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21 dicembre 2011

Vàclav Havel, ovvero: la democrazia come rivoluzione esistenziale
di Paolo Flores d'Arcais

Il 18 dicembre è scomparso Václav Havel, grande intellettuale e politico democratico, protagonista delle Rivoluzioni dell’89 e primo presidente della Cecoslovacchia postcomunista. Lo ricordiamo ripubblicando la prefazione di Paolo Flores d'Arcais a "Interrogatorio a distanza. Conversazione con Karel Hvizdala", libro-intervista di Václav Havel edito da Garzanti nel 1990.

Quanto è accaduto ad est nel 1989 resta ancora un enigma. Un miracolo, come ha detto Václav Havel nell'incontrare papa Wojtyla. Non ci si lasci ingannare, perciò.

Troppo spesso e troppo agevolmente, ciò che ancora ieri veniva conclusivamente giudicato impossibile, e irriso come utopia sentimentale, viene con tranquilla indifferenza trasferito nella categoria delle cose assolutamente evidenti e vuote di problematicità.

Questo secondo ottantanove, questo inimmaginabile ottantanove delle libertà, è stato già metabolizzato dallo spirito della banalità. Digerito, sfigurato, reso inoffensivo e tranquillizzante.

La rivoluzione antitotalitaria che in due mesi ha cambiato la carta e il destino dell'Europa viene immiserita a narcisistica dimostrazione dell'eccellenza dell'Occidente quale esso è, e utilizzata per sostituire, una volta di più, l'apologia allo spirito critico.

Per anni, ai dissidenti che esigevano subito, concretamente, qui e ora ( e ora), i diritti umani e civili, i conservatori della prima Europa hanno raccomandato cautela, innanzitutto e per lo più. In nome del realismo, beninteso, e con qualche vantaggio per affari e commesse. Per anni, quei dissidenti sono stati presentati come generosi sognatori, se il giudizio voleva essere benevolo. Ma anche come irresponsabili nemici della distensione perché eccessivamente esigenti in fatto di libertà.

Libertari, perfino. E moralisti. E dunque isolati. Sicuramente improbabili come dirigenti di un movimento reale che, all'est, potesse davvero cambiare le cose. A questi "sognatori" estremisti i filistei della prima Europa non hanno fatto mancare mai (quasi mai) una chiacchiera di solidarietà. Ma il dialogo era con altri, con la fronda interna al regime, se in questione era la politica. E con il regime tout court, se in gioco era il business.

Una rivoluzione, oltretutto pacifica, che in poche settimane trasformasse l'est nella seconda Europa: questa l'ipotesi che l'establishment della prima Europa ha costantemente giudicato inverosimile e illusoria. Questo è invece avvenuto. Sotto la spinta di intellettuali sognatori, moralisti, impolitici. Questo impensabile va ora pensato, in tutte le sue implicazioni. Senza dimenticare mai che fu, appunto, giudicato impensabile, inammissibile.

Il 21 febbraio del 1989 Vàclav Havel è solo un "criminale". Riconosciuto colpevole di "istigazione alla violazione della legalità socialista e resistenza a pubblico ufficiale", per essere stato presente alla commemorazione del ventennale del sacrificio di Jan Palach, viene condannato a nove mesi di carcere duro. Non è la prima volta. Sarà invece l'ultima, benché il regime neppure lo immagini.

Il 17 novembre il suo nome torna a risuonare in piazza San Venceslao, sulla bocca di migliaia di giovani che hanno deciso di non potere più avere paura. Continuerà così per giorni. Per qualche brevissima settimana. Il regime opera qualche mutamento di facciata. I giovani gridano "Havel al Castello", ma per i gerarchi vecchi e nuovi Havel è "uno zero politico".

Questo "zero politico", questo scrittore tormentato e felice, questo poeta ironico che racconta l'assurdo dell'esistenza, il 29 dicembre è il nuovo presidente della Cecoslovacchia, garante della sua liberazione dal comunismo. Gli zombi dell'apparato, che ancora qualche giorno prima ironizzavano, portano nomi già dimenticati. Dopo aver imposto un governo a maggioranza non comunista, e aver costretto il potere a restituire a Dubček l'onore e la dignità (nominandolo presidente del parlamento), Vàclav Havel al Castello entra davvero. A quel Castello di Hradcany, castello più che kafkiano negli anni della nomenklatura e improvvisamente luogo imprevisto e improvvisato di libertà ritrovate.

Poeti e filosofi al potere. A rappresentare nazioni che si risvegliano, milioni di individui che vogliono tornare a contare come individui e sottrarsi a un destino di "massa". E la grande anomalia che sconcerta l'osservatore occidentale medio, incapace di andare oltre le proprie categorie di routine, assai indigenti, del resto. E che consentono solo un gioco di specchi: nell'est che si libera si vuole vedere solo, in fieri, il presente dell’ovest. Nessun problema in più, nessun interrogativo radicale in più, che riguardi il cuore della democrazia stessa, della sua teoria, del suo funzionamento. Ma è proprio questo, vedremo, che il lavoro letterario e teorico di Havel (compreso il testo qui pubblicato) e la pratica politica che le circostanze gli hanno imposto, costringe a pensare: criticamente, contro gli schemi consolidati.

