https://www.popoffquotidiano.it/ 01 settembre 2018
“Odore di polvere da sparo” di Gioconda Belli
E’ con la scrittrice nicaraguense Gioconda Belli l’ottavo e ultimo appuntamento con Racconti d’Estate, short proposti da Popoff … Un breve estratto da “Il paese sotto la pelle. Memorie d’amore e di guerra”, di Gioconda Belli, pubblicato la prima volta nel 2002.
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Ricordi che nascono dall’odore di polvere da sparo (Cuba, 1979)
Ad ogni sparo il mio corpo diventava sempre più teso. Il rumore assordante scuoteva ogni parte delle mie articolazioni lasciandomi nella testa un insopportabile sibilo, acuto, sconcertante, uscito chissà da dove. Mi sarei vergognata di ammettere quanto odiassi sparare. Chiudevo forte gli occhi appena premuto il grilletto, come se il mio corpo dovesse recuperare la sua integrità solo una volta spogliato da quell’arto mortale stretto nelle mie mani, poggiato sulla mia spalla.
Mezz’ora prima, in un’allegra atmosfera stile gita scolastica, eravamo arrivati alle moderne e ben equipaggiate installazioni del poligono delle FAR (Forze Armate Rivoluzionarie cubane). All’interno dell’armeria, dove ognuno scelse la propria arma, sembravano tanti bambini in un negozio di giocattoli, toccando ed esaminando i fucili automatici, semiautomatici, mitragliatrici e le pistole messe a nostra disposizione.
Lontana dal provare alcun piacere, sperimentai in forma inequivocabile il profondo rifiuto che mi ispiravano le armi da fuoco. Mi chiedo perché solo io sembrassi aliena alla fascinazione per tutto quell’armamentario di guerra. Che avrei fatto quando sarebbe arrivato il mio turno di entrare in combattimento? Continuai a sparare, furiosa con me stessa. Finii col cadere a faccia a terra, su un tumulo di terra dove c’era una mitragliatrice calibro 50 la cui lunga canna girava su un asse. E sono rimasta lì ad azionare con le due dita la leva del grilletto. Era l’arma più letale che si potesse usare in quel posto ma non mi destabilizzò, il suono era secco e non si espandeva dentro di me.
Così sei rimasta incantata dalla 50 – mi disse sorridendo maliziosamente Fidel che scoprii era dietro di me. Non dissi nulla. Sorrisi. Poi si girò per parlare con Tito e con gli altri compagni sandinisti invitati a L’Avana per le celebrazioni del XX Anniversario della Rivoluzione cubana.
Mi appoggiai allo schienale della sedia, Inevitabilmente il profilo di Fidel si mise a girare nella mia testa in una confusa mescolanza di immagini del presente e del passato. Fidel era stato il primo rivoluzionario conosciuto nella mia vita. Avevo seguito la sua avventura ribelle come si trattasse di una serie a puntate, perché a casa mia smosse le passioni dei miei genitori e soprattutto di mio fratello Humberto, che era la guida dei nostri giochi d’infanzia. Humberto ed io leggemmo dall’inizio alla fine, sul letto dei miei genitori, il numero di Life con la pubblicazione di un reportage su Fidel nella Sierra Maestra. Già all’epoca Humberto era riuscito, dopo mesi di pratica, ad imitare perfettamente il suono della tromba di Al Hirt. Tuttavia la cosa di cui andava orgoglioso era la magistrale imitazione di Daniel Santos, un cantante cubano dall’inconfondibile voce nasale, diventato famoso per l’interpretazione dell’inno dei ribelli del Movimiento 26 de Julio.
Ma tutta quell’effervescenza era destinata a scomparire come per incanto. Non so esattamente cosa accadde, però tra le suore della mia scuola, tra gli amici dei miei genitori, sui giornali e in casa mia iniziò a circolare la notizia che Fidel e i suoi Barbudos avevano ingannato il mondo intero facendosi passare per cristiani e brava gente mentre in realtà erano pericolosi comunisti. “Ma guarda tu – diceva mia madre – Fidel è apparso su Life con un grande crocifisso poggiato sul petto e ora si dichiara ateo. Non è possibile!”. Le suore raccontavano storie di orrore, che a Cuba i bambini erano trascinati per braccia dai padri e portati in istituti dove sarebbero stati educati dallo Stato perché disconoscessero Dio e per farli diventare comunisti. Essere comunista era, ovviamente, uno stigma, un peccato capitale, il modo sicuro per meritare l’inferno.
Come risultato di opinioni tanto diverse non sapevo più cosa pensare di Fidel. Mi confusi ancor di più quando il presidente Kennedy – che era l’idolo di mia madre – si rivolse a Luis Somoza per lanciare contro Cuba, dal nord del Nicaragua, l’invasione della Baia dei Porci. Non capivo perché un presidente come quello potesse avere relazioni di amicizia con un governo come il nostro.
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