https://www.popoffquotidiano.it/ lunedì 13 agosto 2018
Scherzi di ferragosto di Alberto Moravia
Tutto mi andava male quell’estate e, come venne Ferragosto, mi trovai a Roma senza amici, senza donne, senza parenti, solo. Il negozio dove ero commesso era chiuso per le ferie, altrimenti, dalla disperazione, pur di trovare compagnia, mi sarei perfino rassegnato a vendere i saldi estivi, mutande, calze, camicie, tutta roba andante. Così, quella mattina del quindici, quando Torello mi venne a strombettare sotto la finestra e poi mi invitò a andare con lui a Fregene, pensai: «È antipatico, anzi è odioso… ma meglio lui che nessuno» e accettai di buon grado. Torello era un giovanotto atticciato, massiccio come una pagnotta, con la faccia livida tutta protesa in avanti in atto di arroganza, con gli occhi a fior di pelle, duri e stupidi, da far venire voglia di bucarli con uno spillo. Mi era antipatico, come ho detto, ma forse ero il solo a trovarlo antipatico; in generale riusciva simpatico, e le donne, poi, per lui se ne morivano. Era sempre pieno di soldi, perch5 aveva un garage bene avviato, e così all’insolenza naturale aggiungeva quella dei quattrini. Ma, pazienza l’arroganza; io, Torello, l’avevo sulle corna per un altro motivo: perché diceva e faceva sempre la cosa sbagliata. Era stonato, senza rimedio, sempre inopportuno, sempre offensivo, sempre indisponente. Ci stareste voi a sentire un cantante che sbaglia tutte le note; No, e magari lo paghereste perché stia zitto. Questo era l’effetto che mi faceva Torello. Mi scorticava i nervi e, siccome ho un buon carattere e voglio andar d’accordo con tutti e con lui proprio non mi riusciva di andar d’accordo, l’evitavo più che potevo. Ma quel Ferragosto non l’evitai e feci male. La prima cosa sbagliata, Torello la disse nel momento che mi sedevo accanto a lui, nella sua macchina: «T’ha fatto comodo che io sia venuto a cercarti, eh… se no ti tocca passare il Ferragosto a Villa Borghese. « Pensai: «Cominciamo»; ma non dissi nulla perché lui, oltre che indelicato, era anche stupido e non avrebbe capito. Poi la macchina partì dirigendosi verso l’Aurelia. Torello aveva una macchina con la carrozzeria fuori serie, verde e bassa, di cui era fiero non so dir quanto. Ancora dentro l’abitato, dopo San Pietro, cominciò a correre come un pazzo: novanta, cento, centodieci, centoventi. Io gli dicevo: «Ma va’ piano… nessuno ci aspetta» e lui, per tutta risposta, premeva sull’acceleratore. Così, in un fulmine, passammo Madonna di Riposo e proseguimmo per l’Aurelia. Per via del Ferragosto, la strada era piena di macchine, e Torello si faceva un punto d’onore di sorpassarle tutte, senza suonare il clacson, senza guardare se la strada fosse libera, a testa bassa, proprio come un toro. Finalmente imbucammo un rettilineo e laggiù, in fondo, si vedeva una grossa automobile americana, che anche lei correva forte, nera e luccicante al sole. «Adesso passiamo anche quella», disse Torello e accelerò. Era una macchina più potente della nostra, ma l’uomo che era al volante guidava con prudenza, regolarmente: al suo fianco era una donna. Torello le giunse sotto, eravamo in curva, le fu a paro e vidi allora la donna: bionda, con la faccia tonda, gli occhi di velluto nero, l’espressione sorniona e viziosa: un grosso gatto. L’uomo pareva basso, con il naso a forma di batocchio. Guidava col sigaro in bocca, in camiciola scollata, le braccia pelose sul volante. Torello gridò: «Addio bella bionda», e lei si voltò e gli sorrise. In quello stesso momento un camion alto come una casa sbucò dalla curva, e l’uomo dal sigaro, pronto, si gettò nel fossato e Torello fece appena in tempo a buttarsi a sua volta dalla parte della macchina americana. L’uomo col sigaro fece un gesto con la mano e ripartì come una freccia. «Quella donna mi piace» disse Torello premendo il pedale, «hai visto, mi ha sorriso. «Io gli dissi: «Lascia stare, non è roba per te. «E lui, arrogante: «Ti chiederò consiglio quando dovrò comperarmi un pigiama.» Insomma, offendeva. Rincorremmo come diavoli la macchina americana e ad un passaggio a livello ci fermammo fianco a fianco con loro. La bionda ci guardò e sorrise a Torello; che subito le fece un gesto d’intesa. L’uomo dal sigaro vide chiaramente il gesto, si tolse il