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Lenin | Proletarskaia revoliutsia, 1929, n.7 in Opere Complete, vol. 23, pag 196, Editori Riuniti
www.resistenze.org 19-03-15 - n. 536
Lettera aperta a Boris Souvarine
dicembre 1916
Il cittadino Souvarine dichiara che la sua lettera si rivolge anche a me. Mi è ancor più gradito rispondergli proprio perché il suo scritto solleva le questioni più importanti del socialismo internazionale. Souvarine considera «apatriottico» il punto di vista di chi ritiene che la «difesa della patria» sia incompatibile con il socialismo. Da parte sua, egli «sostiene» il punto di vista di Turati, Ledebour, Brizon, che, pur votando contro i crediti di guerra, si dichiarano favorevoli alla «difesa della patria», sostiene cioè il punto di vista della tendenza a cui si dà la denominazione di «centro» (ma io direi piuttosto «palude») o kautskismo, dal nome del suo principale esponente teorico, Karl Kautsky. Rileverò, di sfuggita, che Souvarine ha torto quando afferma che «essi [cioè i compagni russi, che parlano di fallimento della II Internazionale] identificano uomini come Kautsky, Longuet, ecc. con nazionalisti come Scheidemann e Renaudel». Né io né il .partito al quale aderisco (CC del POSDR) abbiamo mai identificato le posizioni dei socialsciovinisti con quelle del «centro». Nelle dichiarazioni ufficiali del nostro partito, nel manifesto del CC pubblicato il 1° novembre 1914 e nelle risoluzioni adottate nel marzo 1915 (86) (i due documenti sono riprodotti in extenso nel nostro opuscolo Il socialismo e la guerra, che Souvarine conosce) abbiamo sempre distinto i socialsciovinisti dal «centro». A nostro giudizio, i primi sono passati dalla parte della borghesia. E contro di loro non chiediamo soltanto la lotta, ma anche la scissione. I fautori del «centro» sono invece irresoluti, oscillanti e, con i loro sforzi di unire le masse socialiste ai capi sciovinisti, procurano il massimo danno al proletariato.
Souvarine dice di voler «considerare i fatti dal punto di vista marxista». Senonché, per il marxismo, le formule generali e astratte come l'«apatriottismo» non hanno il minimo valore. La patria, la nazione sono categorie storiche. Se, in una guerra, si tratta di difendere la democrazia o di lottare contro il giogo che opprime la nazione, non sono affatto contrario a una simile guerra e non ho paura dì parole come «difesa della patria», quando si riferiscono a una guerra di questo genere o all'insurrezione. I socialisti si schierano sempre con gli oppressi e non possono, quindi, avversare una guerra che abbia per scopo la lotta democratica o socialista contro l'oppressione. In tal senso, sarebbe addirittura ridicolo negare la legittimità delle guerre del 1793, delle guerre della Francia contro le monarchie reazionarie europee, o delle guerre garibaldine, ecc. Ma sarebbe altrettanto ridicolo negare la legittimità delle guerre dei popoli oppressi contro i loro oppressori che potrebbero divampare nel presente, come, ad esempio, l'insurrezione degli irlandesi contro l'Inghilterra, l'insurrezione del Marocco contro la Francia, dell'Ucraina contro la Russia, ecc.
Dal punto di vista del marxismo, bisogna determinare in ogni singolo caso, per ogni singola guerra, il suo contenuto politico.
Ma come definire il contenuto politico di una guerra? La guerra è soltanto la continuazione della politica. Ora, quale politica viene continuata dalla guerra in corso? La politica del proletariato, che tra il 1871 e il 1914 è stato l'unico rappresentante del socialismo e della democrazia in Francia, in Inghilterra e in Germania, o, piuttosto, la politica imperialistica, la politica della rapina coloniale e dell'oppressione dei popoli deboli da parte della borghesia reazionaria, che volge al tramonto e sta per soccombere?
