La casta dell'acqua Nuovi Mondi, Modena, 2010 Tratto da http://www.tecalibri.it/ |
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1 Introduzione È il 4 maggio 2006 quando l'Italia viene scossa da un inatteso coming out. "Mi faccio il bagno una volta a settimana", confessa Fulco Pratesi. E non è finita: "Con mia moglie facciamo a turno a tirare lo sciacquone". L'ambientalista, da una vita uomo simbolo del WWF, mette a nudo le sue abitudini e le sue abluzioni sulle pagine del Corriere della Sera, scatenando un acceso dibattito (e non poche risate). Pratesi consiglia anche di usare un catino per tirare l'acqua nel WC - "si spreca meno" - e si ferma solamente sulla soglia del sacro vincolo dell'ospitalità: gli invitati possono stare tranquilli, lui non fa come il sindaco di Londra Ken Livingstone, che impone l'austerity dello sciacquone a chiunque entri in casa. "Questo magari è troppo", sussurra Fulco. Ironia a parte, all'insolita rivelazione va quantomeno riconosciuto il merito di aver sollevato la questione dello spreco d'acqua. Al di là delle buone intenzioni, tuttavia, se la prospettiva è quella di un ultrà dell'ambiente più che di un esperto della natura, il dibattito rischia di arenarsi immediatamente in uno sterile muro contro muro. Il presidente del WWF, da bravo ambientalista, si preoccupa del livello dei fiumi e dei mari, ma dimentica che è proprio nei fiumi che va a finire l'acqua dei nostri scarichi. Casomai, bisogna chiedersi se sia correttamente depurata, se l'equilibrio dei bacini idrografici venga rispettato. Davvero non possiamo permetterci di tirare lo sciacquone? In realtà, l'acqua dolce presente sulla Terra, stando alle stime, basta e avanza per dissetare l'umanità; quando si parla del liquido di cui la vita ha tanto bisogno, tuttavia, neanche concetti quali abbondanza o scarsità riescono a sottrarsi all'inafferrabile prospettiva della relatività. In generale l'acqua c'è; che sia tanta o poca dipende da quanta ne serve in un dato luogo o momento. Quel liquido trasparente e incolore, infatti, pesa dannatamente e per raggiungere i nostri rubinetti deve compiere viaggi più o meno lunghi. Milano, ad esempio, non soffre di particolari problemi di approvvigionamento. Ma se tutti i rubinetti della città, industriali e civili, venissero aperti all'unisono, non c'è dubbio che anche la capitale economica d'Italia sperimenterebbe l'arsura che gli abitanti di alcuni quartieri di Agrigento sono costretti a sopportare estate dopo estate. Fulco Pratesi si lava con moderazione, convinto che si tratti di un'abitudine salutare: "Non siamo così sporchi, anzi più uno si lava e più attiva certi processi di reazione della pelle. Il cavallo mica si fa il bagno, eppure profuma di petunia". E, nella sua invettiva anticonsumistica e naturalista, il presidente del WWF spiega che si è anche attrezzato con un bel frutteto in terrazzo: "Un albicocco, un melo, un ciliegio, un fico, un limone e un lampone". La frutta fresca piace a tutti, no? Quindi Pratesi coltiva e annaffia, al piano alto di un edificio, in un elegante quartiere del centro storico di Roma. Se si va a guardare la bolletta idrica del nostro paese, però, si scoprirà che i consumi più elevati sono proprio quelli dell'agricoltura, un settore che "beve" molto più dei nostri sciacquoni: d'estate gli alberi da frutta possono inghiottire fino a un paio di litri d'acqua al giorno. E, anche se l'acqua c'è, il problema riguarda costi e benefici: trasportarla per irrigare fino all'attico di una palazzina non risponde certo ai criteri di risparmio che Pratesi adotta per il resto dei suoi consumi domestici. Quando aprite il rubinetto, tenete a mente questo concetto elastico ed economico relativo alla carenza di acqua; altrimenti finirete per ragionare da tifosi, ignorando i dati di fatto e scontrandovi solamente sulla base di premesse ideologiche. Il che, in fin dei conti, è lo sport più diffuso in Italia, e il più nocivo per l'ambiente. Decidere