Di anomalie e contraddizioni, di paradossi, è del resto ricca la rivoluzione antitotalitaria dell'ottantanove, in ogni suo momento e in ogni paese. Il "potere" dei poeti è soprattutto simbolico. Potere della parola che non si è piegata alla vecchia menzogna, e non intende piegarsi alle sirene di menzogne nuove, più accattivanti perché meglio confezionate. Potere morale, dunque, che esprime pienamente lo spirito della rivoluzione nella sua fase di lotta, ma che resta organizzativamente fragile.

E infatti. Quasi ovunque, il responso delle urne punisce chi ha preparato la rivoluzione negli anni del tunnel, e l'ha avviata e diretta nei giorni del rischio e dell'incertezza. E premia gli uomini dell'attesa, del compromesso, talvolta di una continuità poco decente. Valga il caso estremo della Germania orientale: i partiti della rivoluzione antitotalitaria raccolgono il 3%, e un partito che fino a poche settimane prima ha sanzionato ogni decisione di Honecker sfiora la maggioranza assoluta. Mentre in tutti i partiti che andranno al governo i vecchi servizi segreti hanno loro uomini in posizioni di comando.

I tedeschi dell'est, del resto, non hanno votato per scegliere i propri rappresentanti, per organizzare la propria libertà. Hanno fatto plebiscito per essere annessi alla Germania di Bonn. Questa la realtà, per sgradevole e inquietante che sia. Più di dieci anni fa Havel scriveva: «In Occidente l'uomo gode certamente di libertà e sicurezze personali a noi ignote, ma alla fin fine questa libertà e queste sicurezze non gli servono a di superare l'angustia per la propria sopravvivenza e di diventare un fiero e responsabile membro della "polis", che partecipa realmente alla creazione del proprio destino».

Un poeta che ha dimestichezza con l'assurdo è capace di lucidi presagi. Il filisteo dell'esistente troverà in questi paradossi, invece, la semplice conferma dei suoi pregiudizi: lo slancio ideale della rivoluzione è effimero, la prosa del realismo d'Occidente, con la sua dispiegata ipocrisia e i suoi politici di professione, è l'unico sobrio eden a portata dei mortali. Pure, quel potere morale, che non ovunque è stato cancellato dalla istituzionalizzazione post-comunista, continua ad agire nella società e nelle coscienze. In forma carsica, magari.

Rimuovere questa, come altre contraddizioni, vedere nella rivoluzione antitotalitaria solo una "volontà di Occidente" (l'Occidente dell'esistente, dei poteri, dei consumi, consumi, non dei valori e degli ideali, beninteso) è realismo d'accatto, epidermico e apparente. Nel crogiuolo dei paradossi, infatti, si agitano emozioni premoderne e fantasmi destabilizzanti e mostri da cui l'Occidente si e tutt'altro che definitivamente liberato. Sciovinismi e razzismi, per dire. Fondamentalismi religiosi. Populismi demagogici a vocazione reazionaria. Sirene di intolleranza, cupio dissolvi di massificazione. Tutto ciò va pensato radicalmente. Perché la rivoluzione parla anche a noi, ripropone in termini nuovi problemi che l'Occidente ha risolto solo apparentemente. Ci riguarda direttamente non già perché possa rassicurarci nei nostri pregiudizi ma perché revoca in dubbio le nostre consolatorie certezze. Pone il problema della democrazia, e non lo risolve, ma ci risela al tempo stesso che la nostra democrazia "realmente esistente" è in crisi essa stessa. Di tutto ciò questo libro di Havel è straordinaria e anticipata testimonianza.

Lo stupore è inevitabile. In poche settimane crolla un intero mondo, che sembrava solidissimo, fondato sulla repressione sistematica, sulla prevaricazione, sul privilegio della nomenklatura, sulla distruzione di ogni individualità, perfino in Romania perfino in Bulgaria, perfino nella Mongolia esterna, perfino laddove di una esperienza democratica non vi è mai stata traccia.

Questo stupore, tuttavia, è privo di ragioni. Poggia semplicemente sulla mancata analisi di cosa sia stato davvero il sistema totalitario dei paesi dell'est. Laddove questa indagine "strutturale" è stata tentata, era già venuto in chiaro come i regimi della nomenklatura fossero, al tempo stesso, solidissimi e fragilissimi. Impossibili da scuotere e pronti ad un generale e improvviso tracollo.

Aver fornito questa analisi è uno dei maggiori meriti teorici del lavoro di Vàclav Havel.

