torna al sommario |
|
tratto da www.trani-ius.it Jean-Jacques Rousseau Il contratto sociale Indice Prefazione. Il patto sociale. Lo stato civile. La sovranità È inalienabile. La sovranità È indivisibile. Se la volontà generale possa errare. La volontà generale È indistruttibile. Prefazione. L'uomo è nato libero, ma dovunque è in catene. Anche chi crede di esser padrone degli altri, è più schiavo di loro. Come avviene questo mutamento? Lo ignoro. Che cosa può renderlo legittimo? Credo di poter risolvere questo problema. Se considerassi solo la forza e l'effetto che ne deriva, direi: Quando un popolo, costretto ad obbedire, obbedisce, fa bene; e se può liberarsi dal gioco, fa ancor meglio. Infatti, riconquistando la sua libertà con lo stesso diritto con cui gli era stata tolta, o egli è autorizzato a riprenderla o non lo era neppure chi gliel'ha tolta. Ma l'ordine sociale è un diritto sacro, che sta a base di tutti gli altri. Tuttavia questo diritto non deriva dalla natura, ma è fondato su convenzioni. Si tratta dunque di sapere quali esse siano. Per far ciò, È necessario che io dimostri quello che ho soltanto enunciato.
Il patto sociale. Faccio l'ipotesi che gli uomini siano giunti a quel punto, in cui gli ostacoli che nuocciono alla loro conservazione nello stato di natura, superino con la loro resistenza le forze di cui ciascun individuo può disporre per mantenersi in quello Stato. Allora quello stato primitivo non può più sussistere e il genere umano perirebbe se non mutasse modo di vita. Siccome gli uomini non possono creare forze nuove, ma soltanto riunire e dirigere quelle già esistenti, non hanno altro mezzo per conservarsi che formare, associandosi, una somma di forze che possa superare le resistenze, metterle in atto per unico impulso e farle agire armonicamente. Questa somma di forze può nascere soltanto dal concorso di molti; ma, essendo la forza e la libertà di ogni uomo i primi strumenti della sua conservazione, come potrà spogliarsene senza danneggiarsi e senza trascurare la difesa di se stesso? Questa difficoltà, riportata al mio assunto, può enunciarsi così: "Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ogni associato e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca che a se stesso, e resti libero come prima". Questo è il problema fondamentale, che il Contratto sociale risolve. Le clausole di questo contratto sono dalla natura dell'atto così ben determinate, che la più piccola modificazione le renderebbe vane e di nessun effetto; di modo che, sebbene forse non siano mai state formalmente enunciate, tuttavia sono le stesse dovunque, dovunque tacitamente ammesse e riconosciute sin tanto che per la violazione del patto sociale ognuno rientri nei suoi originari diritti e riprenda la sua libertà naturale, perdendo la libertà convenzionale per la quale vi ha rinunciato. Queste clausole si riducono in fondo a una sola: cioè, l'alienazione totale di ogni associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità; poiché, in primo luogo, dandosi ognuno tutto intero, tale condizione è la stessa per tutti; e, essendo eguale per tutti, nessuno ha interesse di renderla più grave agli altri. Inoltre, poiché l'alienazione si fa senza riserva, l'unione è la più perfetta possibile e nessun associato ha alcunché da reclamare, poiché, se ai singoli restasse qualche diritto, non essendovi un superiore comune che possa Risolvere eventuali conflitti, ognuno, essendo in certo modo il proprio giudice, finirebbe col pretendere di esserlo di tutti: lo stato di natura risorgerebbe e l'associazione diventerebbe o tirannica o inutile. Infine, ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno, e poiché non v'è un solo associato su cui non si abbia lo stesso diritto ch'egli ha su se stesso, il guadagno equivale alla perdita di per tutti e ne deriva per ciascuno una maggiore forza per conservare quanto egli ha. Perciò, se si elimina dal patto sociale ciò che non ne fa parte essenziale, si troverà che può ridursi in questi termini: Ciascuno di noi mette in comune la sua persona ed ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti in corpo consideriamo ogni singolo membro come parte indivisibile del tutto. Subito al posto della persona singola di ogni contraente, quest'atto di associazione crea un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti sono i voti dell'assemblea, che riceve da quest'atto stesso la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, formata dall'unione di tutte le altre, che si chiamava in altri tempi città, oggi repubblica o corpo politico, è chiamato ora, dai suoi membri, col nome di Stato quando È passivo, sovrano quando È attivo, potenza in rapporto ai suoi simili. Per quanto riguarda gli associati, essi prendono il nome collettivo di popolo e individualmente sono cittadini, in quanto partecipano dell'autorità sovrana, e sudditi, in quanto obbediscono alle leggi dello Stato. Ma questi termini spesso si confondono e si usa l'uno per l'altro; basta tuttavia saperli distinguere quando si vogliono usare in tutta la loro precisione.