Basta porre il problema in modo preciso e corretto per avere una risposta assolutamente chiara: la guerra in corso è una guerra imperialistica; è una guerra fra schiavisti, che si contendono il bestiame da lavoro e vogliono consolidare e perpetuare la schiavitù. È la guerra di «brigantaggio capitalistico» di cui parlava Jules Guesde nel 1899, condannando in anticipo il suo futuro tradimento. Guesde diceva allora: «Ci sono anche altre guerre... che scoppiano ogni giorno: sono le guerre per i mercati di sbocco. In tal senso, la guerra non solo non scompare, ma minaccia di diventare permanente, è la guerra capitalistica per eccellenza, la guerra per il profitto fra i capitalisti di tutti i paesi, che si contendono, a prezzo del nostro sangue, il mercato mondiale. Ebbene, ve l'immaginate, nel governo capitalistico di ciascun paese d'Europa, un socialista che capeggia questa sorta di massacro a fini di rapina? Ve li figurate, accanto al Millerand francese, un Millerand inglese, un Millerand italiano e un Millerand tedesco che trascinano i proletari gli uni contro gli altri in questo brigantaggio capitalistico? Lo chiedo a voi, compagni, che cosa resterebbe della solidarietà internazionale operaia? Il giorno in cui il caso Millerand sarà divenuto un fenomeno generale bisognerà dire "addio" a qualsiasi internazionalismo e diventare quei nazionalisti che né io né voi accetteremo mai di essere» (cfr. En garde! di Jules Guesde, Paris, 1911, pp. 175-176).
Non è vero che nella guerra del 1914-1917 la Francia lotti per la libertà, per l'indipendenza nazionale, per la democrazia, ecc. Essa lotta per conservare le proprie colonie, per conservare le colonie dell'Inghilterra, sulle quali la Germania avrebbe assai più diritti: dal punto di vista del diritto borghese, si capisce. La Francia lotta per assicurare alla Russia Costantinopoli, ecc. In questa guerra non è impegnata la Francia democratica e rivoluzionaria, la Francia del 1792 e del 1848, la Francia della Comune. In essa è impegnata la Francia borghese, la Francia reazionaria, alleata e amica dello zarismo, la Francia «usuraia del mondo» (l'espressione non è mia, ma di Lysis, collaboratore dell'Humanité), che difende il suo bottino, il suo «sacro diritto» alle colonie e alla «libertà» di sfruttare il mondo intero con i miliardi dati in prestito alle nazioni deboli o meno ricche.
Non venite a dire che è difficile distinguere le guerre rivoluzionarie dalle guerre reazionarie. Volete che, oltre al criterio scientifico che ho qui delineato, ne indichi anche uno puramente pratico e accessibile a tutti?
Eccolo: ogni guerra di qualche importanza viene preparata in un certo numero di anni. Quando si prepara una guerra rivoluzionaria, i democratici e i socialisti non hanno paura di dichiarare in anticipo che essi sono favorevoli alla «difesa della patria», in un conflitto di questo genere. Ma, quando si prepara una guerra reazionaria, nessun socialista deciderà in anticipo, cioè prima che la guerra venga dichiarata, di schierarsi per la «difesa della patria».
Marx e Engels non ebbero timore di chiamare il popolo tedesco alla guerra contro la Russia nel 1848 e nel 1859. E invece, nel 1912, a Basilea, i socialisti non hanno osato parlare di «difesa della patria» per la guerra di cui già prevedevano lo scoppio e che, in effetti, è scoppiata nel 1914. Il nostro partito non ha paura di dichiarare pubblicamente che accoglierà con simpatia le guerre o le insurrezioni che l'Irlanda potrebbe intraprendere contro l'Inghilterra; il Marocco, l'Algeria e la Tunisia contro la Francia; Tripoli contro l'Italia; l'Ucraina, la Persia e la Cina contro la Russia, ecc.
E i socialsciovinisti? E i «centristi»? Hanno essi il coraggio di dichiarare apertamente e ufficialmente che sono o saranno per la «difesa della patria» nel caso, ad esempio, in cui scoppi una guerra fra il Giappone e gli Stati Uniti, guerra imperialistica per eccellenza, che minaccia centinaia di milioni di uomini e viene ormai preparata da decenni? Si arrischino a farlo! Sono pronto a scommettere che non lo faranno, perché sanno troppo bene che, facendolo, diventerebbero lo zimbello delle masse operaie, sarebbero da esse fischiati e verrebbero espulsi dai partiti socialisti. Ecco perché i socialsciovinisti e i «centristi» eviteranno in proposito ogni dichiarazione precisa e continueranno a menare il can per l'aia, a mentire, a ingarbugliare la matassa, a trarsi d'impaccio con sofismi come quello adottato nel 1915, dall'ultimo congresso del partito francese: «Un paese aggredito ha diritto di difendersi».