Sia chiaro: questo Interrogatorio a distanza è tutto fuorché un trattato teorico. Questa lunga intervista ci offre un racconto. Episodi di vita, storie di amicizie e di conflitti, ritratti di ambienti. Frammenti di moderne "Confessioni". Dove, però, i percorsi dell'esistenza e le riflessioni che vi si mescolano forniscono al lettore tutti gli elementi essenziali di un discorso teorico. Asistematico e denso. Vagabondo e coerente. Asistematico e per questo denso. Vagabondo e per questo coerente. L'analisi dell'universo totalitario della nomenklatura (che Havel preferisce chiamare post-totalitario, per distinguerlo da altre forme storiche di dittatura) è il primo di questi elementi. Vediamo.

L'est totalitario costituisce strutturalmente il regno dei rapporti anonimi. Questo, e non già la statalizzazione dell'economia, vale come elemento peculiare, decisivo, caratterizzante. Strutturale, appunto. La possibilità di una comunicazione interpersonale è venuta meno. Ogni comunicazione è costretta nella mediazione del linguaggio del potere, nel suo codice dove apparenza e realtà si scambiano di posto. Ciascuno, per parlare all'altro, deve parlare attraverso il linguaggio del potere, e dunque deve intanto assumerne il codice e la struttura.

Il cittadino, perciò (in realtà il suddito), è in rapporto diretto esclusivamente con la menzogna del potere, e per comunicare deve intanto obbedire. Non solo al diretto superiore, ma all'impersonale codice che pervade ogni fibra dello spazio e del tempo, ogni angolo della vita sociale. Si crea così un circolo quotidiano fatto di sottomissione/rassegnazione/interiorizzazione, che mette capo a una tonalità emotiva oscillante fra apatia e risentimento, apatia verso il potere e verso se stessi, risentimento verso i compagni di sottomissione.

L'individuo cessa, poiché viene meno ogni spirito di autonomia e ciascuno, insensibilmente e fino all'ultimo gesto dell'esistenza quotidiana, abdica alla coscienza critica (dunque alla coscienza tout court). Ma, con questo, si sottrae anche ad ogni responsabilità.

La struttura del potere è perciò inscindibilmente duplice: gerarchica e circolare. "Noi" e "loro", la nomenklatura e i sudditi secondo una logica piramidale che tuttavia non consente di tagliare nettamente in due la stratificazione sociale. E la partecipazione di ciascuno alla "vita nella menzogna", ai rapporti radicalmente inautentici, sistematicamente rovesciati, che invischiano e rendono complici e corresponsabili della perpetuazione di un potere anonimo e onnipervasivo.

Il maggior filosofo cecoslovacco del dopoguerra, Jan Patocka, è uno dei grandi maestri della fenomenologia europea. Per lui Havel nutre ammirazione grandissima. Con lui sarà portavoce di Charta '77. Forse non a caso, allora, la prima parte del saggio di Havel "Il potere dei senza potere" costituisce una impressionante descrizione fenomenologica delle strutture del potere nell'universo della nomenklatura e del suo riprodursi attraverso l'esistenza quotidiana.

Un verduraio, che insieme a patate e pomodori espone gli striscioni inneggianti al regime e ai suoi successi, e una impiegata, che frequenta il negozio senza forse neppure accorgersi di quegli striscioni, e che ne espone di eguali nell'ufficio dove trascorre la giornata, sono il banalissimo punto di partenza per una straordinaria ricostruzione dei nessi sociali ed esistenziali di un intero mondo.

I gesti che i due compiono sono infatti, presi uno ad uno, inoffensivi. La logica che li comanda è quella del "riuscire a campare". Sono gesti di routine, che non implicano alcuna so-lidarietà con il regime, alcun consenso. Sono atti banali, benché gesti di conformismo.

E tuttavia. Quella obbedienza vuole nascondersi a se stessa proprio nel suo significato di obbedienza. Vuole invocare la banalità della routine per sottrarsi alla coscienza dell'umiliazione. Ciascuno ripete il gesto dell'altro. Un gesto che ogni altro neppure nota, dunque un gesto ininfluente. Con questa ipocrisia, che possiede tutte le apparenze del realismo, ciascuno legittima la propria obbedienza evitando la propria vergogna. Ma rimuove l'essenziale: che piegandosi ad un gesto superfluo (poiché nessuno legge quei cartelli, benché tutti li appendano dove lavorano) funziona come veicolo di una comunicazione rituale, il cui scopo non è, appunto, di comunicare contenuti ma di evidenziare l'appartenenza/sottomissione di tutti ad un codice che tutti sanno essere vuoto di contenuti, puramente menzognero.

«Il verduraio e l'impiegata», scrive perciò Havel, «si adattano alle circostanze, ma entrambi – proprio per questo – fondano queste circostanze». In questo modo ciascuno aiuta l'altro a mantenersi nell'obbedienza, nel duplice senso che lo incoraggia e lo giustifica, che lo controlla e gli fornisce un alibi un alibi. Che lo invischia e lo deresponsabilizza. Il conflitto non contrappone più due classi, benché la struttura sociale sia anche gerarchico-piramidale, ma due modi di essere, due modalità di esistenza, che convivono e si affrontano, sebbene secondo asimmetrie assai differenziate, all'interno di ciascun individuo.

