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25 gennaio 2010

Dio, le donne e il partigiano anti-eroe
di B. Frabotta

Donne che raccontano di un odio “caldo come il latte”. Partigiani alle prese con il tormento etico della guerra fratricida. I racconti che Giorgio Caproni pubblicò su l’Unità narrano di un’Italia che usciva dalla guerra, con la voglia di ricostruire, ma anche con una ferita morale che non si sana. «Caproni non usa mai l’espressione guerra civile, ma è anche di quello che parlano i suoi racconti», ci dice Biancamaria Frabotta, poetessa, critica letteraria e docente universitaria. Autrice di un bellissimo saggio dedicato a «Giorgio Caproni. Il poeta del disincanto», Biancamaria Frabotta suggerisce di collocare soprattutto i racconti sulla Resistenza scritti da Caproni negli anni Quaranta, e in gran parte pubblicati in quegli anni da l’Unità, in uno spazio «molto originale», che sta tra Fenoglio e Pavese. Letteratura anti-retorica e anti-eroica, senza nessuna visione celebrativa o retorica della Resistenza. 



Come mai un poeta si mette a scrivere questi racconti per l´Unità?
«La guerra e la resistenza accanto ai giovani delle Brigate Garibaldi e di Giustizia e Libertà rappresentò per Caproni una svolta fondamentale nella vita e nella scrittura. Gli tornarono il desiderio giovanile di narrare e una nuova ansia di testimoniare, magari con racconti “scritti per forza” come diceva lui nei suoi toni sempre bassi, mai enfatici, cioè per campare sé stesso e la famiglia in quegli anni poverissimi. Scrisse perfino due toccanti reportages sulle borgate di Roma per il Politecnico di Vittorini. Collaborò all’Avanti, all’Italia socialista, a Mondo operaio. I poeti, testimoni un po’ speciali nel coro di voci che si levarono nel dopoguerra erano ben accolti sulla stampa e i giornali di sinistra, che facevano a gara per accaparrarseli, divennero i promotori di un rinnovamento anche culturale. Questi racconti pubblicati da l’Unità ne sono un esempio. Non credo che l´Unità genovese navigasse nell´oro nel 1946, eppure bandiva un premio in denaro (cinquantamila lire, che non erano poche) per un bel racconto sulla Liguria uscita dalla resistenza. Chi potrebbe fare oggi lo stesso?»



Nel caso di “Senza biglietto” invece si parla di Dio.
«È incredibile che nel ’48, l’anno della vittoria democristiana alle prime elezioni libere in Italia, venga evocato un Dio che torna sulla terra e che nessuno riconosce. Un tipico Dio appartenente al clima popolare del dopoguerra . E tutto caproniano.
Non gli piace identificarsi con un “Signore” ed è così umano da lasciarsi andare quasi alla bestemmia. Caproni è sempre stato assillato dal problema di Dio. Le Confessioni di Agostino fu il libro della sua vita e non ha mai smesso di riflettere sui grandi temi della colpa, del libero arbitrio, dell’imperscrutabilità del comportamento umano. Come nel delitto “assurdo”, quasi gratuito raccontato ne Il genovese vestito di nero. Il racconto completo s’intitolava Il giuoco del pallone ed era stato commissionato dal Coni per celebrare l’importanza dello sport, figuriamoci. Ma Caproni era un vero anticonformista, poco propenso ad assecondare i luoghi comuni.



La guerra però è il tema dominante. Che spazio occupano questi racconti di Caproni nella narrativa sulla Resistenza?
«Uno spazio notevole e anche molto originale. Calvino, assai impressionato dal Labirinto, di cui I denti di Ada comparsi sull’Unità nel 1947 sono solo un frammento, cercò più volte di convincere Caproni a ripubblicare tutti i suoi racconti. Lo stesso Caproni, di solito molto umile, si vantava di averlo scritto per così dire in diretta, con la Resistenza ancora in atto, prima ancora di Pavese e Fenoglio. Ed è con questi due scrittori che va confrontato. In ciò che scrive, in versi e in prosa, è assente qualsiasi visione celebrativa e retorica della Resistenza. Anche il personaggio del bellissimo poemetto Il passaggio d’Enea è un antieroe. Deve fare i conti con la ricostruzione, ma anche con un doloroso sentimento della sconfitta che Caproni non ha mai negato. La sua in fin dei conti è la testimonianza di un sopravvissuto, come quella di Primo Levi.