sigaro di bocca e lì, al passaggio a livello, in presenza di me, del casellante e di certi contadini che aspettavano, diede uno schiaffo alla donna, col rovescio della mano, sulla bocca. In quel momento le sbarre del passaggio a livello si alzarono e la macchina ripartì prima che potessi rivedere la faccia della bionda. Figuratevi Torello. Quello schiaffo gli fu prezioso quanto una dichiarazione d’amore. «Ci siamo «muggiva, curvo sul volante, «vuoi vedere che gliela soffio;» Intanto la macchina americana aveva spiccato una corsa d’inferno e non ci fu verso di riprenderla prima della pineta di Fregene. Eccoci nella pineta, al crocicchio dove sono i limonari, con i gitanti stesi all’ombra dei pini, le radio accese, i cartocci e le bottiglie di Ferragosto. La macchina americana ci precedeva e noi dietro, lenti lenti. La macchina americana sbucò sullo spiazzo e andò a fermarsi all’ombra, sotto la tettoia. Torello fece un mezzo giro e andò a mettersi accanto alla macchina americana. L’uomo dal sigaro uscì da una parte, la donna dall’altra. Torello, lesto, corse ad aiutarla a scendere. Lei lo ringraziò con un sorriso e si allontanò accanto al suo compagno. Era più alta di lui di tutto il capo, flessuosa come un serpente; camminando dimenava le anche e dondolava di testa. Lui pareva quasi più largo che lungo, le braccia penzolanti, un gorilla. Entrarono nello stabilimento e noi entrammo nello stabilimento. Comprarono il biglietto e noi comprammo il biglietto. S’avviarono verso le cabine, sulla guida di cemento, attraverso la spiaggia, e noi li seguimmo. Il bagnino, vedendoci tutti e quattro insieme, si voltò e domandò: «Stanno insieme, nella stessa cabina;» La bionda si mise a ridere guardando Torello che disse a voce alta: «Magari.» L’uomo dal sigaro disse al bagnino: «No, siamo separati.» La bionda entrò nella sua cabina e Torello entrò nella cabina accanto che era la nostra. Restammo fuori io e l’uomo. Lui si tolse di tasca un grosso astuccio e me lo porse: «Un sigaro;» Rifiutai dicendo che non fumavo. Lui insistette dicendo: «Lo prenda allora per il suo amico», in tono cupo, quasi minaccioso. Mi parve che parlasse l’italiano con accento meridionale e al tempo stesso straniero e giudicai che fosse italo-americano. Poi udii Torello che bussava nel tramezzo tra le due cabine e la bionda che soffocava una risata. L’uomo disse: «È un tipo allegro il vostro amico» e poi gridò qualche cosa in inglese e la bionda uscì dalla cabina. L’uomo entrò a sua volta nella cabina e Torello uscì di fuori. Gli dissi: «Questo sigaro te lo regala lui», indicando la porta chiusa. Torello prese il sigaro e gridò: «Grazie, eh, per il sigaro.» «Non c’è di che» disse l’uomo affacciandosi con la sola testa alla porta e guardandolo brutto, «volete anche quest’accappatoio;… oppure volete questa borsa;… o preferite quest’astuccio; è d’oro.» Così, a modo suo, gli dava una lezione. Torello arrossì fino alle orecchie e la porta si chiuse. Torello mi guardò, strizzò l’occhio e si slanciò dietro la bionda che intanto si era avviata verso il mare. Dalla cabina lo vidi raggiungere la bionda, parlarle e poi prenderla per un braccio. Non credevo ai miei occhi e adesso, quasi quasi, gli davo ragione. La bionda dimenava i fianchi e le spalle, aveva un corpo snodato, senza muscoli né ossa, come di gomma. Entrarono nell’acqua, il mare era mosso, un’ondata li investì e, quando l’onda fu passata, vidi la bionda tra le braccia di Torello, che gli si aggrappava al collo e rideva. Poi si allontanarono e li persi di vista. L’uomo uscì dalla cabina, in costume a due pezzi, bianco e nero. Era corto di gambe, bianco come il lardo, con le cosce nere di pelo e tutta un’imbottitura di pelo sul petto. Aveva un giornale in mano e il solito sigaro in bocca. Non andò al mare ma si fece portare una seggiola a sdraio davanti la cabina, vi sedette e spiegò il giornale. In quel momento Torello e la bionda uscivano dall’acqua scherzando e dandosi spintoni. L’uomo li guardò, poi aprì il giornale e cominciò a leggere. La bionda risalì la spiaggia fino all’uomo e venne ad accovacciarsi accanto a lui. Torello prese, in mezzo alla spiaggia, ad eseguire gli esercizi ginnici: avanti, indietro, da un lato, dall’altro, tutto per farsi ammirare dalla bionda. Allora io