Quello totalitario è un mondo compiutamente a testa in giù. Realtà e apparenza, soggetto e predicato, esistenza e funzione invertono sistematicamente i loro ruoli. Perfino l'ideologia, che nasce come ancella teologica del potere e sua giustificazione, finisce per asservire a sé il potere, benché la falsità dei dogmi ideologici sia evidente per tutti, e per gli uomini del potere in primo luogo. Tutto il sistema, perciò, si regge in definitiva sulla obbedienza interiorizzata a un castello di menzogne che spersonalizza, atomizza, deresponsabilizza, e che ciascuno ogni giorno riproduce e rafforza ogni qualvolta si adegua al "panorama" e non compie disobbedienza.

Ma poiché questo è il cemento del regime, la sua sostanza, il regime è al tempo stesso incredibilmente solido e virtualmente fragilissimo. Basta che ciascuno rinunci alla banalità dell'obbedienza quotidiana, scelga frammenti di verità contro routine e opacità della menzogna, perché il regime conosca un improvviso e fino al giorno prima imprevisto collasso materiale. Quali circostanze possano congiurare al sottrarsi di ciascuno nei confronti di una esistenza ridotta a funzione della cieca regolarità del sistema, non è prevedibile né tanto meno programmabile. Non è questione di strategia politica, nel senso tradizionale (anche quello migliore) del termine, dunque. E invece. Praticare la comunicazione libera e diretta, e operare nella verità testimoniando l'onnilaterale non senso del regime, cessa di valere come semplice indicazione di rivolta morale, per costituire l'unica anticipazione di un possibile realismo politico.

E siamo, con ciò, al cuore del ragionamento di Havel.

L'alternativa al regime non si costruisce attraverso la tradizionale lotta politica, che ha per posta il potere, ma attraverso la rivoluzione esistenziale. I suoi tratti sono semplici (come per tutte le cose grandi, avrebbe detto – ha detto – Karl Marx): decidere di volersi come individui, assumersi la responsabilità di individuo, e con ciò costituirsi una identità propria (almeno parzialmente, almeno per frammenti) sottratta alla logica replicante dell'anonimo.

Agire concretamente. Ogni gesto quotidiano che rifiuta la menzogna destabilizza la società totalitaria, poiché il potere intende omologare ogni sfera dell'esistenza. Ogni gesto che realizzi differenza è già perciò etico e politico, poiché produce identità umana. Dunque, il piccolo gesto (ritorna qui, esplicitamente, la tematica di Masaryk e la sua insistenza sui "problemi minuti"), purché portato alle conseguenze estreme, coerentemente, senza patteggiamenti.

Di conseguenza: agire senza calcolo, secondo la logica di una ingenuità consapevole. Prendendo il potere alla lettera, quando parla di diritti, legalità, eguaglianza. Poiché anche questo fa parte del codice che al potere è necessario e cui bisogna sottrarsi: che nessuno pretenda dal potere la coerenza fra discorso e realtà; poiché a tutti è noto che il potere può dire ciò che vuole in quanto può fare ciò che vuole. Rifiutare al potere il monopolio della parola, della sua interpretazione menzognera. Già questo è destabilizzante.

Insomma: «La "rivoluzione esistenziale" non è un qualcosa che un giorno ci cadrà in grembo dal cielo, o che un nuovo Messia ci porterà. E un compito che ogni uomo ha davanti a sé in ogni momento. Possiamo "fare qualcosa in proposito", e dobbiamo farlo tutti, qui e ora. Nessuno lo farà mai per noi, e quindi non possiamo aspettare nessuno».

Questa impostazione spiega i molteplici contrasti fra Havel e i comunisti riformatori ed eretici, a partire dal '56, lungo gli anni '60 e nel corso della primavera di Praga. Un breve excursus si rende necessario.

Con gli intellettuali comunisti della fronda, il primo confronto avviene a Dobris, nel 1956, l'anno della svolta polacca e della rivolta ungherese. I termini del conflitto sono già chiari. Ai comunisti riformisti Havel rimprovera semplicemente incoerenza, e con ciò mancanza di realismo. Rovescia, insomma, proprio l'asse portante del loro ragionamento.

La stessa critica tornerà quasi dieci anni dopo, nel 1965, in un congresso degli scrittori che palesemente anticipa la primavera. Havel trova sia moralmente intollerabile che politicamente irrealistica la tesi "riformista'' e "antidogmatica" che la lotta per le grandi trasformazioni, per la liberalizzazione del sistema (ciò che verrà poi chiamato il "socialismo dal volto umano"), esigano continui ripiegamenti sulle cosiddette "piccole questioni" (era in discussione la sopravvivenza della rivista "Tvàr"). Questa logica, del resto – ecco il realismo lucido che la moralità conseguente di Havel realizza – perderà proprio i protagonisti della primavera.

