Ma nessuno si è tirato indietro, nemmeno quando ai Teologi della Liberazione il Vaticano ha imposto il “silenzio ossequioso” (esiste locuzione più ipocrita?). Donne e uomini di buona volontà hanno continuato a vivere e lottare in coerenza con le scelte fatte, ma con addosso una ferita in più: quella inferta da chi avrebbe dovuto amorevolmente proteggerli per aver fatto la scelta degli ultimi e degli esclusi, la stessa scelta fatta da Gesù Cristo. Colpendo i mentori della Teologia della Liberazione, i responsabili hanno lasciato più soli, più esposti alla violenza del Capitalismo Selvaggio, tutti coloro che a quella corrente teologica si ispiravano. Cambiano i tempi e nuove parole sono forgiate per accompagnarne i ritmi. Non parliamo più di Teologia della Liberazione. Nell’era della globalizzazione delle ingiustizie e dei divari sociali, dalla Chiesa cattolica ufficiale vorremmo sgorgassero solo parole e scelte evangeliche.
Papa Francesco e la Teologia della Liberazione di Leonardo Boff
Poiché l’attuale papa Francesco proviene dall’America Latina, molti si sono chiesti se sarà un adepto della teologia della liberazione. La questione è irrilevante. L’importante non è essere della teologia della liberazione ma per la liberazione degli oppressi, dei poveri e dei senza- giustizia. E lui lo è, con indubbia chiarezza. In verità, questo è sempre stato il proposito della teologia della liberazione. In primo luogo viene la liberazione concreta dalla fame, dalla miseria, dalla degradazione morale e dalla rottura con Dio. Questa realtà appartiene ai beni del Regno di Dio e era nei propositi di Gesù. Poi, al secondo posto, viene la riflessione su questo dato reale: in che misura lì si realizza anticipatamente il Regno di Dio e in che modo il cristianesimo, con il capitale spirituale ereditato da Gesù, può collaborare, insieme ad altri gruppi umanitari, a questa liberazione necessaria. Questa riflessione posteriore, chiamata teologia, può esistere o meno. Decisivo è il fatto che la liberazione reale avvenga. Ma ci saranno sempre spiriti attenti che ascolteranno il grido dell’oppresso e della Terra devastata e che si chiederanno: con ciò che abbiamo appreso da Gesù, dagli Apostoli e dalla dottrina cristiana in tanti secoli, come possiamo dare il nostro contributo al processo di liberazione? Questo è ciò che ha fatto tutta una generazione di cristiani, da cardinali a laici e laiche, a partire dagli anni 60 del secolo passato. Continua fino ai nostri giorni, poiché i poveri non smettono di aumentare, e il loro grido già si è trasformato in clamore. L’importante non è essere della teologia della liberazione ma per la liberazione degli oppressi, dei poveri. Ora, papa Francesco ha fatto questa scelta per i poveri, ha vissuto e vive poveramente in solidarietà con loro, e l’ha detto chiaramente in uno dei suoi primi interventi: “Come mi piacerebbe una Chiesa povera per i poveri!”. In tal senso, papa Francesco sta realizzando un’intuizione primordiale della Teologia della Liberazione e assecondandone la sua marca registrata: l’opzione preferenziale per i poveri, contro la povertà e a favore della vita e della giustizia. Questa opzione non è per lui solo un discorso ma scelta di vita e di spiritualità. A causa dei poveri, si è indisposto con la presidente Cristina Kirchner, avendo chiesto al suo governo più impegno politico per il superamento dei problemi sociali che, analiticamente, si chiamano disuguaglianze, eticamente rappresentano ingiustizie e teologicamente costituiscono un peccato sociale che attinge direttamente il Dio vivo, che biblicamente ha mostrato di stare sempre a fianco di quelli che hanno meno vita e giustizia. Nel 1990 in Argentina i poveri erano il 4%. Oggi, data la voracità del capitale nazionale e internazionale, sono aumentati al 30%. Questi non sono solo numeri. Per una persona sensibile e spirituale come papa Francesco, tale fatto rappresenta una via-sacra di sofferenze, lacrime di creature affamate e disperazione dei genitori disoccupati. Ciò mi fa ricordare una frase di Dostoevskij: “Tutto il progresso del mondo non vale il pianto de una creatura affamata”. Questa povertà – ha insistito con fermezza papa Francesco – non si supera con la filantropia ma con politiche pubbliche che restituiscano dignità agli oppressi, e li rendano cittadini autonomi e partecipativi. Non ha importanza se papa Francesco non utilizza l’espressione “teologia della liberazione”. L’importante è che parli e agisca in forma di liberazione. È persino meglio che il papa non si affili a nessun tipo di teologia, che sia della liberazione o di qualsiasi altra. I suoi due antecessori hanno aderito a un certo tipo di teologia che era nelle loro teste e si presentava come espressione del magistero papale. In nome di ciò si condannarono non pochi teologi e teologhe. Gli storiografi sanno che la categoria “magistero” attribuita ai papi è una creazione recente. Cominciò a essere impiegata dai papi Gregorio XVI (1765-1846) e da Pio X (1835-1914) e divenne ordinaria con Pio XII (1876-1958). Prima, il “magistero” era costituito dai dottori in teologia, non dai vescovi e dal papa. Questi sono maestri della fede. I teologi sono maestri dell’intelligenza della fede. Pertanto, ai vescovi e papi non spettava fare teologia: ma testimoniare ufficialmente e garantire zelantemente la fede cristiana. Ai teologi e teologhe spettava e spetta approfondire questa testimonianza con gli strumenti intellettuali offerti dalla cultura presente. Quando i papi si mettono a fare teologia, com’è successo recentemente, non si sa se parlano come papi o come teologi. Si crea una grande confusione nella Chiesa; si perde la libertà di investigare e il dialogo con i vari ambiti del sapere. Grazie a Dio papa Francesco si presenta esplicitamente come pastore e non come dottore e teologo, fosse anche della liberazione. Così è più libero di parlare a partire dal vangelo, dalla sua intelligenza emotiva e spirituale, con il cuore aperto e sensibile, in sintonia con il mondo oggi globalizzato. Papa Francesco: collochi la teologia in tono minore affinché la liberazione risuoni in tono maggiore: consolazione per gli oppressi e appello alle coscienze dei poderosi. Quindi, meno teologia e più liberazione. |
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