andai a fare il bagno e per un’ora non mi occupai più di loro. Al mio ritorno trovai Torello già vestito e impaziente. «Ma dov’eri; presto, vestiti: loro sono già a mangiare.» Mi vestii e lo seguii fuori dello stabilimento, al ristorante. I due stavano a tavola, in fondo ad una lunga pergola gremita di gente. Torello, difilato, andò a sedersi ad un tavolo vicino al loro. L’uomo disse ad alta voce a Torello: «Perché sedervi al tavolo accanto;… potete addirittura sedervi al mio tavolo.» Al solito, lo canzonava; ma Torello è così stupido che fece un gesto come per accettare; senonché l’uomo proseguì: «Oppure desiderate che io me ne vada e vi lasci solo con la signora;» Torello sedette accanto a me e per un pezzo non aprì bocca. Mangiammo in silenzio; ma alla frutta la bionda approfittò d’un momento che l’uomo non guardava e sorrise a Torello. Rinfrancato, egli si fece portare una bottiglia di Frascati spumante e con la bottiglia in mano si alzò e andò verso il tavolo accanto. La bionda scoppiò a ridere vedendolo arrivare. L’uomo alzò gli occhi e guardò Torello. «Vogliamo bere insieme;» disse Torello. «Che gusto c’è a guardarci in cagnesco; Beviamo e facciamo pace.» L’uomo rispose: «Date qua», e, presa la bottiglia, l’inclinò su un vaso di fiori li accanto e aspettò che tutto il vino fosse finito nel vaso; e quindi rese la bottiglia a Torello dicendo: «Grazie.» La bionda rise. Più tardi l’uomo si alzò per andare al bar e la bionda, allora, disse a Torello: «Grazie per il vino… ho apprezzato il vostro gesto.» Cominciarono così a chiacchierare del più e del meno. Torello infiammandosi sempre di più; ad un tratto l’uomo si parò tra di loro, in piedi, il sigaro in bocca e disse a Torello, abbastanza gentilmente: «Noi andiamo in pineta, volete venire anche voi;» Torello esitava, temeva una nuova canzonatura, ma la bionda lo esortò con autorità: «Se vi dice di venire, venite;» e allora accettammo. Eccoci di nuovo nella pineta. La macchina americana ci precedeva, sobbalzando dolcemente sul sentiero erboso, nel folto della boscaglia. Andammo avanti un bel pezzo; attraverso il vetro posteriore della macchina americana, vedevo le due teste della bionda e dell’uomo del sigaro, e tutto mi pareva troppo facile per essere vero. Ma Torello era eccitato e mi disse: «Ora lui va a dormire e non sono più Torello se non mi pappo quella bella pupa.» Mai l’avevo visto così antipatico. Giungemmo finalmente in una radura, in un punto solitario: pini, pini e pini d’ogni parte, e su, tra le fronde che si muovevano al vento, il cielo infuocato e azzurro. La macchina americana fece un mezzo giro mettendosi con il cofano verso il sentiero donde eravamo venuti. Torello si fermò, e tutto allegro e baldanzoso discese e venne incontro all’uomo che nel frattempo era disceso anche lui. Gli tendeva la mano, forse voleva presentarsi. L’uomo stava fermo nel mezzo della radura. Poi prese la rincorsa a due o tre metri da Torello e, tutto ad un tratto, come un ariete, si slanciò a testa bassa e gli diede una terribile testata alla bocca dello stomaco. Sicuro, con la testa, proprio un colpo da lotta libera. Torello fece come un gesto per mettersi in guardia; ma l’uomo si abbassò e gli tirò un pugno in faccia. Torello fece due o tre passi indietro e ricevette un altro pugno, questa volta di nuovo allo stomaco. Torello si appoggiò ad un pino portando una mano alla faccia. L’uomo tornò alla sua macchina, salì, accese il motore e ripartì. Mi venne quasi da ridere; e confesso che non ero scontento che Torello avesse preso quella testata allo stomaco. Poi mi avvicinai a lui e vidi che aveva la bocca piena di sangue. Si teneva lo stomaco con una mano; quindi andò dietro un pino e vomitò. Io andai alla macchina, salii e rimasi fermo un lungo momento. C’era un silenzio profondo: se ascoltavo, udivo un uccello, nel fitto del bosco, ogni tanto, fischiare. Finalmente Torello risalì anche lui, tenendosi il fazzoletto sulla bocca. Riaccese il motore e ripartimmo. Per un pezzo non parlammo. Alla fine Torello disse: «Tutta colpa di quella strega.» Io avrei voluto dire che la colpa era sua ma tacqui, tanto sapevo che non avrebbe servito a nulla. A Roma ci lasciammo e da quel giorno non l’ho più rivisto.
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