Ancora nel '68, infatti, Smrkovsky giustificherà la logica compromissoria e diplomatica degli antidogmatici e il suo voto dell'anno prima in favore della chiusura di "Literàrnì noviny", ma pochi mesi dopo sarà a sua volta attaccato come estremista, per la coerenza con cui difenderà alcuni capisaldi del socialismo dal volto umano.

Per Havel il '68 significa sbalordimento e felicità, come per quasi ogni cecoslovacco. Sbalordimento per la rapidità con cui quello che sembra nascere come semplice rinnovamento ai vertici si trasforma in un gigantesco movimento popolare di democratizzazione. E felicità, dunque, per l'inaspettata piega, per l'irrompere di spirito libertario in una crisi di palazzo.

Sbalordimento, felicità, ma anche perplessità. Per il modo in cui l'équipe di Dubcek guida il processo. Per il carattere schizofrenico del loro agire. Il movimento spontaneo scavalca di continuo i programmi dei comunisti riformisti. Si spinge sistematicamente oltre ciò che essi considerano, secondo lo schema della fronda, possibile e accettabile. Ma gli "antidogmatici" del partito, mentre temono il movimento, simpatizzano con esso. Mentre cercano di tenerlo a freno, si appoggiano su questo continuo "scavalcamento" per vincere le resistenze interne all'apparato.

In realtà, non capiscono la situazione nei suoi termini reali, non colgono le potenzialità del rapido autoorganizzarsi della società, sottovalutano il significato strategico e definitivo della resistenza di ampi settori del regime (sarà un riformista tiepido come Husàk il futuro Quisling di Mosca). Sono "stregati dalle loro stesse illusioni". Che hanno un nome: ideologia, quella stessa che Havel ha criticato, perché immorale e irrealistica, nel '56 e nel '65.

I dirigenti della primavera si illudono sulle intenzioni di Mosca e su quelle del loro stesso paese. Per il Cremlino nessun socialismo "diverso" è tollerabile se apre la via a fenomeni di autonomia sociale e politica della gente, se consente insomma comunicazione autentica fra gli individui, poiché con ciò è il fondamento della nomenklatura che viene meno. Per gli uomini e le donne di Praga, per gli operai e gli studenti, per gli intellettuali e gli ex perseguitati, il socialismo dal volto umano è già un frammento di democrazia in atto, che ogni giorno si allarga e che non deve essere soffocato o circoscritto. La democratizzazione non può riguardare solo il partito, deve diventare patrimonio di tutti.

Havel non si fa nessuna illusione sulla possibilità di una resistenza armata all'invasione sovietica. Ma, realisticamente, riconosce come l'unico modo per rendere meno facile la decisione del Cremlino, e forse per scoraggiarla, fosse quella di una sintonia piena dei dirigenti della primavera con il movimento morale e politico ormai capillarmente diffuso in tutto il paese. Aderire, incoraggiare, guidare, invece che "tacere, spegnere, appianare". I vertici del '68, insomma, indebolirono se stessi rispetto a Mosca proprio perché vollero restare nel quadro dell'ideologia tradizionale, benché forzandone l'interpretazione. In ciò la loro leggerezza. La mancanza di un consapevole "idealismo ingenuo" fu la loro vera ingenuità, che li portò alla sconfitta (del resto forse non inevitabile).

Riprendiamo il filo. Contro il totalitarismo della nomenklatura, la prospettiva della rivoluzione esistenziale. Il "fare qualcosa in proposito", qui e ora. Il gesto anche modestissimo, ma privo di compromessi. La coerenza della piccola disobbedienza quotidiana rispetto alla norma anonima che vuole omologare ogni comportamento.

Contro il totalitarismo Havel propone la cosa in realtà meno ovvia; un uomo libero. Un individuo, cioè: irripetibile, singolare, irriducibile a schema. Mai esauribile nella sua appartenenza ad un gruppo, una classe, una nazione, una fede, un interesse, ma sempre eccessivo rispetto a ciascuna di queste determinazioni e anche alloro insieme. "Uomo" ha un significato preciso, perciò normativo e analitico insieme: un significato di possibilità. Indica l'individuo concreto, capace di sottrarsi alla manipolazione dei meccanismi anonimi di condizionamento sociale. L'individuo autonomo, che può con ciò conoscere motivazione, dignità, responsabilità. L'individuo che ha riscoperto la possibilità della comunicazione autentica, diretta, simmetrica, e se ne è riappropriato. E in questa pratica della comunicazione fra individui realizza, insieme, differenza e solidarietà.

Un individuo capace di sottrarsi alla dittatura della frase fatta, poiché essa «espropria gli uomini della loro identità, [...] diventa il signore, il difensore, il giudice e anche la legge. Di più. Un individuo capace, con la sua azione (con la coerenza e la trasparenza della sua azione), di riabilitare la parola, di riscoprirla strumento di verità, contro la deriva spontanea che la rende ambigua. Poiché la parola oscilla fra potere liberatorio e potere ipnotizzante, e facilmente può essere fraudolenta, fanatizzante, pericolosa, mortale. "Parola freccia"».