Come se la sostanza fosse di sapere chi abbia attaccato per primo e non di determinare le cause della guerra, i fini che essa sì propone e le classi che la conducono. Si può, ad esempio, concepire che dei socialisti sani di mente riconoscessero all'Inghilterra il diritto di «difendere la patria» nel 1796, quando cioè le armate rivoluzionarie francesi stavano per fraternizzare con gli irlandesi? Eppure, in quel momento, era proprio la Francia ad aggredire l'Inghilterra, e un'armata francese si preparava a sbarcare in Irlanda. E si potrebbe, domani, riconoscere il diritto di «difendere la patria» alla Russia e all'Inghilterra, se, dopo le lezioni ricevute dalla Germania, fossero attaccate dalla Persia alleata con l'India, con la Cina e con altri popoli rivoluzionari dell'Asia, impegnati a realizzare il loro 1789 e il loro 1793?
È questa la mia risposta alla ridicola accusa che ci è stata mossa di condividere le idee di Tolstoi. Dichiarando che i socialisti devono tendere a trasformare la guerra in corso in guerra civile del proletariato contro la borghesia e per il socialismo, il nostro partito ha ripudiato sia la dottrina tolstoiana che il pacifismo.
Se mi direte che si tratta di un'utopia, vi replicherò che, evidentemente, la borghesia francese, inglese, ecc. non condivide la vostra opinione, poiché in effetti non avrebbe cominciato a recitare la sua odierna commedia abietta e ridicola, giungendo a imprigionare o a mobilitare i «pacifisti», se non presentisse e non prevedesse l'inarrestabile e incessante ascesa della rivoluzione e la sua esplosione imminente.
Veniamo cosi al problema della scissione, sollevato anche da Souvarine. Scissione! È lo spauracchio con cui i capi socialisti cercano di spaventare gli altri, ma di cui hanno essi stessi una gran paura! «A che gioverebbe oggi - dice Souvarine - creare una nuova Internazionale, la cui azione sarebbe affetta da sterilità, a causa della sua debolezza numerica?»
Eppure, proprio l'«azione» di Pressemane e Longuet in Francia, di Kautsky e Ledebour in Germania, come confermano i fatti di tutti i giorni, è affetta da sterilità e appunto perché essi hanno paura della scissione!. E, proprio perché, in Germania, K. Liebknecht e O. Rühle non hanno avuto paura della scissione, ne hanno proclamato apertamente la necessità (cfr. la lettera di Ruhle al Vorwàrts del 12 gennaio 1916) e non hanno esitato a realizzarla, la loro azione assume grande importanza per il proletariato, nonostante la loro debolezza numerica. Liebknecht e Rühle sono 2 contro 108. Ma questi due rappresentano milioni di uomini, le masse sfruttate, la stragrande maggioranza della popolazione, il futuro dell'umanità, la rivoluzione che avanza e matura di giorno in giorno. I 108 rappresentano invece lo spirito servile di un piccolo pugno di lacchè della borghesia in seno al proletariato. L'azione di Brizon è affetta da sterilità, quando egli partecipa della debolezza del centro o palude. Ma la sua azione non è più sterile, organizza il proletariato, lo risveglia e lo scuote, quando Brizon spezza nei fatti l'«unità» e quando in parlamento urla con coraggio «abbasso la guerra!» o quando proclama in pubblico la verità, dicendo che gli alleati combattono per dare Costantinopoli alla Russia.
Gli internazionalisti veramente rivoluzionari sono numericamente deboli? Discutiamone! Prendiamo come esempi la Francia del 1870 e Ja Russia del 1900. I rivoluzionari coscienti e risoluti, che nel primo caso erano i rappresentanti della borghesia, - la classe rivoluzionaria dell'epoca, - mentre nel secondo caso erano i rappresentanti del proletariato, - la classe rivoluzionaria del nostro tempo, - erano numericamente molto deboli. Erano dei singoli, che costituivano al massimo la diecimillesima o persino la centomillesima parte della propria classe. Ma dopo qualche anno quegli stessi individui, quella stessa minoranza cosi insignificante a prima vista, trascinarono con sé le masse, milioni e decine di milioni di uomini. Perché? Perché quella minoranza rappresentava i reali interessi delle masse, aveva fiducia nell'imminente rivoluzione, era pronta a servirla con coraggio.