Lo stato civile. Questo passaggio dallo stato di natura allo stato di civiltà produce nell'uomo un mutamento assai notevole, sostituendo nella sua condotta all'istinto la giustizia, e dando alle sue azioni quella moralità che prima loro mancava. Allora soltanto, il dovere succede all'impulso fisico, il diritto all'appetito: e l'uomo, che fin allora non aveva considerato altro che se stesso, è costretto ad agire con altri princìpi e ad ascoltare la ragione prima di cedere alle inclinazioni. Benchè in questo stato perda molti vantaggi che ha per natura, ne guadagna altri ben grandi, le sue facoltà si acuiscono e si sviluppano, le sue idee si allargano, i sentimenti si elevano, la sua anima s'innalza al punto che, se gli abusi di questa nuova condizione non lo riportassero spesso al disotto di quella da cui È uscito, dovrebbe benedire sempre il momento che ve lo ha strappato per sempre e che, da animale stupido e deficiente, ne ha fatto un essere intelligente, un uomo. Riduciamo questo bilancio in termini di facile paragone: quel che l'uomo perde col contratto sociale, è la sua libertà naturale e un diritto illimitato su tutto ciò che lo tenta e che può raggiungere: quel che guadagna è la libertà civile e la proprietà di tutto ciò che possiede. Per non sbagliarsi in queste compensazioni bisogna distinguere la libertà naturale, che ha per solo limite le forze dell'individuo, dalla libertà civile, che È limitata dalla volontà generale: e il possesso, che è solo l'effetto della forza o il diritto del primo occupante, dalla proprietà, che è fondata su un titolo positivo. Oltre a ciò che precede si potrebbe aggiungere all'attivo dello stato civile, la libertà morale, che sola può render l'uomo veramente padrone di sè; poiché l'impulso del solo appetito È schiavitù mentre l'obbedienza alla legge che ci si è prescritta è libertà. Ma mi son già fermato abbastanza su quest'argomento e il significato filosofico della parola libertà non fa parte del mio tema.
La sovranità è inalienabile. La prima e più importante conseguenza dei principi qui stabiliti è che soltanto la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che È il bene comune; perché se l'opposizione degl'interessi particolari ha reso indispensabile la formazione delle società, l'accordo di questi stessi interessi l'ha resa possibile. Quel che v'è di comune in questi diversi interessi forma il vincolo sociale; e se non vi fosse un punto in cui tutti gl'interessi convergono, nessuna società potrebbe esistere. Ora, soltanto su quest'interesse comune la società dev'essere governata. Perciò dico che la sovranità, non essendo altro che l'esercizio della volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano; che è un ente collettivo, non può essere rappresentato che da se stesso: il potere può essere trasmesso, ma non la volontà. Infatti, se non è impossibile che una volontà individuale si accordi su qualche punto con la volontà generale, è impossibile però che quest'accordo sia duraturo e costante; poiché la volontà particolare tende, per natura, alle preferenze e la volontà generale all'eguaglianza. E' più impossibile ancora che vi possa essere una garanzia di quest'accordo, anche se poi dovesse durare per sempre; poiché, in questo caso, non sarebbe effetto dell'arte, ma del caso. Il sovrano può ben dire: voglio ora quel che vuole quest'uomo, o almeno quel che dice di volere; ma non può dire: quel che quest'uomo vorrà domani io lo vorrò ancora, perché è assurdo che la volontà si ponga dei limiti per l'avvenire, e perché non dipende da alcuna volontà il consentire a una cosa contraria al bene di chi vuole. Dunque, se il popolo promette semplicemente di obbedire, per tale atto si dissolve e perde la sua qualità di popolo: nel momento stesso in cui v'è un padrone, non v'è più sovrano e quindi il corpo politico è distrutto. Nè si può dire che gli ordini dei capi possano passare per volontà generali, quando il sovrano, libero di opporvisi, non lo fa. In questo caso, dal silenzio universale bisogna presumere il consenso del popolo. Su questo ci fermeremo più a lungo.