come gestire al meglio l'acqua, però, non è come urlare dagli spalti dello stadio: in campo non ci sono le nostre squadre di calcio preferite, ed è molto difficile che le soluzioni migliori possano saltar fuori come prodotto di una tenzone intellettuale tra la compagine degli ultrà liberisti e quella dei pasdaran statalisti. Qui bisognerà sporcarsi le mani maneggiando qualche numero, provare addirittura a masticare qualche dato di fatto. Sì, è vero: talvolta gli strumenti di comprensione intralciano il sottile piacere della sfida retorica. Si sa che a noi che abbiamo sempre le idee chiare a priori, a noi che su qualsiasi argomento abbiamo sempre un'opinione pronta - possibilmente classificabile come di destra o di sinistra, e comunque sempre un po' di centro - fatti, numeri e strumenti fanno un po' schifo. Ma stavolta non c'è niente da fare, dobbiamo almeno provarci. La prima cifra di cui abbiamo bisogno riguarda la suddivisione del consumo. Il 60 per cento del prelievo idrico è destinato all'agricoltura, il 16 per cento all'uso civile e il restante 24 per cento al settore industriale, nel quale è compresa anche la produzione di energia elettrica. Naturalmente, questo non significa che nelle case italiane docce e sciacquoni siano gestiti senza sprechi: al contrario, nella nostra penisola il prelievo medio per l'ambito domestico è pari a 267 litri al giorno pro capite, ed è il più alto in Europa (rispetto ai 156 litri della Francia o ai 162 dell'Austria). Città come Milano, ma anche Bari, mostrano consumi compresi tra i 500 e i 600 litri al giorno per abitante, un record nel continente. Milanesi e baresi devono dunque iniziare a procurarsi il catino del WWF e mettere i sigilli allo sciacquone? È certo che la disponibilità d'acqua dipende da un equilibrio tra domanda e offerta che si sorregge anche su un uso non dissennato della risorsa idrica nelle nostre case, per quanto queste non siano il primo luogo di consumo. In ogni caso, è possibile installare in casa rubinetterie più efficienti e non ha senso lasciar correre l'acqua quando non serve; per tornare alla questione degli sciacquoni, poi, si vanno diffondendo quelli a doppio rilascio, una soluzione che permette di tirare l'acqua a volontà mantenendo pulita anche la coscienza. Resta il fatto che è senz'altro più importante evitare opere che, deviando fiumi e prosciugando bacini sotterranei, mettano in crisi la capacità di autoalimentarsi del ciclo dell'acqua: troppo cemento frena l'assorbimento delle piogge da parte del terreno, che fa parte di questo ciclo, prosciugando le falde acquifere. Inoltre, se sensibilizzare gli utenti a evitare gli sprechi è un fatto positivo, siamo sicuri che la strada giusta passi per il terrorismo psicologico, per i sensi di colpa sul futuro del pianeta, per la richiesta di stravolgere abitudini consolidate? Rinunciando a una doccia a Roma non si regala automaticamente qualche litro d'acqua in più a chi vive in Mauritania. Pubblicando ogni giorno un articolo sulla sparizione delle farfalle o sull'estinzione delle api da qui al 2050, si rischia di provocare anche una reazione di rigetto o come minimo di assuefazione all'allarmismo. Soprattutto se poi il lettore va al supermercato e scopre che il miele, prodotto dalle api, continua a essere disponibile come sempre. Sull'altro versante, quello che alla lotta ambientalista preferisce l'efficientismo liberista, si suggerisce che un buon metodo per educare a non sprecare consista nell'alzare il costo dell'acqua. "Una parte dell'inefficienza del settore idrico", scrive l'ex-ministro Paolo De Castro su Silvae, la rivista del Corpo forestale, "sicuramente si spiega con le tariffe per i servizi idrici, tra le più basse in Europa. Un rapporto dell'OECD (1999) indica che il prezzo d'acqua potabile in Italia alla fine del ventesimo secolo era inferiore più di due volte rispetto alla Polonia, più di tre volte rispetto alla Grecia e alla Francia, più di cinque