Gli ebrei in Israele e nella Diaspora.
di Paola Canarutto e Giorgio Forti

Rete-ECO (Ebrei contro l'Occupazione), EJJP (European Jews for a Just Peace)


Il sostegno, più spesso palese, talvolta silenzioso, delle comunità ebraiche italiane alla guerra di aggressione di Israele in Libano, a Gaza e nei territori palestinesi occupati della Cisgiordania è un fatto politico gravissimo. Per aggiungere problema a problema, dette comunità si arrogano per di più il diritto di rappresentare gli "ebrei italiani". Ma chi sono gli "ebrei italiani", e in generale gli ebrei, nella diaspora ed in Israele? Contarli non è semplice, perché occorrerebbe intanto definire chi lo è: non vi è coincidenza, ad esempio, fra la legge halachica, la norma che decide chi può iscriversi ad una comunità ebraica, e ciò che più segnò l'ebraismo europeo del ventesimo secolo, il nazifascismo e le leggi razziali. In Italia, per rispondere alla domanda si verifica quanti sono gli iscritti alle comunità ebraiche. Se per la legge ebraica, rispettata dagli ortodossi, ebreo è chi è figlio di madre ebrea, per iscriversi alle comunità questo non basta: occorre 'non aver cambiato religione' (viceversa, è possibile iscriversi anche a chi non ha madre ebrea, ma a chi si è convertito con l'approvazione del rabbinato ortodosso).
Mussolini aveva reso obbligatoria l'iscrizione degli ebrei alle comunità ebraiche, e questa norma razzista è stata eliminata solo una ventina di anni fa. Da allora, il numero degli iscritti è in continuo calo. Un fenomeno di segno contrario è rappresentato dal formarsi di una comunità ebraica “Reformed”, a Milano, e dal congregarsi dei laicissimi 'Humanistic Jews': i Reformed, ed ancora di più gli Humanistic Jews, accettando come ebrei anche i figli di (solo) padre ebreo, ed ammettendo fra le loro fila più facilmente i convertiti di quanto non facciano gli ortodossi, accentuano una tendenza fondamentale: quella di considerare ebreo chi vuole essere considerato tale. (Se si seguisse l'halachà pura e semplice, occorrerebbe considerare ebrei don Milani, Lustiger, l'arcivescovo di Parigi divenuto cardinale, e, fra i condannati a morte dai nazisti, la suora cattolica Edith Stein).
La diminuzione del numero di ebrei non è un fenomeno solo italiano: è anche statunitense, dove il sistema per valutare gli aderenti alle varie religioni è diverso dal nostro, basandosi su interviste telefoniche, condotte ogni pochi anni, in cui si chiede quale fede l'interlocutore ritiene più vicina alla propria.
Stante che Israele si definisce 'lo stato ebraico', la sua normativa entra prepotentemente nella definizione di 'chi è ebreo'; questa ha lo scopo di preservare il vantaggio demografico, in Israele, di chi 'non è arabo' rispetto a chi lo è. Secondo la cosiddetta 'Legge del Ritorno', può accedere al privilegio di ottenere la cittadinanza israeliana all'arrivo all'aeroporto chi sarebbe stato considerato ebreo dalle leggi hitleriane, vale a dire ha un/a nonno/a ebreo/a. Negli anni '50, questa legge fu modificata, richiedendo che l'aspirante non avesse aderito ad un'altra religione (ciò che per i nazisti non presentava alcun interesse); stante i perduranti incubi demografici di Israele, però, questa è una richiesta che si è teso lasciar cadere: la maggior parte degli 'ebrei' russi, arrivati dopo l'89, sono ebrei solo di nome. L'essenziale, per lo stato di Israele, è che non siano arabi.