La sovranità è indivisibile. Per la ragione stessa per cui è inalienabile, la sovranità è indivisibile; poiché la volontà o È o non è generale; o è quella del corpo del popolo, o soltanto di una parte. Nel primo caso la dichiarazione di questa volontà è atto di sovranità, e fa legge; nel secondo È una volontà particolare o un atto di magistratura: al più è un decreto. Ma i nostri politici, non potendo dividere la sovranità nel suo principio, la dividono nel suo oggetto; la dividono in forza e volontà, in potere legislativo e in potere esecutivo; in diritto d'imposta, di giustizia e di guerra; in amministrazione interna e in potere di trattare con l'estero: talvolta ne confondono tutte queste parti, altra volta le separano. Fanno del sovrano un essere fantastico, formato di pezzi cuciti insieme; è come se formassero l'uomo con parecchi corpi, uno dei quali avesse gli occhi, un altro le braccia, un altro i piedi, e niente più. I ciarlatani del Giappone, si dice tagliano in pezzi un fanciullo, sotto gli occhi degli spettatori; poi gettando in aria le membra una dopo l'altra, fanno ricadere il fanciullo vivo e intero. Press'a poco tali sono i giochi di bussolotti dei nostri politici; dopo aver spezzettato il corpo sociale, con un gioco di prestigio degno di una fiera, ne riuniscono i pezzi non si sa come. Quest'errore deriva dal fatto di non essersi formate nozioni precise dell'autorità sovrana, e di aver preso come parti di quest'autorità quelle che erano solo emanazioni di essa. Così, per esempio, l'atto di far la guerra e quello di concluder la pace sono stati considerati atti di sovranità; e non è così, perché ciascuno di questi atti non È una legge, ma soltanto un'applicazione della legge, un atto particolare che determina il caso della legge, come si vedrà con tutta chiarezza quando sarà fissata l'idea contenuta nella parola legge. Seguendo allo stesso modo le altre divisioni, si troverebbe che, tutte le volte che si crede di vedere la sovranità divisa, ci si inganna; che i diritti, che si prendono per parti di questa sovranità, son tutti ad essa subordinati e fanno supporre sempre delle volontà supreme di cui questi diritti danno solo l'esecuzione. Non si potrebbe dire quanto oscurità ha prodotto, in materia di diritto politico, questa mancanza di esattezza nelle opinioni degli autori, quando hanno voluto giudicare dei rispettivi diritti dei re e dei popoli in base ai principi che avevano stabiliti. Ognuno può vedere nel III e nel IV capitolo del primo libro di Grozio1, come questo dotto e il suo traduttore Barbeyrac2 s'ingolfino e si confondano nei loro sofismi, temendo di dir troppo o di non dire abbastanza secondo le loro opinioni, e di urtare gli interessi che dovevano conciliare. Grozio, profugo in Francia, malcontento della sua patria e desideroso di far la corte a Luigi XIII, al quale il libro è dedicato, non risparmia nulla per togliere ai popoli tutti i loro diritti e per attribuirli ai re con tutta l'arte possibile. Così avrebbe desiderato anche Barbeyrac, che dedicava la sua traduzione al re d'Inghilterra Giorgio I. Ma disgraziatamente la cacciata di Giacomo II, ch'egli chiama abdicazione, lo costringeva a mostrarsi prudente, ad andar di traverso, a tergiversare, per no fare di Guglielmo un usurpatore 3. Se questi due scrittori avessero seguito i princìpi veri, tutte le difficoltà sarebbero state eliminate, ed essi sarebbero apparsi sempre conseguenti; ma avrebbero purtroppo detto la verità, facendo la corte soltanto al popolo. La verità non dà la fortuna e il popolo non può dare ambascerie, nè cattedre, nè pensioni.
Se la volontà generale possa errare. Da quanto precede deriva che la volontà generale È sempre retta e tende sempre all'utilità pubblica; non si può però dedurre che le deliberazioni del popolo abbiano sempre la stessa rettitudine. Si vuol sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede: il popolo non si fa corrompere mai, ma spesso lo si inganna, e allora soltanto pare che voglia ciò che È male. Spesso v'È molta differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale; quest'ultima mira solo all'interesse comune; l'altra all'interesse privato e non è che una somma di volontà particolari: ma togliete da queste stesse volontà il più e il meno, che tra loro si annullano, e resta per somma delle differenze la volontà generale, e la deliberazione sarebbe sempre buona. Ma quando si creano fazioni e associazioni parziali a spese della grande, la volontà di ciascuna di queste associazioni diventa generale rispetto ai suoi membri e particolare rispetto allo Stato: si può dire allora che i voti non sono tanti quanti gli uomini, ma tanti quante le associazioni. Le differenze diventano meno numerose e danno un risultato meno generale. Infine, quando una di queste associazioni È così grande da superar tutte le altre, il risultato non È più una somma di piccole differenze, ma un'unica differenza; allora non vi È più volontà generale e il parere che prevale È un parere particolare. Importa dunque, per avere l'espressione della volontà generale, che non vi siano società parziali nello Stato; e che ogni cittadino pensi per conto suo; questa fu l'unica e sublime istituzione del grande Licurgo. Se vi sono società parziali, bisogna moltiplicarne il numero e prevenirne l'ineguaglianza, come fecero Solone, Numa, Servio. Queste sono le sole precauzioni perché la volontà generale sia sempre illuminata e perché il popolo non si sbagli.