volte rispetto all'Austria, e più di sette volte rispetto alla Germania. Ancora oggi, nel settore agricolo, i prezzi pagati dagli agricoltori pugliesi sono dello stesso ordine di grandezza dei prezzi dell'acqua in Turchia o in Giordania, dove i costi di produzione agricola sono molto più bassi di quelli italiani". Queste premesse sono state alla base del processo di privatizzazione della gestione dell'acqua in Italia. Ma lo stesso De Castro parla dell'acqua come di una "risorsa fragile e non rinnovabile". Se davvero non fosse rinnovabile, però, a che cosa servirebbe farla pagare di più? A consumarla più lentamente, allontanando così il momento della nostra morte certa per sete? Il fatto è che l'acqua, invece, si rinnova. Quando piove gli invasi si riempiono. Un aumento ragionevole della bolletta può quindi essere giustificato se serve a investire nel miglioramento delle infrastrutture, che permettono a loro volta di gestire meglio l'acqua e di mantenere in equilibrio le risorse e il ciclo dell'evaporazione e della pioggia. Se invece il ragionamento dei sacerdoti del mercato parte da rincari automatici per allinearci alle tariffe vigenti nel resto dell'Europa (il nuovo egualitarismo geografico), sgancia i profitti così generati dagli investimenti che servono a proteggere le nostre riserve e consegna il tutto in mano ad aziende legittimamente interessate solo al profitto. Assumendo dogmaticamente che privato è meglio di pubblico in ogni situazione, si rischia di creare un circolo vizioso quanto quello dei mullah dell'ecologismo radicale. Alla fine si rischia che ad annegare sia l'utente, costretto a scegliere tra la retorica della morte per sete globale e quella della morte per dissanguamento del portafogli. Ma davvero non c'è alternativa in questo derby? Per capirlo, è necessario andare a vedere le strategie di gioco che le due squadre stanno adottando in Italia. E i risultati sul campo di una partita ancora apertissima. Pagina 87 12 La rivolta si espande nell'ombra Ad Arezzo, una delle città dove l'acqua è più cara in Italia, la società Nuove Acque (un'altra partecipata da capitale pubblico) continua a giurare ai suoi utenti che è tra le più economiche. Nel frattempo gioca con l'assetto societario: l'azionista privato Iride, ex-AMGA di Genova, ha ceduto una quota del 35 per cento ad ACEA che, solo decima nella gara d'appalto per la gestione del servizio, entra così lo stesso nell'affare. In barba a una norma di governance che prevede l'assenso del socio pubblico per l'eventuale cessione di quote private. Il socio pubblico però, tace: sono i cittadini a protestare. Restiamo in Toscana, nella coscienziosa Firenze in cui, dopo un anno di campagna del comune per il risparmio dell'acqua, i consumi diminuiscono. Ma non tutti brindano al successo: la società di gestione Publiacqua, mista pubblico privato, invia una lettera agli utenti informandoli che a causa della diminuzione degli introiti potrebbe vedersi costretta a ritoccare al rialzo le tariffe. Più a sud, l'Acquedotto pugliese non versa in condizioni migliori: è bombardato da critiche per aver contratto un debito da 165 milioni di sterline "coperto" da un contratto derivato, un prodotto finanziario ad alto rischio. Rischio che potrebbe finire per tramutarsi in una perdita disastrosa, visto che già all'inizio del 2009 il contratto con la banca d'affari Merrill Lynch era stato stimato in perdita per 40 milioni di euro. Anche nelle isole succedono cose strane: a Palermo accade per esempio che il consiglio comunale voti un "no" unanime alla richiesta di aumento delle tariffe avanzata dal gestore, Acque potabili siciliane. E che poi, nell'assemblea dell'Autorità d'ambito, l'aumento venga comunque approvato, con il voto favorevole anche di Palermo. Com'è possibile che il dirigente del comune del capoluogo siciliano, che lo rappresenta in assemblea, decida di ignorare un voto unanime del consiglio comunale? Succede anche questo, quando c'è