Pubblicato su Carta nel marzo 2001

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16 febbraio 2016

 

In ginocchio da Tatic. Un ricordo di Ruiz

di Gianluca Carmosino

 

Nel suo viaggio in Messico, dopo la messa di lunedì, durante la quale ha chiesto perdono alle comunità indigene, il papa ha voluto visitare una cappella della cattedrale di San Cristobal De Las Casas dove è sepolto Samuel Ruiz Garcia. Morto nel 2011, difensore dei diritti delle popolazioni indigene del Messico e dell’America Latina e amico degli zapatisti, Samuel Ruiz (chiamato dalle comunità indigene del Chiapas tatic, “padre”), fu per molti anni osteggiato dal Vaticano e oggetto di minacce e attentati in Messico. Per capire chi è stato Samuel Ruiz, proponiamo questa conversazione che abbiamo avuto la fortuna di realizzare durante l’ultimo viaggio in Italia di Ruiz. Un uomo minuto, dal passo lento, con una borsa colorata al collo, e con le idee molto chiare: “Lo scontro attuale – spiega Ruiz in questo incontro – è tra lo spirito comunitario indigeno, che chiede la terra per realizzarsi, e il capitalismo individualista degli sfruttatori, che toglie la terra e, di fronte alle differenze culturali, si dimostra solo capace di omologare e opprimere…”

 

Acteal, 22 dicembre 1997. Un commando paramilitare fa irruzione nella comunità indigena Tzotziles, durante un incontro di preghiera. Quarantacinque persone, in maggioranza donne e bambini, sono massacrate a colpi di fucile. La notizia fa il giro del mondo, riproponendo all’attenzione internazionale la questione dei diritti umani in Chiapas (Messico). Il vescovo di questa regione, situata al confine con il Guatemala, all’epoca era ancora Samuel Garcìa Ruiz. Dal 3 novembre 1999, quando ha compiuto settantacinque anni (l’articolo è stato scritto nel marzo 2001, ndr), si è dimesso per raggiunti limiti d’età. “I miei fedeli mi hanno avvisato, non credere che adesso che sei in pensione lavorerai di meno – mi dice sorridendo – Noi ti affidiamo la bandiera della nostra dignità. Tu continua a difenderla”.

Al suo posto, stranamente, oggi non c’è Raùl Vera Lòpez, il successore designato dalla Santa Sede nel 1995. È stato sostituito dopo pochi mesi dalle dimissioni di Ruiz. Ufficialmente per “errori in campo teologico, visione riduttiva della pastorale”. Più probabilmente perché, in quel breve periodo in cui è stato vescovo, Vera Lòpez ha confermato l’impegno pastorale e sociale portato aventi in quarant’anni dal suo predecessore.

 

L’amicizia con Romero

Ma che vescovo è stato in realtà Samuel Ruiz? Per capirlo, può essere utile sapere perché in questi giorni di fine marzo è a Roma. “Sono qui per celebrare il ventunesimo anniversario della morte di Oscar Arnulfo Romero“, mi dice quando ci incontriamo nel convento di Santa Sabina, sull’Aventino, in una splendida giornata primaverile. Romero è stato ucciso dal regime militare perché difendeva gli ultimi. In realtà, la prima vera celebrazione di Ruiz per la morte del vescovo salvadoregno è stata quella del 1980, quando don Samuel decise di partecipare al funerale di Romero pur sapendo di rischiare la vita.

I suoi fedeli, eredi della civiltà maya, lo chiamano tatic, che vuol dire “padre nello spirito”. Eppure, l’uomo che ho di fronte tutto sembrerebbe, tranne che un “grande padre della chiesa”. Un uomo minuto, dal passo lento e con una strana borsa colorata al collo (un regalo dei suoi fedeli indigeni), ben lontano dall’immagine stereotipata di vescovo.

L’autorevolezza e l’affetto di cui monsignor Ruiz gode tra le comunità indigene, ma anche tra migliaia di persone in tutto il mondo, sono il frutto di un cammino iniziato negli anni del Concilio Vaticano II e dell’Assemblea dell’episcopato latinoamericano di Medellín (1968). Da allora “l’opzione preferenziale per i poveri” è diventata la chiave della sua pastorale e di quella di altri vescovi, come Romero.

 

L’opzione per i poveri

Nel Chiapas, Ruiz ha sempre scelto la difesa dei diritti dei più deboli, degli emarginati. Per questo è stato più volte attaccato dal governo, dall’aristocrazia terriera e anche da alcuni ambienti ecclesiastici.

Nel 1970, in qualità di presidente del Centro episcopale nazionale di pastorale indigena (Cenapi), promosse un incontro atipico, il cui obiettivo dichiarato era ascoltare gli indigeni, e non insegnare loro qualcosa. Titolo del seminario: “Indigeni in polemica con la chiesa”.