Un individuo che testimoni di ciò che il mondo è realmente: «una comunità complessa di migliaia di milioni di irripetibilmente singoli esseri umani». Più esattamente: di ciò che il mondo umano virtualmente è. Un individuo, allora, che possa contribuire a riabilitare, rendendoli operanti, valori perduti nella retorica, e senza i quali l'individualità autentica, l'essere presso di sé nella propria irriducibile differenza, diventa illusione (e sopravvive solo l'ideologia individualistica, che è cosa del tutto diversa e forse anche opposta): la fiducia, la sincerità, l'amore.

Un uomo è libero, infine, se gode effettivamente di chance eguali e plurali. Se può accedere ad ogni sfera dell'esperienza vitale, contro la dialettica esclusione/privilegio, e se può riorientare liberamente e costantemente il proprio progetto di vita.

Non si cada in equivoco, tuttavia. In questa assunzione descrittivo/normativa dell'uomo non si nasconde alcun ottimismo di maniera. Al contrario. «L'azione umana acquista una reale importanza se cresce sul terreno di una previdente coscienza della fugacità e della caducità di tutto ciò che è umano, e solo questa coscienza può ispirargli una eventuale grandezza». E ancora: «Solo dal fondo dell'assurdità si possono intravvedere i tratti di un senso concreto».

Il senso tragico della finitezza. Il senso lucido dell'assurdità dell'esistenza. Il senso ironico della propria comicità e nullità («se l'uomo perde questo, perde – paradossalmente – anche la capacità di operare seriamente»). Questo il fondamento della rivoluzione esistenziale di Havel. Che ricorda a tratti, in modo impressionante, Albert Camus, con il quale potrebbe condividere la definizione di individuo autentico: solitaire, solidaire.

Si capisce, a questo punto, come "filosofia" e teatro siano in Havel due aspetti di un medesimo impegno, poiché la rivendicazione dell'uomo concreto, e la sua centralità nel progetto di rivoluzione esistenziale, trova radici proprio in quello sguardo peculiare che il teatro dell'assurdo realizza: un teatro che non offre consolazione o speranza e che ricorda anzi agli uomini come essi di fatto vivano, privi di speranza. E proprio perciò, se capaci di ironia e lucidità, capaci di occuparsi dell'assurdità del vivere, di prendersene cura, di non piegarsi alla indifferenza.

L'esistenza autentica non può venire «prodotta» per via istituzionale. La rivoluzione esistenziale nasce nel concreto della vita quotidiana. Ma le istituzioni politiche non sono indifferenti. Possono agevolare o contrastare la realizzazione dell'individuo e il principio fondamentale della sua autonomia. Havel non si sottrae perciò alla enucleazione di alcune tesi, anche circostanziate, in fatto di organizzazione politica, economica, sociale, benché la sua, rispetto alle tradizioni, voglia restare una "politica antipolitica".

La produttività non è, agli occhi di Havel, l'indice per eccellenza della necessaria riforma economica. Al centro, infatti, va collocato sempre l'uomo concreto, dunque la sua esigenza che il lavoro non sia impersonale, anonimo, demotivante e con ciò deresponsabilizzante. La relazione del singolo con la propria attività lavorativa deve produrre senso, essere significativa e controllabile. «Considero questo indice, difficilmente rilevabile dal punto di vista economico, più importante di tutti gli altri indici economici finora conosciuti». Il modello sarà perciò quello di una economia basata sulla maggiore pluralità di aziende possibile, aziende decentralizzate, preferibilmente di dimensioni piccole e medie, strutturalmente eterogenee e legate anche a tradizioni locali e culture tecnologiche particolari.

Il lavoro, la produzione, come parte del mondo dell'individuo, non come tempo sottratto alla sua esistenza. Come parte del suo ambiente, anche. Dove l'ambiente fisico, naturale e artificiale, non sia mera dimora, ma in qualche modo patria, un ritrovarsi presso di sé. Anche a scapito della produzione, perciò, i luoghi del vivere bevono avere paesaggio, stile, cultura, storia, atmosfera. Ecologismo e ambientalismo non sono lusso e frivolezza, ma una necessità essenziale all'uomo della rivoluzione esistenziale.

Sul piano più strettamente politico, democrazia vuol dire per Havel possibilità per tutti e per ciascuno di contare, decidere, controllare, cambiare. Perciò ogni forma organizzata deve essere al servizio di quel ciascuno che ogni individuo è, e la forma istituzionale deve per il possibile impedire che si produca la micidiale (per la democrazia) inversione fra soggetto e funzione, fra individuo e suo strumento.