l'acqua di mezzo. A Nola l'arroganza del gestore delle risorse idriche, la società Gori, ricorda il comportamento di Acqualatina: a fronte di una controversia con gli abitanti del grosso centro del salernitano, la società decide infatti, senza nemmeno avvisare il sindaco, di strozzare i rubinetti dei ribelli diminuendo la pressione dell'acqua. Da nord a sud, in tutta Italia si registrano paradossi come questi. E Aprilia non è certo l'unica città che abbia deciso di non accettare supinamente le condizioni imposte dall'alto. Lungo tutto lo Stivale l'acqua ribolle di contestazioni. Anzi, è proprio questo l'aspetto sorprendente: apri un giornale, guardi un TG e senti parlare di proteste per il lavoro, per la casa, per i prezzi troppo alti, per i disservizi della telefonia. Dell'acqua si parla tutto sommato poco, eppure la contestazione è incredibilmente capillare. Delle bollette alte, dei disservizi e del trattamento arrogante riservato dai gestori ai propri utenti ci si lamenta ad Aprilia come a Leonforte, nell'ennese, in Toscana come in Puglia e ad Agrigento. Nell'era della rete, le notizie delle ribellioni locali si moltiplicano e si diffondono, echeggiandosi le une con le altre; e non mancano forme più alte di coordinamento: riuniscono i sindaci che si rifiutano di consegnare gli acquedotti alle società di gestione, i cittadini che firmano per referendum regionali promossi nell'intento di bloccare la riforma del sistema idrico, i movimenti di ispirazione no global che ripetono dappertutto lo slogan dell'"acqua pubblica". Se i mezzi di informazione ne parlano distrattamente, ci pensa il Web a veicolare notizie e iniziative. Il forum on line che riunisce i diversi movimenti italiani dell'acqua, all'indirizzo www.acquabenecomune.org , è incredibilmente ricco. La peculiarità di Aprilia risiede più che altro nel coinvolgimento di una fascia così vasta di popolazione, e nella scarsa connotazione ideologica della protesta. Che è invece, a mio parere, il punto debole del movimentismo, spesso imbevuto di retorica sulle "guerre dell'acqua" e di un'avversione precostituita per le multinazionali. Che si possono criticare, ovviamente; tuttavia, identificarle con il "male assoluto" rischia di ghettizzare la protesta, di incanalarla in una prospettiva velleitaria, almeno finché esisterà il capitalismo. Dietro la rivolta dell'acqua che inonda silenziosamente l'Italia, comunque, non cì sono solo slogan: ci sono amministratori comunali che si muovono usando le armi della politica; ci sono associazioni e singoli che si muovono nei tribunali, con gli strumenti del diritto; ci sono economisti e altri esperti che analizzano lucidamente i pro e i contro di una riforma nata sulla spinta di obiettivi condivisi, e che poi si è persa per strada. Abbiamo già citato alcune delle tante sentenze favorevoli a chi, nel privato, contrasta un sistema troppo spesso inefficiente e inefficace. Anche sul fronte politico sono in tanti a muoversi: in Puglia, per esempio, una "santa alleanza" di 38 comuni e due province, Lecce e Bari, preme per ottenere lo stop all'ingresso dei privati. Delibere all'insegna del motto "l'acqua è nostra e ce la gestiamo noi" sono state approvate praticamente in tutta Italia, da giunte di ogni colore. Pagina 129 16 La sfida dell'acqua del sindaco Non farà fare plin plin, ma "chi non le beve tutte, beve l'acqua del rubinetto", come recitava un cartellone affisso sugli autobus di Firenze nel 2005. Il duello a colpi di spot è iniziato già da qualche anno, gli acquedotti sfidano lo strapotere della minerale: il primo cittadino di Venezia, Massimo Cacciari, ha messo la sua faccia barbuta in un manifesto nel quale si versa un bel bicchiere da una brocca sopra lo slogan, a dire il vero non proprio campione d'originalità, "Anch'io bevo l'acqua del sindaco". Decisamente più innovativa, invece, l'idea di regalare a tutti i veneziani una brocca per gustare il prezioso liquido. A Genova sono arrivati