La definizione di chi può avere tutti i privilegi che lo stato di Israele riconosce agli ebrei, in altre parole, non è halachica, ed è molto più ampia di quella prevista da tale normativa religiosa: vi sono israeliani che hanno ottenuto la cittadinanza in base alla Legge del Ritorno, pur non essendo considerati ebrei dal rabbinato – con la conseguenza che in Israele, dove non esiste il matrimonio civile, non possono sposarsi se non convincendo un imam o un sacerdote cristiano di buona volontà. Nella pratica, questo significa che, per lo stato di Israele, e quindi - data l'importanza di tale stato per le comunità ebraiche - per gli ebrei tutti, nell'attribuire la qualifica di 'appartenente al popolo ebraico', conta prevalentemente la definizione hitleriana. Tuttavia, non tutti coloro che sarebbero stati considerati ebrei da Hitler hanno voglia di essere considerati tali, e, se l'adesione alle comunità ebraiche è libera, come da una ventina d'anni è anche in Italia, queste raggruppano solo una parte degli ebrei – senza che questo le distolga minimamente dal considerarsi, e dal dichiararsi, rappresentanti di tutti.
Mentre il numero di coloro che si considerano ebrei diminuisce, si evidenziano altri due fenomeni, classificabili come “mutazioni” dell'ebraismo. Se fino al 1945 il sionismo era un fenomeno minoritario, condannato dalla maggioranza dei rabbini, ora, divenuto maggioritario dopo la guerra del 1967, è considerato il fulcro dell'identità ebraica. Questo tanto in Italia, dove la stragrande maggioranza degli ebrei si definisce 'ortodossa', quanto negli Stati Uniti, dove l'ortodossia è una corrente minoritaria. In altre parole, si può – tanto in Italia quanto negli Stati Uniti – considerarsi ed essere considerati ebrei, proclamandosi atei, mangiando prosciutto, andando in auto di sabato e non conoscendo alcunché del Talmud, purché si consideri centrale il 'difendere Israele'. Parallelamente a questa, c'è un'altra mutazione: mentre fino a una cinquantina di anni fa gli ebrei nel mondo erano prevalentemente di sinistra (durante la rivoluzione russa erano ebrei molti dei bolscevichi, ed una parte ancora più importante dei menscevichi), oggi la maggioranza degli appartenenti alle comunità ebraiche nel mondo sostiene la destra. Fino a quando Israele ha definitivamente scelto come amico-alleato gli USA ed abbandonato l’URSS, cioè dopo la guerra dei 6 giorni, tra gli ebrei italiani e quelli francesi si incontravano molti bei nomi di dirigenti dei rispettivi partiti comunisti. Oggi, così come le comunità ebraiche dichiarano di rappresentare tutti gli ebrei, lo stesso fanno le organizzazioni politiche di ebrei più sfegatatamente pro-israeliane, come le statunitensi AIPAC e ADL.
Ambedue i fenomeni potrebbero considerarsi casi di millantato credito, e non presentare soverchio interesse, se non fosse per due questioni non marginali. La prima è relativa all'etica ebraica – per lo meno quella predicata a partire dall'apertura dei ghetti. Da allora, l'ebraismo ha teso a presentarsi al mondo come una sorta di morale laica, che aveva come fulcro il 'non fare ad altri quel che non vorresti fosse fatto a te', espressione celebre attribuita dal Talmud a Hillel. Dal punto di vista culturale, gli ebrei europei ed americani hanno partecipato attivamente alla cultura dell’Illuminismo, del Liberalismo e del Socialismo, e questo ha coinciso con la loro crescente “secolarizzazione”, come è avvenuto in ambito cristiano. Dopo Napoleone, gli ebrei sono stati in prima fila nei movimenti per la giustizia sociale e l'emancipazione, mettendo in evidenza l'aspirazione alla giustizia espressa dal profetismo biblico - anche quando, come nel classico esempio di Marx, non nutrivano particolare affetto per le proprie origini ebraiche; nel caso di filosofi e politici, come di scienziati (molto numerosi, ma per fare un solo nome, Einstein), la religione dei padri né tanto meno l’ebraicità della famiglia hanno avuto alcun rapporto né influenza con le attività culturali e scientifiche. Alla base della lotta per la giustizia e l'emancipazione vi era il sacrosanto aspirare a che gli stati non discriminassero per razza e religione – e cioè non ripristinassero i ghetti in cui gli ebrei erano stati rinchiusi per secoli. Oggi tutto ciò, di fronte al predominante interesse di mantenere Israele lo stato 