https://www.popoffquotidiano.it/ sabato 21 luglio 2018
Capote, “La forma delle cose” by Marina Zenobio
Parte la proposta di Popoff di letture brevi per l’estate. Apriamo con Truman Capote, e l’incontro su un treno diretto in Virginia tra una ricca signora e un reduce di guerra “La forma delle cose” fa parte di una raccolta di racconti scritti da Truman Capone nel 1944 poco prima della fine della Seconda Guerra Mondiale. Capote (1924-1984) è stato uno scrittore, sceneggiatore, drammaturgo e attore statunitense. La forma delle cose traduzione di Marina Zenobio
Una donna minuta, bianca, capelli con permanente, percorse dondolando il corridoio del vagone ristorante e si accomodò in un posto vicino al finestrino. Finì di scrivere a matita il suo ordine e diresse lo sguardo miope a un marine dalle guance rosse e a una ragazza con il viso a forma di cuore. Notò subito un anello d’oro al dito della ragazza e una fascia rossa nei capelli, e decise che era una ragazza ordinaria. Mentalmente la etichettò come sposa di guerra. Con un sorriso abbozzato la invitò a parlare. La ragazza sorrise a sua volta: – Ha avuto fortuna ad arrivare così presto perché è pienissimo. Non abbiamo potuto pranzare perché c’erano dei soldati russi che mangiavano… o qualcosa del genere. Avrebbe dovuto vederli, sembravano Boris Karloff, giuro! La voce sembrava il fischio di un bollitore che diede alla donna la possibilità di schiarirsi la voce. – Sì, davvero – disse – prima di questo viaggio non avrei mai pensato ce ne fossero tanti al mondo. Mi riferisco ai soldati. Non te ne rendi conto finché non sali su un treno. Non smetto di chiedermi dove sono saliti? – Dall’ufficio di reclutamento – disse la ragazza ridendo come una cretina. Il marito arrossì scusandosi. – Arriva fino alla fine della tratta, signora? – Spero. Ma questo treno è lento come… come… – Una tartaruga – esclamò la ragazza e aggiunse senza respirare – ah, non immagina quanto sia emozionata. Ho passato tutto il tempo a guardare il paesaggio. In Arkansas, da dove vengo io, tutto è piatto, e il mio corpo freme nel vedere queste montagne – e rivolgendosi al marito – tesoro, pensi che siamo in Carolina? Lui guardò il finestrino, il cui vetro si ispessiva nel crepuscolo. La luce blu mescolava i colori delle colline. Volse lo sguardo verso la sala da pranzo illuminata. – Deve essere la Virginia – disse scrollando le spalle. All’improvviso dal vagone di terza classe si avvicinò un soldato che piombo come una bambola di pezza sul posto libero del tavolo. Era basso e la sua divisa sgualcita. Il suo viso, magro e dai lineamenti taglienti, era in pallido contrasto con quello del marine, i suoi capelli neri, cortissimi, brillavano nella luce come un berretto di pelle di foca. I suoi occhi stanchi scrutavano i tre occupanti come ci fosse uno schermo tra loro, e con un gesto nervoso mostrò i due galloni da caporale cuciti sulla manica. La donna si spostò a disagio, schiacciandosi contro il finestrino. Lo etichettò come ubriaco e, guardando la ragazza che storceva il naso, capì che condividevano il giudizio. Mentre il negro col grembiule bianco stava scaricando il vassoio sul tavolo, il caporale disse: La ragazza affondò la forchetta nel pollo con la besciamella. – Tesoro, non ti sembra carissimo tutto quello che servono qui? Fu allora che iniziò. La testa del caporale iniziò a dondolare con brevi e incontrollati sussulti. Si fermò e la sua testa si protese grottescamente in avanti; una convulsione muscolare protese il collo verso il costato. La bocca si allungò in modo orribile e le vene del collo erano sempre più tese. – O mio Dio! – esclamò la ragazza, lasciando andare il coltello da burro e coprendosi gli occhi con una mano. Il marine guardò con aria assente per un lungo momento e dopo, riprendendosi, tirò fuori un pacchetto di sigarette. – Prendi ragazzo – disse – è meglio che ne fumi una. – Sì, grazie… molto gentile – mormorò il soldato e poi sbatte