Quanto c´è di autobiografico? Caproni stesso aveva preso parte alla Resistenza.
«Quale fu la sua parte lo racconta lui stesso con molta semplicità. Partecipò alle SAP, ma non si sentiva certo un guerriero. Il Comando gli aveva dato incarichi amministrativi, era una sorta di sindaco, si occupava degli approvvigionamenti alimentari per il paese, di tenere aperta la scuola, ma di salvare anche la sua famiglia dagli «orrori indicibili» di quei diciannove mesi trascorsi in Val Trebbia, a Loco di Rovegno, il paese della moglie. Nei suoi racconti i tedeschi occupanti sono naturalmente i nemici, ma l’avversione più profonda e dolorosa riguarda gli italiani rimasti loro complici e succubi, e spesso disprezzati dagli stessi nazisti. Nel dopoguerra, difendendo i partigiani dalle accuse del movimento dell’“uomo qualunque” Caproni parlerà della guerra partigiana come una guerra di popolo, vinta anche dai ragazzi e dalle donne. Ma Rina in La Liguria non cede è invasa da un odio "caldo come il latte" nei confronti del tenente fascista che entra nella sua casa, prende in mano un libro di poesie di suo marito e lo profana leggendone una. E poi lascia l’impronta dei tacchi sul volto dei partigiani uccisi anche per liberare la casa di Rina. Caproni non parla di guerra civile, ma è ciò che racconta. I denti di Ada terminano con l’esecuzione di una spia, una ragazza giovanissima, la sorella di un compagno di violino della gioventù di Caproni e proprio a lui, uomo mite e certo più incline alla meditazione che non all’azione, viene dato l´incarico di ammazzarla. Un poeta può riconoscere i torti e le ragioni della Storia, ma ciò che lo tormenta è l’esistenza del Male e il travaglio di una Giustizia “giusta”, non vendicativa. È legittimo sopprimere un essere umano, anche se la lotta per la “libertà” di molti lo pretende? Il trauma della guerra fratricida, della caccia reversibile e perpetua agirà nella sua poesia fino ai grandi libri metafisici della vecchiaia».



Ada, Rina: perché Caproni ha bisogno di guardare alla guerra attraverso queste figure femminili?
«In molti racconti si coglie un´attrazione per il corpo femminile, visto soprattutto attraverso i dettagli, quasi un po’ feticisticamente: i peli sulle gambe, l’odore dei capelli, il sudore, i denti di Ada denudata che battono per il freddo e la paura. Sono donne fragili, inquietanti, come Olga, la sua prima fidanzata morta giovanissima prima della guerra. Ma nei racconti sulla Resistenza, ci sono anche donne forti, senza lacrime, il cui impeto resistenziale risponde non solo a un istinto materno, ma a una sorta di sicurezza etica, senza dubbi sul comportamento giusto da adottare. Come Rina, o Giulia in Rovine invisibili. Il personaggio maschile “autobiografico” invece è continuamente tormentato da dilemmi esistenziali, filosofici. E soprattutto da un sentimento di inadeguatezza che a volte prende i tratti, tipicamente novecenteschi, dell’inettitudine. E che Caproni chiama, in un racconto,“lontananza dal mondo”».



Aver scritto questi racconti ha inciso anche sul suo lavoro di poeta?
«Moltissimo. Non solo per i temi che tornano spesso nelle sue poesie, ma soprattutto perché senza l’esercizio in una nuova sintassi narrativa non avremmo avuto poemetti stupendi, come Le biciclette, Stanze della funicolare e Congedo del viaggiatore cerimonioso».



Caproni muore nel 1990, la sua opera sta tutta nel Novecento: cosa lascia in eredità al secolo successivo?
«Una grande storia poetica che ha un rapporto forte con la storia, almeno fino agli anni Settanta. Poi Caproni prende congedo da tutto e si concentra su quella che chiama la sua “ateologia” in un messaggio paradossale e spesso disperato, ma sempre riscattato dalla leggerezza dei suoi versi che è lezione di sobrietà e di fastidio per ogni enfasi».

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