'degli ebrei', è cancellato: stante che gli ebrei, anziché considerarsi una religione alla quale e dalla quale ci si può convertire, si sono definiti come popolo, che ha costituito la propria sede nazionale dove un tempo vi era il Mandato britannico, le discriminazioni per razza e religione, ritenute ormai di interesse generale, sono ora considerate alla base stessa dello stato. L'aspirazione alla giustizia sociale è pure essa passata sotto silenzio, dato che Israele ha come principale sostenitore quegli Stati Uniti che tutto desiderano, fuorché questo. E il sostegno statunitense si paga – tanto che Israele è stato in prima fila nel mandare 'consiglieri militari' a proteggere i regimi fascisti, come quello di Somoza in Nicaragua e la giunta militare in Argentina, quando il Congresso ostacolava il governo statunitense ad agire direttamente. È chiaro che non vi può essere alcun rapporto, se non di tradimento, fra il sostegno al regime latifondista guatemalteco e l'aspirazione alla giustizia espressa quasi 3 millenni fa dal profeta Amos. In Argentina, nel sostenere la junta, Israele ha compiuto atti forse ancora peggiori che quelli di aiutare a massacrare i contadini del Guatemala, dato che fra gli oppositori al regime, che Videla ordinava di gettare dagli elicotteri nell'Oceano, gli ebrei erano in prima linea. Da quando al potere negli USA ci sono i neocon, e, in Israele, a partire dal governo Netanyahu, persino l'aspirazione alla giustizia sociale per gli ebrei israeliani (di cui l'emblema erano i kibbutzim socialisti, sorti ancora prima che Israele divenisse uno stato) si è dissolta nel nulla. L'ebraismo, con l'adesione all’ideologia nazionalista e quindi al considerare centrale la difesa di Israele, è passato dall'essere un'etica al costituire una 'morale' solo nel senso etimologico, quello dei mores: è ebreo chi osserva alcuni costumi, dalla circoncisione dei figli maschi al canto dell'inno nazionale israeliano, mentre i valori di cui si andava fieri si sono dissolti – non solo nello stato di Israele, ma anche, di conseguenza, nelle comunità e nelle organizzazioni politiche di ebrei che lo stato ebraico considerano al centro della propria identità. Forse l'evidenza massima di questo fenomeno si vede nel sostegno indefettibile fornito da Israele al regime razzista sudafricano bianco – da cui si può trarre l'immediata deduzione che vi sono discriminazioni per razza che allo stato ebraico, approvato nel 1947 dall'Assemblea dell'ONU per il senso di colpa del mondo verso le persecuzioni razziali patite dagli ebrei, sono quanto mai gradite.
Spiace constatare tutto ciò, ma a qualcosa di così evidente, non molti di quelli che per un verso o per un altro sono considerati ebrei cercano di porre rimedio: fanno eccezione i gruppi dissenzienti, in Israele e in diaspora. Perché, alle note sulla cooperazione israeliana a mantenere in vita alcuni dei regimi peggiori del mondo (a partire dal colonialismo francese in Algeria, e questo negli anni in cui i francesi erano noti per le torture inflitte ai resistenti algerini), vanno aggiunte quelle sull'indegno trattamento a cui sono stati e sono tuttora sottoposti gli abitanti non ebrei dell'ex Mandato: cacciati e sottoposti a massacri ripetuti nel '48, onde poter fondare uno stato in cui gli ebrei costituissero la maggioranza; mantenuti in campi profughi ormai per quasi sessant'anni, dal momento che a loro è vietato tornare (la Legge detta 'del Ritorno' riguarda chi non ha mai abitato lì – da cristiani ortodossi russi che possono dichiarare di aver avuto un nonno ebreo a peruviani convertiti all'ebraismo, per nominare i casi più eclatanti); discriminati nell'allocazione della terra, nel sistema scolastico e sul lavoro, se sono riusciti a non farsi buttar fuori alla fondazione dello stato e negli anni immediatamente successivi. E questo è solo l'inizio: nel '67, avendo Israele conquistato la Cisgiordania e Gaza, ha voluto mantenere il controllo del territorio, assegnando a sé la maggior parte dell'acqua, senza dare la cittadinanza agli abitanti – sempre per motivi demografici, per mantenere la maggioranza ebraica. E, per finire, i massacri delle due guerre in Libano, giustificati con 'il diritto di Israele di difendersi' – diritto che, come è risaputo, Israele non riconosce alle popolazioni non ebraiche con cui confina.