addirittura a dare un nome al liquido distribuito dall'acquedotto locale: "Acqua San Giorgio" si chiama, e ne pubblicizzano le caratteristiche. A Roma, dopo 250 milioni di prelievi, si è deciso di rendere pubblica la "carta d'identità dell'acqua" per mostrarne ai cittadini l'elevata qualità. E Altraeconomia ha lanciato un'apposita campagna, battezzata "Imbrocchiamola". Seicento ristoranti e locali vari hanno aderito all'iniziativa e servono caraffe d'acqua pubblica, senza storcere il naso come avviene in tanti bar. Un modo per valorizzare l'oro blu che sgorga dal rubinetto a un prezzo pari a un millesimo di quello delle minerali in bottiglia. Che però continuano a conquistare gli italiani: dev'essere tutta colpa di quel vecchio spot dell'anticalcare in cui si vede un idraulico che estrae la serpentina della lavatrice e la mostra a un'inquieta casalinga. Un primo piano dell'attrezzo lo inquadra orridamente incrostato a causa della "durezza" dell'acqua corrente, ossia il suo contenuto di calcare. Sarà forse così, vedendo quella serpentina appesantita da stalattiti bianche, che è nata la diffidenza verso il nostro rubinetto di casa. In realtà, gli esperti spiegano unanimi che il calcio disciolto nell'acqua, che pure danneggia gli elettrodomestici, per il nostro organismo non è affatto un problema. Al contrario: l'associazione Altroconsumo ha realizzato una campagna a favore dell'acqua di casa invitandoci a "non restare imbottigliati". Ha analizzato le acque di 35 città italiane, concludendo che è sicura per la salute e ottima da bere ovunque (fa eccezione la sola Reggio Calabria). "Studi recenti", spiega Claudia Chiozzotto, responsabile dei controlli sull'acqua per Altroconsumo, "dimostrano che acque troppo leggere, come quelle scandinave, potrebbero favorire la comparsa di malattie cardiovascolari." Le fa eco la nutrizionista Evelina Flachi, intervistata dal Giornale: "Le acque del territorio nazionale", spiega, "vengono regolarmente controllate. E sono sicure. Ci sono livelli che per legge vanno rispettati, quindi i consumatori possono stare tranquilli. L'acqua del rubinetto può competere con quelle in bottiglia". In sostanza, dicono le analisi, in quasi tutta Italia disponiamo, in casa, di una vera e propria fonte d'acqua oligominerale: con la giusta dose di calcio, povera di sodio quanto quelle "con una povera particella sperduta", a "zero calorie" come quelle pubblicizzaté per le diete e, soprattutto, controllata in continuazione dalle aziende sanitarie locali. Il paradosso è che nel nostro paese l'acqua minerale e l'acqua del sindaco sono regolate da leggi, regolamenti e parametri chimici diversi. In origine, infatti, l'acqua minerale era stata intesa dal legislatore come destinata esclusivamente a usi terapeutici - dunque, a persone che necessitavano di diete particolari. Molte acque minerali, se rapportate ai parametri previsti dalle normative che regolano il liquido che esce dai nostri rubinetti di casa, sarebbero classificate come "non potabili". "In Piemonte", spiega Giuseppe Altamore in Acqua Spa, "imbottigliano un'acqua con un residuo fisso (la quantità di sali minerali contenuta in un litro) di circa 20 milligrammi/litro. Bene, nessun acquedotto distribuisce un'acqua così povera di sali, perché ritenuta 'poco potabile'. Raramente un acquedotto fornisce un'acqua con un residuo fisso al di sotto dei 100 milligrammi/litro. Ma i venditori di minerale riescono a trasformare un difetto in un pregio." Pagina 149 18 Possiamo fidarci del nostro rubinetto? Quindici anni di leggi su leggi, regolamenti, dibattiti, investimenti fatti e mancati, proteste e soprattutto rincari delle bollette. Ne è valsa la pena? Fino a oggi il bilancio della riforma appare piuttosto fallimentare dal punto di vista della trasparenza e dell'efficienza della gestione. Ma per tirare le somme bisogna tener conto anche dello stato di salute dei nostri bacini idrici e delle nostre tubature. In fondo la legge