La volontà generale è indistruttibile. Finché molti uomini riuniti si considerano come un sol corpo, essi non hanno che una sola volontà la quale riguarda la conservazione comune e il generale benessere. Allora tutte le risorse dello Stato sono operanti e semplici, le sue norme sono chiare e luminose: non ha interessi ingarbugliati e contraddittori; il bene comune si rivela con evidenza dovunque e non c'è bisogno che di buon senso per riconoscerlo. La pace, l'unione, l'eguaglianza sono nemiche delle sottigliezze politiche. E' difficile ingannare gli uomini retti e semplici, proprio per la loro semplicità: le lusinghe, i pretesti ricercati no li conquistano; e non sono abbastanza scoperti per esser presi in giro. Quando si vede che, presso il popolo più felice, masse di contadini regolano gli affari dello Stato sotto una quercia ed agiscono con saggezza, come si può fare a meno di disprezzare la raffinatezza delle altre nazioni, che diventano famose e miserabili con tant'arte e tanto mistero? Un tale Stato ha bisogno di ben poche leggi; e, a mano a mano che diventa necessario promulgarne di nuove, questa necessità È riconosciuta universalmente. Il primo che le propone non fa che dire quel che tutti hanno già pensato e non c'è bisogno di brighe n‚ di eloquenza perchédiventi legge quel che ognuno ha deciso di fare, appena sarà sicuro che gli altri agiranno come lui. Quel che inganna i ragionatori È il fatto di non conoscere che Stati mal costituiti dalle origini, per cui son colpiti dalla impossibilità di mantenervi una tale costituzione. Essi ridono pensando a tutte le sciocchezze che un furbo astuto, un parlatore insinuante potrebbe dare ad intendere al popolo di Parigi o di Londra. Non sanno che Cromwell sarebbe stato fischiato dal popolo di Berna e il duca di Beaufort4 sarebbe messo a posto dai Ginevrini. Ma quando il vincolo sociale comincia a rilassarsi lo Stato ad indebolirsi, quando incominciano ad imporsi gl'interessi particolari e le piccole associazioni ad influire sulle grandi, l'interesse comune si sposta e trova degli oppositori; nei voti non c'è più l'umanità; la volontà generale non è più la volontà di tutti; ci sono contraddizioni, lotte; il parere migliore non passa senza discussioni. Finalmente quando lo Stato, prossimo alla rovina, non esiste che in forma illusoria e vana e il vincolo sociale è spezzato in tutti i cuori e il più vile interesse prende sfacciatamente il nome sacro di bene pubblico, allora la volontà generale si fa muta; tutti, spinti da segreti motivi, non giudicano più come cittadini, ma come se lo Stato non fosse mai esistito; e falsamente si fanno passare col nome di leggi decreti iniqui che non hanno altro fine che l'interesse particolare. Deriva da ciò che la volontà generale sia annullata e corrotta? No: è sempre costante, inalterabile e pura; ma È subordinata ad altre che la schiacciano. Ognuno, staccando il suo interesse dall'interesse comune, vede bene che la separazione non può esser netta; ma la sua parte del male pubblico gli par nulla di fronte al bene privato che vuol raggiungere. Ad eccezione di questo bene particolare, egli, nel suo interesse, vuole il bene generale come ogni altro. Anche se vende il suo voto per denaro, non spegne in sé la volontà generale, ma la elude, La sua colpa è nello spostare la questione e nel rispondere una cosa diversa da quella che gli si chiede: di modo che, invece di dire del suo voto: È vantaggioso allo Stato, dice: è vantaggioso a questo o a quell'uomo, a questo o a quel partito che questa o quella proposta sia approvata. Così la legge dell'ordine pubblico nelle assemblee non è tanto nel mantenere la volontà generale quanto nel fare in modo che sia sempre interrogata e che sempre risponda. Avrei su questo punto tante riflessioni da fare sul semplice diritto di voto in ogni atto di sovranità, diritto che nulla può togliere ai cittadini, e su quello di pensare, proporre, decidere, discutere che il governo ha sempre gran cura di lasciare soltanto ai suoi membri: ma questo argomento richiederebbe un trattato a parte, ed io non posso dir tutto in questo.
|
top |