In Israele, opporsi richiede un coraggio specifico: chi rifiuta il servizio militare in Libano e nei Territori Occupati sa che andrà in carcere, il solo recarsi nella Zona A dei Territori Occupati per incontrare i palestinesi (che dal canto loro hanno il divieto di entrare in Israele), come fa l'Alternative Information Center, costituisce una trasgressione della legge, e l'esercito non considera un problema sparare ai dimostranti disarmati che protestano contro il Muro. In diaspora, dove opporsi alle politiche israeliane presenta rischi infinitamente minori, il virus nazionalista pare aver colpito in modo grave e irreversibile gli aderenti alle comunità ebraiche. I gruppi di ebrei dissidenti reagiscono appellandosi all'etica ebraica, ma convincendo pochi di coloro che aderiscono alle congregazioni 'ufficiali', in Italia e altrove: la maggioranza di chi ne fa parte sostiene potenti organizzazioni filoisraeliane, e mette il bavaglio a chi si oppone. Non solo la mancata opposizione evidenzia un crollo della cultura ebraica, come l'avevamo conosciuta negli ultimi due secoli, ma l'identificazione di Israele con gli ebrei tout court porta al rischio concreto di un crescere dell'antisemitismo.
Herzl aveva pensato che, per difendersi dall'antisemitismo, gli ebrei dovessero divenire nazione, costituendo uno stato. Nella pratica, il posto in cui è meno sicuro per gli ebrei vivere, oggi, è lo stato di Israele, ma non basta: le politiche israeliane si contrappongono agli interessi degli ebrei, anche se vivono altrove. Basti un esempio. Al crollo dell'Unione Sovietica, i sionisti – che tanto avevano battagliato per 'la libertà degli ebrei russi di emigrare' – hanno ostacolato il loro recarsi in uno stato che non fosse quello di Israele; il loro potere è stato tale da far sì che la Germania – il cui obiettivo era di ricostituire una comunità ebraica tedesca – rinunciasse alla sua politica di concedere agli ebrei dell'ex URSS la qualifica di profughi.
Netanyahu, Benny Elon (l'ex ministro israeliano dei trasporti, del partito Moledet, che vuole la deportazione degli arabi), l'AIPAC, l'ADL, sono alleati dei Christian Zionists, antisemiti nella teoria e nella prassi: mentre proclamano che gli ebrei debbano diventare cristiani per essere salvi nel Giudizio Universale che, nella loro teologia apocalittica, è assai prossimo, sostengono che, per affrettare la venuta del Cristo, debbano tutti andare in Israele – ciò che otterrebbe l'effetto immediato di liberare il resto del mondo dalla loro sgradita presenza. I Christian Zionists non sono una minoranza folcloristica: sono decine di milioni, sono stati in grado di raccogliere centinaia di migliaia di firme a favore di una politica israeliana bellicista, che nega di fatto, prima ancora che nella teoria, il costituirsi di uno stato palestinese degno di questo nome, e lo stato di Israele ha dato loro riconoscimento ufficiale, assegnando loro una sede in uno dei luoghi più belli di Gerusalemme Vecchia. Indice della pervasività del nazionalismo è il sostegno dato anche da una parte del rabbinato Reformed statunitense ai Christian Zionists, benché fra i loro scopi dichiarati vi sia quello di far diventare 'cristiani' gli USA: il desiderio di 'sostenere Israele' fa passare sotto silenzio, persino a uno spezzone dei Reformed, che la laicità degli stati in cui gli ebrei vivono è non solo l'obiettivo comune a tutta la diaspora, ma specificamente quanto voluto dallo stesso gruppo Reformed.
