Una spallata al re
di Giorgio Caproni

Agostino era entrato nel deposito dei trams per iniziare il suo turno alle cinque pomeridiane e i due guardiani che, sul predellino d’una vettura, vociavano nella profonda luce appesantita dall’odore di ferro riscaldato e di calda polvere impastata d’olio nero, nemmeno si accorsero di lui. Se ne accorse il cane il quale, uscito all’improvviso dal sonno, gli corse incontro ancora un poco barcollante per la brusca sveglia e tuttavia mosso da quella spinta di cui si animano i cani fiutando una persona attesa. Ma nemmeno ai latrati di giubilo del cane i due operai uscirono dal chiuso del loro discorso: avevano tutta la voce tesa ed è naturale che un uomo penetrato profondamente in una discussione, non possa uscirne di un tratto come un cane dal sonno.

Agostino questo lo capiva e non si meravigliava perciò di non essere veduto, nemmeno da quello cui doveva dare il cambio: si meravigliò piuttosto di tutte le parole tese dei due guardiani, le quali penetrando in lui ora che si era fermato ad aspettar la fine del discorso teneva intanto fra le ginocchia la testa del cane, un poco curvo ad accarezzarla ma già con tutta attenzione altrove) toccavano in lui un punto che ora, mentre quelle cose erano dette in tal modo, come poteva non interessarlo più? Erano come tante spinte troppo sgarbate sul suo petto e fu lui alfine a imporre con la voce la sua presenza: «Al re non si deve mancare di rispetto», disse. «Voi parlate di un re come parlereste di uno di noi, di un guardiano». Aveva allontanato con una ginocchiata il cane che ancora tentava di penetrare nella sua attenzione, e mentre i due lo guardavano con occhi pieni di meraviglia aggiunse: «Noi siamo un popolo troppo ignorante, tutto il nostro male è qui. Noi non rispettiamo nemmeno il nome del Re: e come volete poi che ci rispettino gli altri?».

«Ti ha insegnato a dire così il colonnello?», gli rispose allora, dopo un poco di sospensione e con una voce esageratamente dolce, colui cui doveva dare il cambio. «Ti ha insegnato questo bel pensierino il colonnello quando eri carabiniere?». Senonché l’altro, quello che fino al quel punto aveva governato il discorso, volle subito intervenire a spegnere quella miccia fuori luogo: «Ora se parli così sei davvero un ignorante come dice Agostino», disse all’altro senza tuttavia mettere alcuna punta offensiva nelle sue parole. «Tu non devi offendere Agostino e nemmeno i carabinieri che ci sono per il nostro bene, anche i colonnelli. Agostino dice così perché è abituato alla disciplina dell’Arma, ma lo sa anche lui, ora, cosa vuol dire re e votare contro il re. Non è così, Agostino?».

Agostino non lo sapeva se fosse o non fosse così. Non ricordava nemmeno di aver fatto un giorno il carabiniere e nemmeno lo interessavano i carabinieri, i problemi che poteva accendere nel petto di un carabiniere la scelta fra il re e la Repubblica. Ora lui si sentiva un uomo libero: e quale soggezione avrebbe dovuto mettere in lui il fatto di essere stato un carabiniere, cioè un fatto che nemmeno ricordava più? Ma non era questo ora il pensiero che lo turbava, davvero lui non avendo dato alcuna importanza alla voce dolciastra che lo aveva assalito: c’era piuttosto un altro peso, c’era questo pensiero in lui: era lecito dire come aveva detto il primo guardiano, «voglio dare anch’io una spallata al re», per dire che anche lui avrebbe votato per la Repubblica? Era stata proprio questa frase a urtarlo: questo fatto della spallata al re, perché a lui era subito venuto in mente il re a gambe all’aria a quell’urto con tutte le sue decorazioni e la sciabola nella polvere calda e chiazzata d’olio nero del deposito, davanti a loro col vestito unto e anche davanti al cane che si sarebbe messo all’istante ad abbaiare al re. Ed era un pensiero che invece di farlo ridere gli aveva messo una strana agitazione in petto.

Senonché era strano che anche tale pensiero si fosse poi allentato nella sua mente. Era una cosa enorme: ora lui, dopo averlo visto col pensiero sulla polvere macchiata d’olio, considerava per la prima volta il re non come un nome letto sui libri bensì come un uomo vero, un uomo davvero eguale a lui, a un guardiano del trams. Un guardiano di cui si poteva provar compassione, cominciò a pensare. Un uomo (cominciava proprio ora a capire) che nonostante quel titolo di re era totalmente fatto come lui. E allora perché la compassione gli si tramutò in un’improvvisa spinta d’ira verso quell’uomo che voleva continuare per forza, non soltanto nella sua mente ma anche nel mondo, ad essere re? Sarebbe stato giusto che un guardiano, una volta colpevole, volesse continuare per forza a fare il guardiano o incaricasse uno della sua famiglia infetta, un suo complice, a continuare per lui a fare il guardiano? Lo avrebbero buttato fuori a calci, altro che spallate, una volta che avessero saputo che è stato lui a far entrare i ladri e gli illegittimi spadroneggiatori nel deposito, e che è stato sempre lui a costringere i tranvieri ad affiancare i ladri, perfino nella sparatoria contro coloro che sono stati costretti a difendersi dall’aggressione dovendo perciò uccidere i tranvieri e diroccare il deposito.

Era ora in Agostino come se avesse bevuto vino acceso, e questo pensiero, che il responsabile di tutto è un uomo proprio eguale a lui, ora quale strana e dolorosa allegria accendeva in lui? Scagliò con tutta la sua forza il berretto sul muso del cane che scappò via alfine urlando, e disse: «Una spallata al re voglio dargliela anch’io. Credete che io non sappia che il re è colpevole? Avete ragione di aver pensato che io sono un tonno: io ho pensato soltanto ora che il re è un uomo e che a un uomo colpevole è giusto dare tutti insieme questa spallata, con tutte le nostre spalle unite». Senonché gli altri due perché erano rimasti a bocca aperta? Non si aspettavano quell’improvvisa unione e, guardando la spalla immensa di Agostino, era proprio come se anche loro ora capissero una cosa nuova. «Basterà una crocettina sulla scheda dalla parte della Repubblica», disse alfine uno con un’ansia nuova. «E sarà una piccola spallata al re, proprio una spallata», aggiunse Agostino. E in tutti e tre era entrata una fiducia nuova, e anche uno strano orgoglio nuovo.

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