Debolezza numerica? Ma da quando in qua i rivoluzionari farebbero dipendere la loro politica dal fatto di essere in maggioranza o in minoranza? Quando, nel novembre 1914, il nostro partito proclamò la necessità della scissione dagli opportunisti (87) dichiarando che una tale scissione sarebbe stata l'unica risposta giusta e degna al loro tradimento dell'agosto 1914, questa dichiarazione sembrò a molti solo una stravaganza settaria di gente che aveva perduto ogni contatto con la vita e con la realtà. Sono passati due anni, e potete ben vedere quel che succede. In Inghilterra la scissione è un fatto compiuto; il socialsciovinista Hvndman ha dovuto lasciare il partito. In Germania la scissione si sviluppa sotto gli occhi di tutti. Le organizzazioni di Berlino, di Brema e di Stoccarda hanno avuto perfino l'onore di essere espulse dal partito... dal partito dei lacchè del Kaiser, dal partito dei Renaudel, dei Sembat, dei Thomas, dei Guesde tedeschi. E in Francia? Da un lato, il partito di questi signori afferma che continuerà a sostenere la «difesa della patria»; dall'altro, gli zimmerwaldiani, nell'opuscolo intitolato I socialisti di Zimmerwald e la guerra, dichiarano che non è da socialisti «difendere la patria». Non è questa una scissione?
E come potrebbero lavorare coscienziosamente l'uno accanto all'altro, nello stesso partito, uomini che, dopo due anni di crisi, della più grande crisi mondiale, rispondono in maniera diametralmente opposta alla questione più importante della tattica attuale del proletariato?
Date uno sguardo all'America, cioè ad un paese che è oltretutto neutrale. Non è forse cominciata anche là una scissione? Mentre, da una parte, Eugene Debs, il «Bebel americano», afferma sulla stampa socialista che riconosce un solo genere di guerra, la guerra civile per la vittoria del socialismo, e che preferirebbe essere fucilato anziché votare anche un solo cent per le spese di guerra dell'America (cfr. Appeal to reason, n. 1032, 11 settembre 1915); dall'altra parte, i Renaudel e i Sembat americani proclamano la «difesa della patria» e si dichiarano «pronti alla guerra». I Longuet e i Pressemane americani fanno tutto il possibile - poverini! - per conciliare i social-sciovinisti con gli internazionalisti rivoluzionari.
Esistono già due Internazionali. Quella di Sembat-Sùdekum-Hyndman-Plekhanov, ecc., e quella di K. Liebknecht, di MacLean (maestro scozzese, condannato ai lavori forzati dalla borghesia inglese per aver appoggiato la lotta di classe degli operai), di Höbglund (deputato svedese, che è stato uno dei fondatori della «sinistra di Zimmerwald», condannato ai lavori forzati per la sua agitazione rivoluzionaria contro la guerra), dei cinque deputati alla Duma di Stato, condannati alla deportazione perpetua in Siberia per la loro agitazione contro la guerra, ecc. C'è, da una parte, l'Internazionale di coloro che aiutano i propri governi nella guerra imperialistica, e, dall'altra, l'Internazionale di coloro che guidano la lotta rivoluzionaria contro questa guerra. E l'eloquenza dei ciarlatani parlamentari o la «diplomazia» degli «uomini di Stato» del socialismo non potranno comunque unificare le due Internazionali. La II Internazionale ha fatto il suo tempo. La III Internazionale è già nata. E, se non è stata ancora consacrata dai gran sacerdoti e pontefici della II Internazionale, ma semmai maledetta (si vedano i discorsi di Vandervelde e di Stauning), questo non le impedisce di acquistare ogni giorno forze nuove. La III Internazionale darà modo al proletariato di liberarsi degli opportunisti e guiderà le masse alla vittoria nella rivoluzione sociale che sta maturando e si approssima.