L'alleanza USA-Israele è determinata in parte dal desiderio dei primi di controllare il Medio Oriente ed il suo petrolio, in parte, viceversa, dall'influenza di gruppi ebraici sostenitori della destra israeliana, sullo stile dell'AIPAC, nelle alte sfere statunitensi. Mentre sono stati l'AIPAC, il JINSA e i neocon in genere a volere la guerra all'Iraq, non era e non è questa la volontà della maggior parte degli ebrei statunitensi, riscontrata nei sondaggi. Sembra evidente che il complesso dell’ebraismo USA ci tiene ad una rapporto solido, ma abbastanza elastico, con l’Amministrazione, in modo da poter avere buoni rapporti anche con un’Amministrazione successiva. Va tenuto presente che sembra che nelle elezioni del 2004 Bush abbia ottenuto circa un quarto del voto ebraico USA – il che potrebbe instillare qualche ragionevole dubbio sulla rappresentatività delle organizzazioni come l'AIPAC. Nell'attaccare l'Iraq, gli USA badarono a far sì che non vi fosse alcun intervento israeliano: la percezione generale che si voleva controbattere era che fosse una guerra 'per Israele', determinata dall'aperto sostegno espresso in precedenza da esponenti governativi israeliani per una 'modifica dei confini medio-orientali', e dal ruolo di neocon alleati di Netanyahu – fra cui Wolfowitz, allora ministro della difesa di Bush, oggi presidente della Banca Mondiale - nello scatenarla. In quella del Libano, giunta da poco ad una tregua, il sostegno statunitense ad Israele è stato totale: si sperava in una rapida sconfitta di Hezbollah, dal che avrebbe potuto derivare un attacco alla Siria e all'Iran. Malgrado i massacri di civili, il Libano ha resistito: per la fortuna di tutti, ebrei in primis, questo attacco (con il verosimile corollario di un'espulsione in grande scala dei palestinesi dai Territori Occupati) non si è materializzato.
Lo stato di Israele, creatosi grazie alla cacciata di chi abitava la Palestina, ha messo per decenni il bavaglio ai resoconti palestinesi della cacciata, definiti come 'menzogne'. Quarant'anni dopo, nella persuasione che 'acqua passata non macina più', si sono aperti gli archivi - e ora, a raccontare le vicende nello stesso modo sono i 'nuovi storici israeliani': dato che questi fanno parte del 'noi', anziché del 'mondo arabo', solo pochi estremisti tentano adesso di negare la realtà dei massacri sionisti e dell'espulsione forzata dei palestinesi. Ora, ad informare delle violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati – del mantenere i palestinesi, con il Muro e i posti di blocco, in prigioni a cielo aperto, delle confische di terra e di acqua, delle detenzioni amministrative senza processo - sono coraggiose organizzazioni israeliane, fra cui Gush Shalom e B'Tselem, ed alcuni giornalisti ed uomini di cultura; sui massacri in Libano, le notizie sono diffuse da internet. Rispetto a sessant'anni fa, oggi nascondere i fatti è più difficile. Intanto, l'antisemitismo arabo e islamico – in pratica inesistente cent'anni fa – è in continua crescita. Benché continui a prevalere il razzismo anti-arabo ed anti-islamico, l'antisemitismo europeo, che si era cercato di tenere celato dopo lo sterminio, riemerge: basta un rapido giro su internet, per rendersene conto. E non è più un antisemitismo di frange screditate, senza diritto di parola: al razzismo esplicito israeliano vi è chi risponde con un razzismo di segno uguale e contrario, a cui è considerato improprio negare il diritto di esprimersi.
Nel parlare quotidiano, 'gli italiani' sono responsabili dei massacri commessi durante la guerra in Etiopia e quella in Jugoslavia; 'i tedeschi' di quanto perpetrato dalle armate naziste. Gli israeliani godono del diritto di parola e di voto, negati dai regimi fascista e nazista: nelle azioni aberranti commesse dal loro stato, la corresponsabilità degli ebrei israeliani (anche se disinformati da una propaganda pervasiva) è maggiore di quella degli italiani e dei tedeschi di 6-7 decenni or sono. Israele, peraltro, si definisce non come lo stato di chi vi abita, ma lo stato degli ebrei: tocca quindi agli ebrei dissociarsene. A sostenere le politiche israeliane peggiori sono in prevalenza organizzazioni sioniste che non rappresentano gli ebrei tutti: sono sempre di più – anche negli USA – le voci ebraiche che contrastano la potenza dell'AIPAC. Restare in silenzio è essere complici, e, se non saremo noi a pagare direttamente per la diffusa equazione Israele= ebrei, la pagheranno i nostri figli. Pronunciamo una parola chiara contro politiche discriminatorie per razza e religione alle quali ci opporremmo nettamente proprio come ebrei, se fossero rivolte contro di noi, e per la pace.

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