I partiti sono necessari e forse, ancor più, inevitabili. Ma in quanto strumenti. Essi perciò, come partiti, vanno esclusi dal potere. La scelta degli uomini per le diverse cariche deve riguardare individui cui i partiti forniranno sostegno, strumenti, conoscenze, apparati organizzativi, in un rapporto fiduciario provvisorio, revocabile, funzionale. Meglio ancora se le forme organizzate e stabili della vita politica avranno la mobilità dei club anziché la pesantezza dei partiti. Havel non dice come concretamente vada formalizzata questa democrazia per individui (del resto scrive quando il regime della nomenklatura sembra quanto mai solido), ma i criteri sono chiarissimi: il soggetto deve restare tale, lo strumento non deve prendere il suo posto, i meccanismi istituzionali ed elettorali devono essere funzionali a questa logica e ridurre al massimo i rischi nella direzione opposta.

Dunque: la risposta al totalitarismo dell'est non è l'Occidente, non è la democrazia "realmente esistente", in crisi anch'essa. Questa la radicata e radicale conclusione di Havel, eversiva del luogo comune, e incomprensibile al buon senso filisteo, che nell'ottantanove delle libertà vede solo volontà di annessione, desiderio di omologazione al proprio modello di vita.

Di più. Havel rovescia compiutamente questa impostazione. E nel totalitarismo dell'est vede semmai una specie di memento per l'Occidente, il rischio permanente di un suo latente destino, cioè del destino possibile e catastrofico, nel suo grigiore etico ed esistenziale, di tutta la modernità.

Tutto ciò, si badi, non nasce dalla sottovalutazione, corrente per decenni nella gran parte della sinistra occidentale, dell'orrore totalitario. Havel lo ha vissuto, questo orrore, e strepitosamente descritto, e combattuto. Ma nella lucidità, individuando cioè nel meccanismo della generalizzata menzogna, e nell'invischiamento di ciascuno in esso, la struttura della vita spersonalizzata e inautentica che quell'organizzazione della convivenza umana realizza.

Questo meccanismo, benché in forme diverse, infinitamente più sottili, Havel lo vede operante anche all'ovest. La manipolazione, che distrugge l'individuo rendendolo mero replicante dell'anonimo, è già forma attiva, benché occulta, della logica totalitaria. La dispiegata vita di gregge, l'uniformità dei consumi e dell'hybris che li comanda, la manipolazione televisiva che priva l'individuo della sua individualità anche presso di sé, tutto questo è totalitarismo in atto «sia che la cosa venga proposta da tre giganti capitalisti in concorrenza fra di loro, sia da un solo gigante socialista senza concorrenza».

Rispetto alla democrazia realmente esistente Havel perciò preferisce parlare della necessità di una post-democrazia, visto che la democrazia quale effettivamente operante declina paurosamente verso il monopolio del partito/macchina. Si va mutando, cioè, in partitocrazia.

Anche qui. Il discorso è di una chiarezza esemplare, ma nulla a che spartire con il disprezzo più o meno velato di tanta critica comunista contro la democrazia «formale». Quella di Havel, semplicemente, è liberaldemocrazia assunta nella coerenza dei suoi principi e delle sue motivazioni, quale strumento per la sovranità del cittadino, del ciascuno, dell'uomo concreto. E, se vogliamo, democrazia "formale" presa sul serio. Cosa che l'Occidente degli establishment si guarda bene dal fare.

L'esplicita diffidenza di Havel nei confronti dei partiti di massa, e di una democrazia che si riduca alla concorrenza elettorale e per il potere fra due o tre di essi, nasce dalla consapevolezza che tale sistema lascia aperta la via (e anzi la incoraggia) ad un ottenebramento delle responsabilità personali e consente (anzi incoraggia) lo scambio tendenzialmente sistematico fra obbedienza e vantaggi. A dissipazione e distruzione dell'irrinunciabile individualità, cioè autonomia critica, di ciascuno.

Il potere che si fa professione, il voto che si fa merce, implica il perdersi del cittadino e il prevalere della logica della fedeltà sulla vocazione esistenziale all'autenticità. Il replicante al posto dell'individuo.

«Tutto il complesso statico dei partiti politici di massa, sclerotici, concettualmente verbosi, politicamente fine a se stessi, che dominano con il loro staff di professionisti e succhiano ai cittadini qualunque concreta e personale responsabilità, difficilmente può essere considerato come la strada futura che porterà l'uomo a ritrovare se stesso». Havel può dire con sovrana tranquillità ciò che la critica in Occidente neppure più osa: che la democrazia si è rovesciata nel dominio della funzione sul soggetto, dell'apparato sul cittadino. Che la libertà si fa fittizia, finta, e non già formale (cioè giuridica).

Forse perché a distanza, forse perché senza complessi, forse perché impegnato a combattere la forma estrema e compiuta di anestetizzazione dell'autonomia individuale, Havel può mettere a nudo anche l'ipocrisia dell'Occidente, il carattere apologetico del discorso ivi corrente. E la dimissione dello spirito critico che lo accompagna.