Galli, oltre a puntare all'equilibrio dei conti, voleva ridurre le perdite delle condotte e cercava di ottenere acqua buona e sufficiente a soddisfare i bisogni del paese. La battaglia contro le condutture colabrodo ha tutta l'aria di una Caporetto: una decina d'anni fa mi è capitato di assistere a Roma, a Palazzo Valentini, sede della provincia, a una conferenza di cento sindaci del Lazio che poneva le basi per far nascere gli ATO. Discorsi pomposi, sorrisi e promesse: in particolare si sottolineava che il 30-40 per cento dell'acqua andava sprecata e che finalmente si sarebbe posto un freno allo sperpero. Un decennio più tardi ecco cosa dice l'ufficio studi di Mediobanca (in uno studio commissionato dalla fondazione Civicum e pubblicato a gennaio 2009): "In media l'Italia spreca il 30,1 per cento delle sue risorse idriche". Basta questo dato, quest'istantanea immobile nel tempo degli acquedotti spreconi d'Italia per dare l'idea di quanto la riforma dell'acqua sia un'altra promessa mancata della classe dirigente di questo paese. La fondazione Civicum stima in 2,1 miliardi di euro il valore delle risorse idriche sprecate tra il 2003 e il 2007. Un tesoretto d'oro blu evaporato, scivolato via tra falle delle condutture e prelievi abusivi. Per di più, si tratta di dati approssimativi perché, stante la scarsa trasparenza del settore, si deve ricorrere a rilevamenti che fanno affidamento in larga parte sulla buona volontà delle stesse aziende idriche, alcune delle quali a certi imbarazzanti questionari preferiscono evitare di rispondere. Secondo la stima di Civicum chi spreca di più, vedi Acquedotto pugliese (50,3 per cento, dato 2006) ha anche le tariffe più alte (0,86 euro per metro cubo nel 2006, scesa a 0,60 nel 2007). In questa non invidiabile classifica l'ACEA di Roma si piazza al secondo posto, con un 35,4 per cento di risorse non fatturate, mentre la MM di Milano perde appena il 10,3 per cento dell'acqua lungo il percorso. Acquedotto pugliese ha anche la perdita maggiore per abitante (183 litri al giorno); è seguito dalla rete veneziana (179 litri), che scavalca la rete romana dell'ACEA (133 litri persi al giorno per abitante). Lo spreco d'acqua, aggiunge Civicum, si traduce in mancati introiti soprattutto per Acquedotto pugliese (930 milioni in meno in cinque anni, alle tariffe del 2007) e per l'ACEA (362 milioni), mentre la milanese MM ha perso nello stesso periodo "appena" 10 milioni di euro. Il dato del 30 per cento è comunque una media, che sintetizza í risultati di chi non ha fatto nulla per evitare gli sprechi e chi invece è riuscito a migliorare un po' la situazione (si veda la tabella a fine capitolo). Se da un lato vanno considerate le perdite (e la situazione non è rosea), sull'altro piatto della bilancia con cui va soppesata la riforma c'è l'affidabilità dell'acqua. Quello che sgorga dai nostri rubinetti è prezioso oro blu o inquinata "bigiotteria" blu? Bisogna premettere che in questo ambito la situazione pre-riforma era certamente meno disastrosa rispetto al problema degli sprechi: bevendo dal rubinetto non si rischiavano intossicazioni di massa, i controlli c'erano anche prima. E va detto anche che la potabilità è solo in parte un dato di fatto oggettivo: è vero che, in linea di massima, se l'acqua non fa male è buona da bere, ma c'è anche il punto di vista delle regole, che fissano l'altezza dell'asticella. Se una norma abbassa la concentrazione massima consentita di determinate sostanze, ciò che era potabile all'improvviso non lo è più. L'accresciuta sensibilità ambientale ha fortunatamente portato, negli ultimi anni, a norme più severe; resta tuttavia l'inquietante fenomeno delle deroghe, per cui in certe zone è potabile ciò che in altre non lo è, "in deroga temporanea". Un'espressione che fa tremare i polsi e serrare l'esofago, pensando che si riferisce al liquido vitale che mettiamo in circolo nel nostro organismo.
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