contro il tavolo un pugno dalle nocche bianche. Le posate d’argento tremarono, l’acqua traboccò dai bicchieri. Un prolungato silenzio nell’aria e una risata lontana si fecero largo nel vagone, divise in parti uguali. La ragazza, consapevole dell’attenzione, lisciò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. La donna alzò lo sguardo e si morse il labbro nel vedere che il caporale tentava di accendere la sigaretta. – Ti prego, lascia fare a me – si offrì la donna. Le mani le tremavano tanto che la prima fiamma si spense. Quando il secondo tentativo ebbe successo forzò un sorriso. All’improvviso lui si calmò. – Mi vergogno così tanto… scusatemi per favore. – Oh, lo capiamo – disse la donna. Lo capivano perfettamente. – Le fa male? – chiese la ragazza. – No, non fa male. – Ero preoccupata che le facesse male. Sembrava. Certo, non è come una specie di singhiozzo? Trasalì di scatto, come se qualcuno gli avesse dato un calcio. Il caporale passò il dito lungo i bordi del tavolo e poco dopo disse: – Stavo bene finché non sono salito treno. Mi hanno detto che sarei stato bene. Mi hanno detto ‘Stai bene, soldato’. Ma è l’emozione, il sapere di essere nel tuo paese e libero, e che la maledetta attesa è terminata. Si sfregò un occhio. – Mi dispiace – disse. Il cameriere pose il caffè e la donna tentò di aiutarlo. Lui le scansò la mano con un piccolo pugno irritato. – Non faccia così, per favore. Lo so fare! Confusa da una vampata di rossore la donna si volse verso il finestrino e vide riflesso in esso il suo viso. Era serena e se ne sorprese perché sentiva una irrealtà vertiginosa, come se stesse oscillando da un punto all’altro di un sogno. E cominciò di nuovo, anche se questa volta non fu violento come alla prima. Nella luce grezza del fuoco di un treno che si avvicinava, il riflesso del viso si offuscò, e la donna sospirò. Lui stava bestemmiando a voce bassa, come se pregasse. Come un pazzo afferrò la testa tra le mani, come se fossero un tornio. – Ehi, ragazzo, devi farti vedere da un medico – gli consigliò il marine. La donna allungò una mano e l’appoggio sul braccio alzato del caporale. – Posso fare qualcosa? – disse. – Ciò che facevano perché si fermasse era guardarmi negli occhi… mi passa se guardo qualcuno negli occhi. Lei inclinò il viso verso di lui. – Così – disse lui calmandosi all’istante – così, ora. E’ un incanto. – Dove è successo? – chiese lei. Lui accigliandosi rispose – In tanti posti… sono i miei nervi. Sono distrutti. – E dove vai adesso? – In Virginia. – La tua casa è lì, no? – Sì, è lì. La donne sentì un dolore nella dita e all’improvviso la forte pressione sul braccio del caporale si allentò. – Lì c’è la tua casa e devi ricordare che il resto non è importante. – Lei sì che ne sa – sussurrò il caporale – L’amo. l’amo perché è così stupida e innocente e perché non conoscerà mai nulla di più di ciò che vede nei film. L’amo perché siamo in Virginia e sono quasi arrivato a casa. La donna distolse bruscamente lo sguardo. Una pesante offesa si consacrò nel silenzio. – Quindi pensa che sia tutto? – disse lui inclinandosi verso il tavolo e passandosi la mano sul viso assonnato. – C’è quello, ma c’è anche la dignità. E quando passo davanti a persone che conosco da sempre, allora che faccio? Crede che voglia sedermi a tavola con loro o con qualcuno come voi e fargli venire la nausea? Crede che voglia spaventare una bambina come questa qui e mettere idea nella testa sul suo uomo? Ho aspettato mesi, e mi dicono che sto bene ma per la prima volta… Si fermò inarcando le sopracciglia. La donna fece scivolare due banconote sul suo conto e spinse indietro la sedia. – Lasciami passare per favore? – disse. Il caporale si alzò e rimase in piedi guardando il piatto intatto della donna. – Mangi, dannazione – disse – Deve mangiarlo! E poi, senza guardare indietro, scomparve in direzione dei vagoni. La donna pagò il caffè. – Oh, capiamo – disse la donna – Capiamo perfettamente.
|