Est e ovest, totalitarismo e democrazia realmente esistente, benché fenomeni diversissimi, partecipano dunque di una medesima crisi che affonda le radici nella condizione dell'uomo moderno. Condizione duplice, aperta virtualmente alla libera esperienza dell'esistere proprio a partire dall'apprendimento dell'assurdo. Ma tentata costantemente dalla rassegnazione alla tranquillità comune ed appagante della menzogna: «C'è in ognuno un pizzico di compiacimento nel confondersi fra la massa anonima e nell'adagiarsi comodamente sul letto della vita inautentica». E la voluttà di conformismo, questo anestetizzante di individualità, resta costitutivo del vigente modello occidentale.

L'individualismo di Havel, la passione intransigente per l'uomo concreto nella sua irripetibilità, è tutto fuorché costruzione intellettuale. E innanzitutto, infatti, esperienza di vita. La sua scelta per la differenza e l'eguaglianza, per il solitaire che si apre al solidaire, nasce da una duplice esclusione personalmente sperimentata: quella del privilegio e quella della repressione, quella della fanciullezza borghese e quella della gioventù declassata. Questa duplice esclusione addestra ad uno sguardo dal di fuori e dal basso, ad una lettura ironica e insieme appassionata della propria esistenza e di quella altrui. Disincanto e mistero.

L'avversione al privilegio matura in Havel bambino, a contatto con una borghesia umanistica dove il desiderio di creare fa aggio sulla avidità di profitto. Questo bisogno di eguali opportunità sarà da allora il filo rosso della sua concezione sociale, spontanea prima e consapevole poi. E il muro che ogni differenza di chance alza fra gli individui resterà l'ossessione costante, il nemico da combattere, da distruggere attraverso la libera comunicazione simmetrica fra eguali.

In questo, il "socialismo" sentimentale e morale da cui Havel non prenderà mai le distanze, benché ritenga necessario rinunciare al vocabolo "socialismo", non più riscattabile.

Per concludere. L'ottantanove delle libertà obbliga, esattamente come la riflessione di Havel che per tanti versi lo anticipa, a ripensare la categoria del realismo politico». A riconoscere il di più che, proprio in termini di realismo, di efficacia pratica, la coerenza esistenziale, l'intransigenza morale, l'estremismo democratico sono in grado di imprimere all'agire politico.

E ripensata alla radice deve essere anche la contrapposizione, soprattutto nella versione schematica della vulgata corrente, fra etica della convinzione ed etica della responsabilità. Sempre più spesso, infatti, la logica della convinzione finisce per dimostrarsi l'unica etica responsabile, capace di realizzare quel "possibile" radicale che lo sguardo anestetizzato e immerso nella banalità della vita anonima è perfino incapace di immaginare.

Etica della responsabilità vorrà allora dire il riconoscimento che non possiamo mai sapere in anticipo cosa sia davvero possibile. E che gridare all'utopia ogniqualvolta si progetti in vista dell'uomo concreto e della rivoluzione esistenziale, testimonia solo di una cloroformizzazione delle coscienze e dello spirito critico, dunque di un avvenuto tradimento dei valori costitutivi dell'Occidente.

Del resto è stato proprio Max Weber a scrivere: «E perfettamente esatto, e confermato da tutta l'esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l'impossibile».

Ora che il totalitarismo sembra definitivamente cancellato nella sua forma esplicita e organizzata, perciò, si apre l'epoca dello scontro fra due modi di essere della tradizione occidentale, fra due modi di intendere la democrazia e di viverla. Fra l'individuo come valore e l'individualismo come ideologia. Fra eclissi e rinascita del cittadino. Fra esistenza autentica e acquiescenza all'anonimo della macchina sociale. L'indicazione che viene dall'est, almeno da quell'est che Havel incarna, è priva di ambiguità. E' lezione libertaria di responsabilità.

Fin dalle prime pagine di questo libro, il lettore simpatetico avrà l'impressione che a parlare, a tracciare frammenti di moderne "Confessioni", sia un uomo felice. Di quella felicità incerta, provvisoria, perfino tentata dal suicidio, consapevole di finitezza e assurdità, che è data agli umani. Ma felicità, tuttavia.

Di una tale impressione ci si vergogna sempre. O la si vive, comunque, con disagio. Come se fosse già colpa solo sospettare la capacità di felicità. Eppure assurdità e allegria, lucidità e vitalità, percorrono ogni pagina di questo racconto di vita, ogni momento di riflessione. Ogni episodio, benché lo sfondo sia quello cupo dell'ingiustizia, della spersonalizzazione, di un mondo tragico per grigiore.

Del nostro senso di colpa fa però giustizia lo stesso Havel, quando conclude che l'ultimo e più paradossale paradosso della sua vita consista in ciò: «Ho il sospetto che da una qualche parte, in quella più profonda di me, tutta questa vita mi diverta terribilmente». Vàclav Havel, narratore dell'assurdo, presidente della speranza, uomo che si è deciso per la libertà, e per questo felice.

Roma, aprile 1990

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