Prima di concludere, devo dire qualcosa sugli aspetti personali della polemica di Souvarine. Egli chiede (ai socialisti residenti in Svizzera) di moderare le critiche personali nei confronti di Bernstein, Kautsky, Longuet, ecc. Per parte mia, devo dichiarare che non posso accedere a una tale richiesta. E, prima di tutto, farò rilevare a Souvarine che, quando polemizzo con i «centristi», non faccio una critica alle persone, ma solo una critica politica. L'ascendente dei signori Südekum, Plekhanov, ecc. sulle masse non può più essere assicurato: il loro prestigio è ormai cosi compromesso dappertutto che la polizia deve accorrere per proteggerli. Ma i «centristi», con la loro propaganda dell'«unità» e della «difesa della patria», con il loro desiderio di conciliazione, con i loro tentativi di mascherare verbalmente le divergenze più profonde, danneggiano seriamente il movimento operaio, ritardando il crollo definitivo dell'autorità morale dei socialsciovinisti, prolungando la loro influenza sulle masse, rianimando il cadavere degli opportunisti della II Internazionale. Per tutte queste considerazioni ritengo che la lotta contro Kautsky e gli altri esponenti del «centro» sia per me un dovere socialista.
Souvarine rivolge, tra gli altri, il suo «discorso a Guilbeaux, a Lenin e a tutti quelli che godono del privilegio di trovarsi al di sopra della mischia, un privilegio che spesso consente di giudicare sanamente gli uomini e le cose del socialismo, ma che comporta, forse, qualche inconveniente».
L'allusione è chiarissima. Ledebour manifestò a Zimmerwald la stessa opinione con minori tortuosità, accusando gli «zimmerwaldiani di sinistra» di lanciare dall'estero i propri appelli rivoluzionari alle masse. Darò al cittadino Souvarine la stessa risposta che ho dato a Ledebour durante la conferenza di Zimmerwald. Sono trascorsi ventinove anni dal giorno del mio arresto in Russia. E in questi ventinove anni non ho smesso un istante di lanciare appelli rivoluzionari alle masse. L'ho fatto dal carcere, dalla Siberia e, più tardi, dall'estero. Mi è capitato spesso di trovare nella stampa rivoluzionaria, come nelle requisitorie dei procuratori zaristi, «allusioni» alla mia mancanza di onestà, per il fatto di lanciare dall'estero appelli rivoluzionari alle masse della Russia. Queste «allusioni» da parte dei procuratori zaristi non possono stupire. Confesso, tuttavia, che mi aspettavo altri argomenti da parte di Ledebour. Forse, Ledebour ha dimenticato che anche Marx e Engels, scrivendo nel 1847 il celebre Manifesto del partito comunista, lanciavano dall'estero appelli rivoluzionari agli operai tedeschi! La lotta politica è spesso impossibile senza l'emigrazione dei rivoluzionari. La Francia l'ha sperimentato più di una volta. E il cittadino Souvarine avrebbe fatto meglio a non imitare il cattivo esempio di Ledebour e... dei procuratori zaristi.
Souvarine dice inoltre che Trotski, «che noi [minoritari francesi] consideriamo uno degli elementi più estremisti dell'estrema sinistra dell'Internazionale, viene da Lenin tacciato di sciovinismo. Si vorrà convenire che si tratta di un'esagerazione».