Nel ’74, il 150° anniversario dell’incorporazione del Chiapas nel Messico coincise con il 500° presunto anniversario della nascita del primo vero difensore dei diritti dei popoli indigeni, il domenicano spagnolo Bartolomé de Las Casas. A lui, nel 1989, Ruiz ha intestato il Centro per i diritti umani (nel cui sito è possibile trovare il lungo elenco delle stragi impunite compiute nel suo paese), costituendo una rete tra i gruppi di contadini che vivono nella sua diocesi. Per festeggiare i due anniversari, il governatore del Chiapas organizzò un congresso convocando storici di fama mondiale. Don Samuel, interpellato in quanto successore di Bartolomé de Las Casas, impose al governo non solo di estendere l’invito agli indigeni, ma anche di sostituire lo spagnolo, lingua ufficiale del congresso, con le lingue di quattro etnie indigene. Non contento, fissò anche i temi principali del congresso: terra, commercio, educazione e salute. “Se dovessi organizzare oggi un evento analogo a quello del ’74 – mi dice – il tema centrale sarebbe ancora quello della terra. I popoli indigeni sono privati, in tutta l’America Latina, del loro habitat, dello spazio necessario per vivere secondo le proprie credenze, che sono fortemente comunitarie. Pochi mesi fa, in seguito a una delle numerose carneficine compiute in Chiapas, in cui morirono decine di indigeni, i rappresentanti della loro comunità mi hanno chiesto di seppellirli insieme, in una tomba comune. Per affermare l’identità comunitaria anche dopo la morte. Lo scontro attuale, infatti, è tra lo spirito comunitario indigeno, che chiede la terra per realizzarsi, e il capitalismo individualista degli sfruttatori, che toglie la terra e, di fronte alle differenze culturali, si dimostra solo capace di omologare e opprimere”.

 

Mediatore tra Stato e Ezln

Negli anni Ottanta si schiera sempre apertamente in difesa delle popolazioni indigene. Sono gli anni in cui in Messico (che, nel 1982, fu il primo paese a dichiarare che non avrebbe potuto onorare i suoi debiti esteri) si consolida il dominio delle aziende statunitensi nello sfruttamento delle risorse, e uno sfacciato processo di privatizzazione secondo i dettami del Fondo monetario internazionale. Sono anche gli anni che vedono nascere il North american free trade agreement (Nafta), l’accordo di libero scambio commerciale deciso dagli Stati Uniti, sotto la spinta delle grandi imprese multinazionali.

Contemporaneamente, cresce la repressione nei confronti dell’Esercito di liberazione nazionale zapatista (Ezln) da parte del governo. Ruiz accetta di presiedere la Commissione nazionale di intermediazione (Conai). Nel ’95 riesce a ottenere un accordo di pace tra le parti, ma non la smilitarizzazione dei territori. Il ’97 è l’anno della strage di Acteal. L’anno successivo, quando il governo si oppone all’apertura dei negoziati di pace alla società civile, la Conai si ritira dalla mediazione. Appare chiaro che il silenzio delle autorità su molte stragi e la repressione della resistenza zapatista sottendono una strategia, quella di allontanare alcune comunità dalle proprie terre, per dare il via libero allo sfruttamento delle ingenti ricchezze della regione.

 

La rivolta indigena

Ma il seme gettato da Ruiz sembra ora portare i primi frutti. Quello che ha sempre caratterizzato lo zapatismo difeso dal vescovo è, infatti, l’essere “una rivoluzione pacifica che non aspira al potere ma al dialogo e al riconoscimento dell’identità indigena da parte dei governi. Oggi, in tutto il continente, i popoli indigeni stanno prendendo coscienza del loro essere soggetti della propria storia. Esprimono, con una forza mai vista in passato, la volontà di essere riconosciuti nella propria identità culturale, di dialogare con i governi in qualità di interlocutori per creare una vera democrazia, plurietnica, rispettosa delle leggi comunitarie e dei costumi delle loro tradizioni”.

Che cosa ha condotto a questo risveglio dell’America Latina? “Quando il dolore raggiunge una certa soglia, non puoi che reagire. Questi popoli sono oppressi dai tempi della ‘conquista’, e hanno oggi la volontà e la possibilità di cambiare finalmente la propria storia. Le conseguenze di queste mobilitazioni non sono al momento prevedibili, ma saranno comunque rilevanti anche per i paesi industrializzati”. Quando gli chiedono se è rimasto contento della ventata di cambiamento giunta con il nuovo presidente messicano Vincente Fox, l’espressione del suo volto e il tono della voce cambiano. Dietro gli occhiali spessi, lo sguardo si fa più intenso. “L’elezione di Fox, cioè di un ex dirigente della Coca Cola, rappresenta un cambiamento solo in quanto ha posto fine al potere del Partito rivoluzionario istituzionale dopo settant’anni di corruzione e ingiustizie. Non sarà mai solo la politica a trasformare radicalmente una società. La vera novità oggi consiste nel risveglio della società civile e dei popoli indigeni. Che hanno l’opportunità di svolgere direttamente un ruolo attivo nell’ingresso del paese in una democrazia autentica. Sfatando il luogo comune che il Chiapas sia solo Marcos – il leader dell’Ezln, che proprio nei in giorni in cui incontriamo Ruiz ha aperto una nuova trattativa con il governo, per far approvare una legge di tutela delle popolazioni indigene – e Ruiz. Non ho la sfera di cristallo, ma le notizie di questi giorni sono un segnale positivo per l’approvazione in parlamento di una legge in favore di tutte le comunità indigene. La mia speranza è che, pur con qualche modifica, non vada incontro a un rifiuto. Sarebbe antistorico”.

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