Si, è vero, «si tratta di un'esagerazione»; solo che non viene da me, ma da Souvarine. Io, infatti, non ha mai tacciato di sciovinismo la posizione di Trotski. La sola cosa che gli ho rimproverato è di aver rappresentato troppo spesso, in Russia, la politica del «centro». Ecco i fatti. Dal gennaio 1912 la scissione del POSDR è ufficiale (88). Il nostro partito (che si raggruppa attorno al CC) accusa di opportunismo l'altro gruppo, quello del Comitato d'organizzazione, i cui dirigenti più illustri sono Martov e Axelrod. Trotski aderisce al partito di Martov e ne esce soltanto nel 1914. Scoppia la guerra. Il gruppo della nostra corrente alla Duma, composto di cinque deputati (Muranov, Petrovski, Sciagov, Badaiev, Samoilov), viene deportato in Siberia. A Pietrogrado i nostri operai votano contro la partecipazione ai comitati dell'industria di guerra (che è per noi la questione pratica più importante; in Russia tale questione è altrettanto importante quanto quella della partecipazione al governo in Francia). In pari tempo, i pubblicisti più noti e autorevoli del Comitato d'organizzazione - Potresov, Zasulic, Levitski e altri - si pronunciano per la «difesa della patria» e la partecipazione ai comitati dell'industria di guerra. Martov e Axelrod protestano e si dichiarano contrari alla partecipazione a questi comitati, ma non rompono con il loro partito, anche se una sua frazione, divenuta sciovinistica, accetta tale partecipazione. Cosi, a Kienthal, rimproveriamo a Martov di voler rappresentare tutto il Comitato d'organizzazione, mentre di fatto ne può rappresentare soltanto una frazione. La rappresentanza di questo partito alla Duma (Ckheidze, Skobelev e altri) si divide. Una parte di deputati è favorevole alla «difesa della patria», l'altra è contraria. Ma tutti i deputati accettano la partecipazione ai comitati dell'industria di guerra e usano l'ambigua formula della necessità di «salvare la patria», che è in sostanza, pur se espressa diversamente, la parola d'ordine della «difesa della patria» di Südekum e di Renaudel. Per di più essi non protestano affatto contro la posizione di Potresov (che è di fatto analoga a quella di Plekhanov; Martov protesta pubblicamente contro Potresov e si rifiuta di collaborare alla sua rivista, perché questi a invitato a collaborarvi Plekhanov).
E Trotski? Pur avendo rotto coi partito di Martov, continua ad accusarci di scissionismo. Si sposta pian piano verso sinistra e propone perfino di romperla con i capi dei socialsciovinisti russi, ma non ci dice una volta per tutte se voglia l'unità o la scissione con il gruppo Ckheidze. Senonché, la questione è molto importante. Se domani si farà la pace, dopodomani avremo nuove elezioni per la Duma. E dovremo decidere subito se marciare con Ckheidze o contro di lui. Noi siamo contrari a tale alleanza. Martov è favorevole. E Trotski? Non si sa. Nei suoi 500 numeri il giornale russo di Parigi, il Nasce slovo, della cui redazione fa parte anche Trotski, non ha ancora detto la parola decisiva. Ecco perché non c'intendiamo con Trotski.
Del resto, non siamo solo noi in causa. A Zimmerwald Trotski si è rifiutato di unirsi alla «sinistra». Trotski e la compagna Roland-Holst rappresentavano a Zimmerwald il «centro». Ed ecco che cosa scrive oggi la compagna Roland-Holst nel giornale socialista olandese Tribune (n. 159 del 23 agosto 1916): «Coloro che, come Trotski e il suo gruppo, vogliono condurre una lotta rivoluzionaria contro l'imperialismo devono superare le conseguenze dei dissensi propri dell'emigrazione, che sono in gran parte di carattere personale e dividono l'estrema sinistra, e devono unirsi ai leninisti. Un "centro rivoluzionario" è impossibile».
Chiedo scusa per aver parlato cosi a lungo dei nostri rapporti con Trotski e Martov, ma la stampa socialista francese ne discorre abbastanza spesso e le informazioni che fornisce ai suoi lettori sono spesso molto inesatte. E indispensabile che i compagni francesi siano meglio informati sulle vicende del movimento socialdemocratico in Russia.
Scritta nella seconda metà del dicembre 1916. Pubblicata per la prima volta in francese, con tagli, nel giornale La vérité, n. 48, 27 gennaio 1918. Pubblicata per la prima volta in russo, integralmente, in Proletarskaia revoliutsia, 1929, n. 7.
Note:
86) Cfr. La guerra e la socialdemocrazia russa e Conferenza delle sezioni estere del POSDR nel v. 21 della presente edizione. 87) Cfr. La guerra e la socialdemocrazia russa nel v. 21 della presente edizione. 88) I menscevichi furono espulsi dal partito alla sesta conferenza del POSDR, che si riunì a Praga il 18-30 gennaio 1912 e delineò la linea politica e la tattica del partito bolscevico nella nuova situazione rivoluzionaria. Questa conferenza forni agli elementi rivoluzionari degli altri partiti della II la Internazionale un modello di lotta conseguente contro l'opportunismo, spinta fino alla scissione organizzativa. Sulla conferenza di Praga si vedano i documenti raccolti nel v. 17 della presente edizione. |
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